L’aria che converge, le luci che si spengono, un sibilo che si trasforma in educato rullo di tamburi. Con l’avvicinarsi del vertiginoso 17 agosto, data in occasione della quale, durante l’annuale asta di automobili organizzata da Sotheby’s presso la località californiana di Monterey, uno dei singoli pezzi più importanti nella storia di questo evento dovrà essere venduto soltanto per la seconda volta in oltre 60 anni, ad una cifra stimata sui possibili 20 milioni di dollari. E che affare straordinario, possiamo facilmente immaginarlo, avrà fatto il facoltoso collezionista in grado di trionfare nella più importante occasione d’acquisto della sua vita…
Mai sottovalutare, all’interno di una famiglia d’artisti, la differenza che può fare una singola generazione. Soprattutto quando i suoi componenti piuttosto che dipingere o scolpire s’interessano a quel campo estremamente trasversale che è la progettazione per l’industria. Campo che possiede ramificazioni verso l’utile, il dilettevole e talvolta addirittura il tragico, sulla base degli eventi che attraversano effettivamente la società. Era dunque il 1934, quando Adolf Hitler in persona diede l’ordine che per il giudizio postumo degli storici, sarebbe stato l’ultimo capace d’introdurre un cambiamento positivo nel mondo: rivolgendosi al suo conoscente, forse addirittura amico Ferdinand Porsche, che aveva abbandonato volontariamente le origini cecoslovacche per trasformarsi in onorario ed orgoglioso cittadino del Reich: “Costruiscimi una macchina che sia per tutti: economica, capiente, facile da guidare. Che sia per questo degna di ricevere l’appellativo di Volkswagen (Auto del Popolo)” Tutto questo prima delle bombe e dei carri armati, prima del sostegno all’industria aeronautica e delle pericolose altre creazioni che avrebbero portato un tale grande dell’ingegneria al processo e la condanna per i crimini di guerra, successivamente alla vittoria degli Alleati 11 anni dopo quel momento di svolta nella sua carriera. E verso la creazione di un fondamentale maggiolino, destinato a rivoluzionare ciò che fosse possibile aspettarsi da un veicolo economico in termini di prestazioni ed affidabilità. E sebbene la storia non racconti di un contributo particolarmente significativo al progetto da parte di suo figlio e futuro erede tecnologico Ferdinand Anton “Ferry” Porsche, che aveva all’epoca già 25 anni, la situazione cambia in modo significativo con la successiva e più importante creazione dei due, il prototipo, assemblato con un obiettivo per lo più pubblicitario, che sarebbe passato alla storia con il nome di Type 60K10 o molto più semplicemente, Porsche 64. Che risultava essere, sostanzialmente, l’erede diretta di visioni del mondo distinte…
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L’uccello di plastica sopra la città di tufo in Turchia
Invero sopravvalutata risulta essere, tra tutti i mezzi di trasporto aerei, la forma fluttuante della mongolfiera simbolo della Cappadocia. Utile certamente nei trascorsi, per osservare il mondo con flemma di un altro tempo, meditando sul vero significato del volo. Laddove nell’odierno mondo dei viaggi ogni cosa dev’essere rapida, sintetica, dritta al punto! Giacché non è forse vero che, tra tutti gli obiettivi di chi visita un luogo, dovrebbe figurare al primo posto lo spazio ricavato in seguito su Instagram, Facebook, Twitter e le altre montagne cave del Web? Senza ulteriori indugi, per questo, vi presento un esempio: Beautiful Destinations, canale iterativo del Tubo, che spedisce un rapido velivolo negli azzurri cieli della Cappadocia e perché… Se non allo scopo di farci conoscere i singolari paesaggi dall’alto, attraverso il tenore divulgativo che nasce da un’approccio acrobatico e ultraveloce, grazie all’approccio dell’FPV. Ecco un’idea intrigante, per quanto discutibile (almeno) in determinati ambienti. Che consiste, una volta raggiunta la destinazione dei propri desideri, nell’indossare il pratico visore che copre completamente gli occhi, per trasformarsi attraverso lo sguardo in qualcosa di totalmente diverso: l’araba fenice, l’uccello del fulmine, la bestia rotativa dei venti che prende il nome, non propriamente descrittivo, di un drone. Il cui volo in prima persona, come certamente saprete, presenta numerosi vantaggi, primo dei quali rappresentato dall’opportunità di compiere evoluzioni al limite, senza il timore di schiantarsi contro antiche formazioni rocciose e monumenti. Il che, unito a un certo lassismo delle normative vigenti (o poco rispetto delle stesse da parte dell’operatore) può qui permetterci di dare un significato diverso alla descrizione presentata sull’UNESCO del parco nazionale di Göreme in Turchia.
