Quello che si scopre immediatamente andando in cerca d’informazioni sui princìpi pratici della selvicoltura, con particolare attenzione al taglio d’ingombranti alberi per le ragioni più diverse, è un impressionante quantità d’esperti pronti a commentare l’uno o l’altro metodo d’intervento, al punto dal lasciar sorgere un serpeggiante sospetto. Che non proprio tutti, tra coloro che sembrano avere qualcosa da dire, parlino effettivamente col criterio che deriva dall’esperienza, a causa puro e semplice funzionamento della mente umana: poiché a tutti piace risparmiare sui costi non propriamente trascurabili di affidarsi a una compagnia specializzata, per non parlare di quel senso di soddisfazione, più o meno motivato, che scaturisce dal risolvere un significativo problema contando unicamente sulle proprie forze. Inoltre, grazie alla grande distribuzione e gli acquisti online, il costo di una motosega continua progressivamente ad abbassarsi… “Insomma, quanto può essere difficile, alla fine?” Ciò potrebbe anche pensato, come molti altri, l’autore di questo video Jeremy Cadotte, nell’approcciarsi ad un abete del Colorado che sembrerebbe proprio aver visto tempi migliori, tanto da giustificare la sua rimozione prima che potesse creare dei problemi seri. Un albero già morto, e derelitto, con uno spazio cavo alla base tale da costituire una silenziosa minaccia immediatamente percepibile da qualsivoglia boscaiolo esperto. Ed in effetti non sappiamo cosa può essere passato nella mente di quest’uomo, né dire di conoscere la sua esperienza pregressa in materia. Ma alcuni dei commenti alla sequenza sembrerebbero aver correttamente individuato un certo numero di scelte operative non propriamente ideali, potenzialmente dovute alla mancanza di macchinari o strumenti più sicuri. Fino al preciso momento in cui l’albero in questione, raggiunto il punto critico in cui risulterebbe opportuno gridare preventivamente “Cade!”, prende letteralmente una piega inaspettata, iniziando a spezzarsi lungo l’asse verticale. Ed in questo modo un terzo del pericoloso vegetale si solleva, dal basso verso l’alto e indirizzandosi di lato, mentre l’altra parte si spezza e cade verso in direzione diametralmente opposta. Mentre il taglialegna terrorizzato, rialzandosi frettolosamente dalla posizione seduta, lascia la sega elettrica e tenta disperatamente di mettersi in salvo correndo via a perdifiato. Esattamente come viene consigliato fare (meno l’inciampo a terra) in tutti quei casi in cui si verifica la situazione chiamata in gergo barber-chairing, ovvero della “sedia da barbiere”.
La metafora è piuttosto intuitiva, per quanto del tutto inaspettata. Costituendo un diretto riferimento al tipo d’implemento tradizionalmente utilizzato dai tagliacapelli, con schienale ribaltabile al fine di posizionare meglio il proprio cliente, con un’azione simile a quella naturalmente realizzata dal pezzo di tronco che dovesse iniziare a spezzarsi in siffatta maniera. Un’eventualità niente meno che diabolica, perché tende a svilupparsi proprio nella direzione opposta all’indentatura triangolare a forma di “V” (il cosiddetto notch) effettuata dal boscaiolo per favorire la caduta dell’albero in una particolare direzione, un po’ come il calcio di un equino recalcitrante nei confronti del suo addestratore. Immaginate dunque l’effetto di svariati quintali di legno che agiscono come una leva, indirizzando l’altra estremità dell’oggetto oblungo verso la testa di una persona che si era posizionata nel punto normalmente più sicuro da cui osservare l’esito dell’impresa.. Le opportunità d’incidenti gravi di sicuro non mancano, e non vi sorprenderà scoprire proprio questo fenomeno come uno di quelli alla base delle statistiche che ritrovano ogni anno la professione del taglio d’alberi come una delle più pericolose al mondo. Un rischio così eccezionalmente comune ed imprescindibile, da far suggerire l’impiego di grandi macchinari ogni qualvolta se ne riconoscono i segni preventivi, sebbene ciò non possa risultare sempre egualmente praticabile sulla base della situazione di contesto. Specie quando si considera come talvolta, la causa scatenante sia proprio l’apparente piegatura di un tronco nella direzione in cui si desidera farlo cadere. Una letterale trappola invitante, che può in realtà far prendere una piega nefasta allo sviluppo degli eventi futuri…
