L’ampliamento esponenziale dell’isola più sovrappopolata d’Oriente

In una delle storie più famose sull’origine dell’isola di Bungin, il più giovane di dodici fratelli venne preso in trappola durante una battuta di pesca dai pirati di Johor, nell’epoca di poco antecedente alla grande eruzione del vulcano Tambora dell’anno 1800. Il suo nome era Mbo Salina e si trattava di uno scaltro negoziatore ed abile guerriero. Se non che, convinti i suoi rapitori che li avrebbe aiutati contro il popolo della terra ferma che oggi corrisponde alla provincia di Sunda, li convinse a lasciarlo andare senza chiedere nessun riscatto, per poi diventare il loro più pericoloso avversario. Una nuova comunità addestrata ed attrezzata dalla sua famiglia per difendersi, a quel punto, sorse presso la scogliera dove fino a quel momento i pescatori portavano ad asciugare le reti, ampliata grazie all’uso di rocce di corallo morte prelevate dal fondale dell’Oceano Indiano. E ad ogni scorribanda proveniente da Johor, gli abitanti rispondevano col fuoco e l’unità di coloro che sapevano bene come proteggere i propri territori. Si narra tuttavia che all’arrivo dei coloni Olandesi, prevedibilmente interessati ad allargare il proprio impero commerciale, il ruolo e le intenzioni di Mbo Salina vennero completamente fraintesi. Così che pensando che potesse essere un connivente degli stessi fuorilegge che per tanto tempo aveva combattuto, lo fecero prigioniero ed impiccarono sulla pubblica piazza. Un epilogo senz’altro infelice, che tuttavia non avrebbe impedito alla sua gremita comunità di continuare a prosperare, composta primariamente da appartenenti a quello che oggi prende il nome di popolo dei Sama-Bajau, spesso soprannominati gli zingari del mare. Benché non siano tutti vagabondi, e certamente non lo furono costoro, che attraverso le generazioni perpetrarono l’usanza così eccezionalmente caratteristica della reggenza (Comune) di Sumbawa, al punto da esser giunta a costituire la principale attrazione turistica dell’intera regione. Per essere una comunità abitativa super-affollata e priva di regolamenti edilizi, l’isola di Bungin oggi occupata da 5.025 abitanti in poco più di 21 acri (densità: 59.100 persone al Km quadrato) appare infatti sorprendentemente pulita, sicura ed accogliente nei confronti degli stranieri. Nonché ragionevolmente priva di quelle implicazioni di sofferenza e disagio sociale che sembrano inscindibili da luoghi simili in altre parti del mondo, nonostante l’evidente assenza di risorse pecuniarie. Il che in un’epoca come la nostra e un paese come l’Indonesia, può anche essere un punto di forza, capace d’incrementare ulteriormente i presupposti d’indipendenza che da sempre caratterizzano e ricompensano le scelte di vita di questa gente: solidarietà, coordinazione e comunione d’intenti, ai margini di una società mutevole e del tutto indifferente alla precorsa evoluzione degli eventi. Difficile immaginare, d’altra parte, un luogo simile senza l’usanza tipicamente indonesiana del gotong-royong o lavoro comunitario (letteralmente “portare il peso sulla spalla d’altri”) consistente nell’assistenza fornita spontaneamente da un gruppo familiare nei confronti di un altro, in tutti quei momenti in cui dovesse presentarne l’immediata ed evidente necessità. Come quello, tutt’altro che infrequente da queste parti, della costruzione di una nuova abitazione successivamente all’unione in matrimonio, fondata su una serie di passaggi estremamente caratteristici e tradizionali. Ciò perché l’abituale dimora sulle palafitte dei Sama-Bajau, oggi giorno, può trovare posto solamente ad est e ad ovest della terra ferma, in corrispondenza di un fondale ormai troppo profondo per poter poggiare direttamente. Così che si è fatto ritorno all’antica metodologia, già utilizzata nel XIX secolo, di costruire terrapieni riempiti con corallo ed altre pietre calcaree, trasportate faticosamente con le barche a remi e usate per costituire le fondamenta. Sopra un tale zoccolo, conseguentemente, verrà in seguito edificata la struttura lignea della capanna, con una coordinazione collettiva che ricorda vagamente quella degli Amish americani.
Nient’altro che il passaggio maggiormente rappresentativo, di uno stile di vita organizzato su ritmi e presupposti drasticamente distintivi, con il principio basilare individuabile nell’imprescindibile interdipedenza di questa gente nei confronti del vasto mare. Pur potendo disporre, d’altra parte, delle vaste e largamente disabitate terre dell’arcipelago di Sunda direttamente a meridione dell’insediamento, per quale ragione costoro avrebbero dovuto decidere di ricavarsi uno spazio acquistando il potenziale terreno agricolo dai proprietari dell’entroterra, per poi dover combattere la marea ogni volta che intendevano uscire a pesca? Molto più logico continuare a fare ciò che avevano sempre preferito i loro antenati. A costo di rinunciare a piccoli “dettagli” come la privacy, lo spazio vitale, magari un piccolo giardino sull’uscio di casa…