Patrimonio di nome e di fatto, come reso evidente dalla notevole struttura paesaggistica, frutto dei molti millenni di corrosione del territorio ad opera del vento, della pioggia e del ghiaccio, che penetrando negli spazi vuoti, si espande e disgrega la roccia neanche il friabile raccolto di una piantagione di caffè. Risultato, o per meglio dire risultati: questa pluralità di escrescenze o veri e propri pinnacoli, chiamati in geologia “camini delle fate”, attorno ai quali, sin dai tempi degli Ittiti, venne fatta fiorire e costruita l’intera locale civiltà. Che sembra invitarci a conoscerla, tra una vite in picchiata e un drammatico giro della morte, dalle molte finestre artificiali aperte nella roccia, attraverso le quali anticamente scrutavano l’avanzata di eventuali nemici gli abitanti del posto, prima di chiudere porte nascoste e rendersi formalmente irraggiungibili ai più. Mentre oramai, in questi luoghi, abitano soltanto gli uccelli, all’interno di apposite colombaie utilizzate, originariamente, per raccogliere il prezioso guano da usare come concime per l’agricoltura. Ma è al profilarsi di una riconoscibile torre, minareto della moschea di Uçhisar, che la carta di credito inizia ad avvicinarsi ai nostri pensieri, mentre pensiamo di prenotare un viaggio in Turchia…
BD-5: il lungo decollo di un micro-aereo a reazione
Per tutte le trappole in cui si rischia d’incorrere a causa del moderno approccio all’acquisto anticipato, mediante iniziative come il finanziamento sul web, la prenotazione, il preordine di un pezzo tecnologico dalle caratteristiche non chiare, c’è una ragionevole certezza in grado di offrire stabilità ai nostri cuori: quando finalmente il corriere consegnerà il pacco e noi ci metteremo ad aprirlo, con taglierino alla mano, almeno non staremo firmando il primo capitolo di una nostra possibile condanna a morte. Il che non poteva forse essere detto con comparabile certezza di tutti coloro che nel febbraio del 1971, dopo una spietata campagna pubblicitaria sulle principali riviste statunitensi del settore scientifico e ingegneristico con vivaci ed attraenti illustrazioni, inviarono il proprio acconto di 200 dollari affinché il proprio nome venisse messo in cima alla lista, gelosamente custodita dalla più nuova compagnia produttrice d’aerei iscritta nel lungo elenco delle Pagine Gialle. Frutto di un sogno e una visione, certamente disallineata dal diffuso sentire del vivere comune: che tutti coloro che ne avevano desiderio, per interesse o predisposizione personale, potessero spendere una cifra ragionevole per mettere un aereo dalle prestazioni più o meno “militari” nel proprio garage. Il che costituiva il sogno, e che sogno, di niente meno che l’eponimo Jim Bede (1933-2015) progettista aeronautico laureato all’Università di Wichita, il quale aveva saputo individuare, non senza un rilevante volo pindarico d’occasione, una delle spese maggiormente significative nel pagamento inerente della considerevole manodopera, messa in campo dalle fabbriche nell’assemblaggio finale di due ali, una coda, un motore… Laddove chiunque ne possedesse l’inclinazione poteva, almeno in teoria, occuparsi personalmente di un tale passaggio procedurale dalla complessità molto spesso sopravvalutata. Purché l’oggetto del desiderio venisse fornito completo di tutti i componenti, chiare istruzioni e una metodologia testata, ovvero appartenesse, in altri termini, all’eclettica categoria dei kit planes.