caduta
1984: la leggenda della scatola straordinaria
Casi a seguito dei quali il nostro mondo, o luoghi di universi alternativi simili soltanto in apparenza, avrebbero potuto vivere un presente profondamente diverso: la carrozza centrale di un treno, posta in tale posizione proprio per minimizzare il rischio d’incidente, inizia lentamente a deragliare all’insaputa del macchinista, all’interno di un tunnel stradale sotterraneo. Data la gravità soltanto relativa dell’evento, il sistema di sgancio automatico entra in azione, evitando temporaneamente il disastro. Ma poco dopo che la parte frontale del treno è uscita dal pericolo, quel contenitore ricolmo di acido idroclorico si adagia su un fianco, mentre le scintille generate dall’impatto appiccano il fuoco al liquido che fuoriesce sui binari. Nel giro di pochi minuti, l’incendio si propaga agli altri vagoni, contenenti per un caso avverso del destino carichi di carta ed altro materiale infiammabile. Il pertugio illuminato a giorno, a questo punto, si trasforma in un inferno: per cinque giorni e cinque notti le fiamme regneranno incontrastate al suo interno, prima che i vigili del fuoco possano riuscire, finalmente, a fermarle.
Questa è la vera storia dell’incendio del tunnel di Howard Street, a Baltimora nel Maryland, verificatosi nel corso del 2001, il quale se si fosse svolto circa una ventina di anni prima, avrebbe avuto possibili conseguenze di portata decisamente più grave. Poiché all’epoca, la fiducia nella tecnologia era decisamente più elevata e tutti credevamo, nostro malgrado, che fosse possibile racchiudere un qualcosa e difenderlo da ogni possibile avversità del trasporto. Volete una prova? Basti ritornare, con la memoria, al memorabile caso dell’Operazione Smash Hit, famosa prova tecnica finale nonché evento propagandistico, condotto con notevole successo mediatico dall’Ente Centrale per la Generazione dell’Elettricità inglese in un fatidico 17 luglio, dopo i circa 4 anni di preparazione a partire dal 1980, per creare il Contenitore Perfetto in Terra: Nuclear Flask o “fiasca” nei fatti un letterale crogiolo di metallo simile a un cassonetto con lo spessore di 370 mm, racchiuso in un involucro di cemento a sua volta foderato da ulteriore metallo con alette di raffreddamento per un peso complessivo di circa 30 tonnellate. Il tutto sigillato con saldature o bulloni speciali, affinché nessuno potesse essere in grado, neppure utilizzando i più avanzati strumenti, di aprirlo. E perché mai avrebbe dovuto farlo, d’altra parte… Visto il contenuto assolutamente indegno di esistere, se soltanto dovessimo stabilire una graduatoria basata sulla pericolosità inerente: uranio-233, uranio-235 e plutonio-239 raccolti in pratici pellet, a loro volta inseriti in tubi di metallo da inserire all’interno delle vasche usate nel processo di generazione dell’energia nucleare tipico dei reattori di tipo Magnox usati nell’Inghilterra di allora. Ed ormai inutilizzabili poiché già soggetti alla trasformazione, benché ancora pericolosi per ogni essere vivente e destinati a restarlo, per quanto ci è dato di sapere, per un periodo approssimativo di 24.000 anni. Ecco dunque l’idea di far corrispondere a tale remota finalità un’azione ingegneristica direttamente opposta, dedicata alla costruzione di un qualcosa la cui sacralità niente o nessuno potesse pensare, anche soltanto in in linea di principio, di riuscire a violare! Ma FARE non è sempre sufficiente, quando occorre soprattutto FAR SAPERE a tutti che una determinata cosa è sicura e dovrà essere considerata tale dal vasto pubblico, pena il generarsi di proteste, contrattempi e cambi al vertice dei partiti politici che controllano il paese. Il che avrebbe ad un certo punto portato, all’apice degli anni del thatcherismo, al bisogno percepito di un qualcosa di eclatante, che potesse dimostrare l’assoluta perfezione dei livelli di prevenzione raggiunti, attraverso l’impatto ad alta velocità del treno stesso, non così profondamente dissimile da quello del tunnel in Maryland, contro l’invincibile oggetto di tante immotivate (?) preoccupazioni…