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L’eccellenza immutata nei secoli dell’aratro manuale andino

Quando si osserva la serie di fattori che avrebbero permesso, tra il XII e il XVI secolo, alla civiltà degli Incas di emergere come principale dominatrice della sua area geografica nell’Età Precolombiana, giungendo a stabilire un predominio pari o superiore a quello di un antico impero di matrice indoeuropea, è semplice individuare l’importanza di poter portare sostentamento, e prosperità, mediante l’applicazione di una serie di sistemi e metodologie agricole particolarmente distintive. Distribuiti attraverso un paesaggio molto vario e non particolarmente accogliente o fertile, al punto da costituire secondo la definizione dell’antropologo John Victor Murra un “arcipelago verticale” essi riuscirono a creare un metodo di organizzazione del lavoro in cui l’economia del baratto, comunque presente, era subordinata alla concessione e conduzione di corvèe, nei confronti degli ayllu o clan familiari e sempre in base alla fondamentale regola della reciprocità. Questo perché una costante, più di qualsiasi altra, accomunava i diversi recessi comunitari delle diverse istituzioni amministrative: la necessità di lavorare molto duramente, trasformando in modo significativo la natura, affinché potesse anche soltanto iniziare a piegarsi alle necessità della gente. Immaginate dunque un mondo in cui non esistevano bovini, né cavalli o altri animali capaci di assolvere a mansioni pesanti. Né d’altra parte, i remoti recessi montani ove trovava collocazione il terreno fertile sarebbero stati raggiungibili da altri che i singoli esseri umani. Come avreste proceduto voi, verso l’obiettivo di smuovere la terra compattata da solide radici erbose, al fine di prepararla per piantare gli imprescindibili semi di patata, quinoa, pomodori, peperoni e mais? La risposta a questa specifica domanda, lungo le catene montuose che seguivano la costa pacifica del Sudamerica, avrebbe dunque assunto la forma di un riconoscibile strumento, che forse ai conquistadores provenienti dall’Europa avrebbe potuto apparire con l’aspetto di un’alabarda o altro tipo di rudimentale arma inastata, finché non avessero notato la maniera in cui veniva sfruttato nel contesto per il quale aveva ricevuto un millenario perfezionamento. Un passo indietro, un colpo obliquo, il piede posto a premere sopra l’apposito punto d’appoggio, mentre la testa dell’attrezzo in pietra o d’osso penetrava in modo significativo nella dura terra. Un passo indietro, un colpo obliquo… Sempre uomini e di un’età sufficientemente giovane, perché la forza fisica richiesta era senz’altro significativa, mentre le loro mogli, sorelle o figlie si occupavano di seguirli spostando a lato la terra smossa, preoccupandosi allo stesso tempo di gettar nel solco le sementi ricavate dal raccolto precedente. Un’opera non meno spossante, sia ben chiaro, soprattutto alle altitudini e con l’ossigeno rarefatto dei più elevati campi coltivabili, dove è stato rilevato che nessun altra mansione fosse altrettanto dispendiosa, in termini energetici, che la preparazione di un singolo andén (plurale andénes) o terrazzamento agricolo intagliato direttamente nel fianco scosceso della montagna.
La prima rappresentazione grafica che abbiamo della cosiddetta chaquitaclla o tirapie risale dunque all’opera del nobile quechua Felipe Guaman Poma de Ayala, famoso per essere stato l’interprete e assistente del frate Cristóbal de Albornoz durante la sua complessa campagna religiosa condotta tra il 1560-70, nel tentativo di eradicare la setta del Taki Unquy, un gruppo di indios convinti che gli spiriti wak’as delle Ande, inquieti per la progressiva diffusione del cristianesimo, avessero iniziato a perseguitare le persone, costringendole ad effettuare una sorta di danza selvaggia simile alla possessione del demonio. Nella sua famosa opera Nueva corónica y buen gobierno, ricca d’illustrazioni estremamente dettagliate nonostante fosse privo di una formale preparazione artistica, compaiono alcuni lavoranti intenti ad impugnare una versione perfettamente riconoscibile di tale attrezzo, in ogni aspetto tranne lo strano manico dalla forma spiraleggiante, forse concepito al fine di favorirne l’impugnatura in ogni fase del duro lavoro. Ma che per il resto, non sarebbe apparso in alcun modo differente dalla versione destinata ad essere impiegata per i molti secoli a venire e che in talune circostanze o contesti geografici, viene utilizzato tutt’ora…