Costruirsi un aereo in casa: un proposito capace di affascinare molti di noi purché successivamente, come inquietante conseguenza del tutto, non ci si ritrovi anche a pilotarlo, magari a un qualche centinaio di metri dal suolo. Eppure notevole era stato il successo a partire dal 1961, di vendite, recensioni e affidabilità, dell’ormai leggendario BD-1, aeroplano in scatola di montaggio dall’ala alta (come un Cessna) e il design estetico convenzionale, prima che gli azionisti della sua compagnia votassero per espellerne il fondatore, con il più tipico dei tradimenti nel mondo spietato degli affari. Così già mentre la Bede Aviation cambiava nome in un più generico American Aviation, egli fu costretto a fondare una diversa e rinnovata Bede Aircraft, dalla cui cabina metaforica di pilotaggio avrebbe donato al mondo il BD-4 nel 1968, una versione perfezionata della stessa idea di base. Già iniziando a delineare allo stesso tempo, dentro i meandri della sua stessa fervida mente, le caratteristiche di quello che avrebbe costituito a detta di molti il suo più innegabile capolavoro: il fenomenale BD-5, un aereo a spinta dal peso unitario di appena 160 Kg, praticamente poco più del doppio del pilota contenuto al suo interno. O forse sarebbe meglio dire “compresso” in quell’incredibile cabina protetta da una bolla aerodinamica trasparente, non dissimile dal tipo di soluzione utilizzata in tanti aerei da combattimento della seconda guerra mondiale. Ma i punti forti elencati nelle stravaganti pagine pubblicitarie non finivano certo qui, data l’insolita configurazione con elica a spinta, generalmente riservata ai più irraggiungibili e costosissimi tra i prototipi, il tutto consegnato a casa in pratica scatola di montaggio per la ragionevole cifra di poco meno di 3.000 dollari dei primi anni ’70, ovvero circa 17.000 una volta adattati per l’inflazione corrente. Aprendo una strada, inoltre, a un qualcosa di straordinariamente inaspettato e privo di termini di paragone nel settore per così dire “casalingo”: l’iniziativa collaterale di sostituire, in una fase successiva, un simile motore retroattivo con un vero e proprio jet. Per sentirsi un po’ tutti, alla stregua di veri e propri Chuck Yeager delle supersoniche circostanze…
Parla su Internet l’ultimo erede ninja del leggendario clan Koga
Nello spazio della tipica casa rurale, con gli shoji semiaperti per lasciar entrare il sole della primavera, un uomo in abito tradizionale arringa la sua ospite dallo sguardo rapito. Con un sorriso sereno, a un certo punto, raccoglie un cerchio di metallo con il filo più tagliente di un coltello da cucina: “Vedi come funziona? Si metteva attorno al braccio o al collo del nemico.” Segue dimostrazione pratica, “E nel momento in cui tentava di resistere, avresti tirato con forza… Così!” Morta e viva nello stesso tempo, la ragazza emette un sibilo di apprezzamento. Conta gli arti: uno, due… Quattro, tutto a posto. “Adesso andiamo un attimo in cortile. Ti spiegherò perché Naruto correva con le braccia parallele al suolo…”
Limpido e diretto è lo sguardo della dea del Sole Amaterasu, capostipite ed eterna protettrice della più lunga ininterrotta dinastia di governanti nella storia del concetto di nobiltà umana. In ogni luogo, tranne questo: dove lo splendore dei suoi raggi, colpendo l’appuntita sommità lignea dell’antico santuario di Ise, deviano nel dare luogo a luci ed ombre, che si estendono verso le valli geograficamente adiacenti. Dando luogo alle leggende di regioni popolate da creature subdole dei fiumi e delle foreste, striscianti kappa, possenti tengu e tutta la compagine restante dei superbi mononoke. O secondo una diversa e più credibile interpretazione, soprattutto grazie al filtro della razionalità contemporanea, intere famiglie di quegli uomini e donne che, addestrandosi in segreto, coltivarono le arti oscure, sfruttando tale fama leggendaria per portare a termine un’estrema varietà di missioni. Torniamo per un attimo nell’era del Paese in Guerra (Sengoku Jidai: 1467-1603) durante la quale un susseguirsi di generazioni dei signori della guerra, e particolarmente i più potenti tre individui parte della loro grande famiglia, plasmarono dal Caos l’immagine ideale di un paese totalmente unito e pronto ad affrontare le agitate onde tempestose della storia. Agendo, in molti casi, con l’aiuto rinomato di due “scuole”, se vogliamo veramente definirle tali, ciascuna con il nome derivante da un toponimo dell’odierna prefettura di Mie: Iga e Koga. E voleva la leggenda che diverse fossero le loro tecniche, elaborate tramite lo studio della mente e della psicologia umana. Così che gli Iga, esperti infiltratori e spie, operassero al di là delle linee nemiche per raccogliere prevalentemente informazioni utili ad elaborare un qualche tipo di strategia di guerra. Mentre nel contempo i Koga, più diretti e spietati, preferissero attuare sabotaggi o veri e propri assassini, al fine di minare in modo più diretto la capacità bellica del clan rivale. D’altra parte, tanto popolare resta la visione di un dualismo percepito tra uomini nascosti e tipici guerrieri, con i primi capaci di agire al di fuori delle rigide norme comportamentali del codice d’onore, per colpire i secondi nel modo più imprevisto e doloroso, guadagnandosi istantaneamente un posto d’onore nell’inferno delle loro reincarnazioni future. Ma chi è addentro alla questione, come l’esperto divulgatore Jinichi Kawakami, ben conosce la realtà che permette d’interpretare Iga e Koga come due facce della stessa medaglia. Così come, nella più profonda ed ignorata verità dei fatti (sia all’estero ed in patria) le categorie sociali percepite come particolarmente distinte di ninja e samurai. Laddove se volessimo attualizzarne le caratteristiche, potremmo ben dire che si tratta concettualmente di una distinzione come quella tra soldato semplice e un membro con addestramento delle forze speciali. Laddove il secondo mai e poi mai, si sognerebbe di considerarsi fuori dal proprio stesso contesto di formazione…