La ripida questione gravitazionale a carico di pecore, bovini e capre
Mio caro Keplero, cosa si può dire dei principali filosofi che rifiutano di osservare i pianeti, la Luna e perfino il mio telescopio? Affermò qualcuno, per cui la frase prototipica “Eppur si muove!” Avrebbe costituito più correttamente una dichiarazione programmatica, piuttosto che l’effettiva citazione di un’effettiva contingenza colloquiale (l’attribuzione, d’altra parte, resta incerta). Ma neppure Galileo, con l’attenzione che rivolse all’innegabile ma tanto dubitata danza dei pianeti attorno al Sole, dedicò un capitolo all’effetto delle orbite sui corpi dei quadrupedi di questa Terra. Ciò che il naturale senso d’attrazione dell’esimio successore Isaac Newton, nato per un caso l’anno esatto della sua morte (1642) avrebbe definito legge di gravitazione universale, osservandola in azione per l’effetto proverbiale della mela, simbolo di altri giardini della Conoscenza. Eppure ciò che sai non deve affatto corrispondere a quello che sei, ovvero in altri termini l’effetto delle leggi di natura, ordini fondamentali dell’ingegneria, sulla cupa e incerta monade della tua vita in fattoria. Ecco spiegato, dunque, l’arcano: del perché una pecora caduta può rialzarsi o meno, ma questo dipende in senso lato… Dalle circostanze.
Salviamogli la vita, dunque, assieme ad Andy Nickless nel suo video dimostrativo, corollario a margine di un portale sull’addestramento dei cani da pastore, in cui viene affrontata una questione che in molti, tra coloro che lavorano assieme agli ovini, avranno già potuto conoscere direttamente. Eppur non credo di affermare nulla di tanto improbabile, nella costruzione dell’ipotesi secondo cui una minima percentuale degli odierni abitatori urbani abbiano effettiva familiarità con il concetto della cosiddetta cast sheep: pecora caduta, pecora che ha perso il baricentro e per un caso avverso della vita, si è trovata zampe all’aria. Senza nessun tipo di speranza nei confronti dell’indomani. Potrebbe questo definirsi, d’altra parte, un concetto largamente contro-intuitivo, laddove il caso della tartaruga è assai più chiaro data l’assenza di gradi di mobilità in relazione alla spina dorsale, racchiusa in una scatola immutabile quanto (idealmente) sicura. Ma il punto che a ragione d’essere discusso, e analizzato, è in definitiva proprio questo: cosa centrano articolazioni e muscoli, quando si parla della forza imprescindibile che attrae ogni cosa verso “il nesso” di metalli incandescenti al centro di ogni cosa, nocciolo invisibile della questione? Ecco perché il cruccio della pecora ha un’origine, di contro, interno alle ragioni della sua esistenza. O in altri termini, la forma fisica immanente, ovvero quello che la rende bilanciata, in forza di un’evoluzione traditrice, interamente nella cima del suo corpo candido e peloso, in modo tale che un’inclinazione, barcollìo, assenza momentanea di prontezza muscolare può portare alle ragioni di un cappottamento, irrisolvibile quanto finale, in potenza. Triste visione, quest’ultima, la cui probabilità aumenta in modo esponenziale quando la pecora è dotata di troppa lana o per sua sfortuna incinta, rendendo ancor più difficile qualsivoglia approccio verso una belante possibilità di salvezza, dato l’estendersi della sua sacca uterina lateralmente, con ulteriore aggravio del problema. Voltare una pecora caduta in conseguenza di tutto questo, un’operazione normalmente effettuata mediante una salda presa del suo manto come ci spiega Nickless, subito seguìta dalla sosta di uno o due minuti affinché l’animale si calmi e ritrovi l’equilibrio, corrisponde molto spesso a dargli una seconda opportunità. Anche perché una volta lasciata alla sua mera incapacità di farlo, essa troverebbe un imminente soffocamento dovuto all’accumulo di gas derivanti dalla fermentazione della materia vegetale ingerita e custodita all’interno del suo stomaco, drammaticamente impossibilitata a procedere verso la fase successiva della digestione. Molto sconsigliato, invece, resta il gesto di afferrarla per le corna, parte sorprendentemente delicata della pecora che può facilmente danneggiarsi o peggio, spezzarsi.
Detto questo è altrettanto probabile, purtroppo, che l’animale spaventato dall’avvicinarsi di uno sconosciuto mentre si trova in tale condizione vulnerabile possa indebolirgli le zampe, causando un’ulteriore e ancor più rovinosa caduta, ragion per cui la Farmers’ Union of Wales (FUW) consiglia di rivolgersi direttamente al pastore quando ci si scopre al cospetto di un incidente di questo tipo, benché ciò non risulti sempre possibile in determinate circostanze. Detto ciò, la tempestività resta importante, pena l’arrivo a un certo punto di fameliche gazze o corvi. Non che tutti, del resto, siano altrettanto ansiosi di vedersi attribuito un qualche tipo di karma positivo piuttosto che suscitare il cruento sorriso del Demonio…
L’impossibile primo balzo dell’oca artica dalla faccia bianca
Ciò che permette alla vita di evolversi, migliorare se stessa e adattarsi alle necessità primarie dell’esistenza. Dura lex, sed lex: poiché non può esservi alcun tipo di clemenza, dinnanzi al severo tribunale della natura. L’intangibile istituzione, più o meno divina, la cui direttiva principale può giungere a prevedere che anche il pulcino dell’oca artica, più graziosa ed inoffensiva delle creature, debba nascere col compito di affrontare un esame necessario al guadagnarsi il diritto di esistere in questo mondo. Ma non all’età di un anno, di un mese oppure una settimana. Bensì soltanto 24 ore (48 al massimo) dal momento stesso in cui mette la testa fuori dall’uovo, al fine di poter accedere alla sua unica, drammaticamente remota forma di sostentamento: la valle erbosa. E quando utilizzo siffatta metafora di tipo scolare, sia chiaro che intendo la più difficile prova sul sentiero di qualsivoglia creatura dotata di piume, becco e un gran paio di piedi palmati: staccarsi da terra e… Volare. Con un apertura alare di qualche centimetro? Senza neanche l’accenno di quegli alettoni direzionabili che sono le piume remiganti? In assenza di correnti ascensionali, reti di sicurezza o una piccola piscina per attutire il colpo, come avveniva in alcune esibizioni circensi dei primi del Novecento? Proprio così. Al punto che un termine maggiormente descrittivo, volendo, potrebbe essere individuato nell’espressione “cadere”. Come la scintillante sfera metallica di un flipper, con la scogliera al posto dei respingenti, e il numero di contusioni a influenzare il bonus dell’high score finale.
Il problema essenzialmente è sempre lo stesso: che per ciascuna nicchia ecologica o ambiente, lo stesso accennato processo genera non una, bensì un pluralità creature profondamente intenzionate a raggiungere il momento fondamentale dell’accoppiamento. Incluse specie carnivore, s’intende. Proprio come, nel caso dei remoti luoghi usati come siti riproduttivi dalla specie aviaria Branta leucopsis, “piccoli” problemi quali la volpe artica, l’orso polare e uccelli carnivori (ad es. gabbiani e stercorari). Il che ha portato ogni aspirante madre di un tale consorzio biologico a ricavare lo spazio per il nido in recessi progressivamente più inaccessibili della scogliera, lassù in alto, la dove il vento ulula e il sole abbaglia gli occhi di chiunque tenti di arrampicarsi attraverso l’impiego di metodi convenzionali. Ecco dunque, l’origine del dramma: poiché contrariamente al quasi ogni altra tipologia di uccello, l’oca non conosce alcun modo per trasportare la materia vegetale commestibile a portata del becco della sua prole, generalmente composta da 4-5 piccoli a stagione, il che comporta che essi, fin dal primissimo momento, debbano procurarsela da soli. Ma non c’è nulla, sulla scogliera, tranne sogni infranti e il vertiginoso baratro che sembra chiamarli, con insistenza potenzialmente assassina. Che cosa fare, dunque? La risposta è soltanto una. Le chance sono poche, pochissime. Ma sempre superiori allo 0% di qualunque pulcino dovesse essere abbastanza prudente, o folle, da scegliere di restare passivo fino all’inevitabile deperimento e lenta morte d’inedia…