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La sublime strategia danzante della doppia spada coreana

Cultura dalle profonde implicazioni marziali persistentemente soprassedute nella continua ricerca d’ispirazione del mondo moderno, fatta eccezione per alcune produzioni nazionali che sono state capaci di penetrare il velo d’ingiustificata indifferenza, la maggiore penisola dell’Estremo Oriente possiede, all’insaputa di molti, un ricco repertorio di ritualità finalizzate a celebrare un simile carattere delle pregresse attività guerriere. Compresa quella, decisamente atipica, di un assassino inviato presso la corte di un antico sovrano. Hwang Chang era il nome di quel giovane, dotato di una grazia nei movimenti senza pari nella sua epoca ed in quelle precedenti, al punto che il suo particolare modo d’esibirsi era diventato celebre in tutto il regno di Silla, superando i confini fortificati di quell’epoca di guerra e raggiungendo la corte della nazione rivale di Gogureyo. Al punto che, secondo la leggenda, il suo nome attrasse l’attenzione del potente sovrano di quest’ultima, la cui identità non viene chiaramente identificata nella narrazione ma potremmo preventivamente associare alla figura di Anjang (519-531) morto in circostanze dubbie e senza lasciare nessun tipo d’erede. In seguito al drammatico epilogo e gli eventi, totalmente inaspettati, che ebbero modo di verificarsi nella teatrale contingenza tanto lungamente paventata. In cui l’artista del momento musicale, facendo seguito a un impulso patriottico frutto della propria eredità culturale, balzò agilmente sopra il podio dove si trovava il trono. E con un fluido movimento, pugnalò il Re al cuore.
Difficile immaginare, in effetti, il tipo di situazione in cui un monarca supremo di matrice estremo-orientale accetterebbe di lasciarsi avvicinare da un guerriero armato di spada, tra l’assoluta e continuativa indifferenza delle proprie guardie del corpo. A meno di trovare quel frangente, a discapito della sua stessa incolumità, sufficientemente notevole o interessante. Ed è indubbio che la Geommu (검무, letteralmente: danza della spada) possedesse fin dall’origine tali caratteristiche, così come venne immediatamente ripresa e celebrata successivamente dal popolo di Silla, con l’obiettivo di commemorare il compianto eroe subito dopo messo a morte dai guerrieri del regno di Gogureyo. In un tipo d’esibizioni forse prive della complicata coreografia delle epoche successive, ma che possedevano un intento narrativo più evidente e proprio per questo, prevedevano l’utilizzo di una maschera plasmata sull’aspetto (reale o presunto?) dell’ormai morto e sepolto Hwang Chang. Non c’è poi molto da sorprendersi, negli anni successivi, se una simile sequenza di coreografie ormai diventata tra le più famose e utilizzate danze delle corti medievali coreane mutò parzialmente perdendo l’originale significato: chi mai vorrebbe celebrare, di fronte ai propri vassalli, l’eventualità futura del proprio assassinio… Ma quel senso di minaccia, inerente nella figura di uno, due, quattro, se o otto ballerini allo stesso tempo, ciascuno armato di una coppia di sfolgoranti Ssangdo (쌍도 – spade gemelle) fatte mulinare secondo un preciso codice attentamente coreografato, non sarebbe mai davvero passato in secondo piano. Rimanendo, in un certo senso, una delle componenti maggiormente affascinanti di questo particolare tipo d’esibizione. Che negli anni successivi mutò ancora, fino al perfezionamento verso l’inizio della lunga e stabile dinastia di Joseon, responsabile di aver unificato il paese a partire dall’anno 1392. In modo particolare con la nascita della figura professionale delle kisaeng o gisaeng (기생) ragazze di umili origini addestrate fin dalla giovane età al complesso ruolo di cortigiane, in una maniera e con priorità molto spesso paragonate a quelle della geisha giapponese. Sebbene gli elementi esteriori interconnessi alle loro partecipazioni sociali fossero sostanzialmente differenti e quello della danza delle spade Geommu non ne rappresenta altro che uno dei maggiori e più continuativi esempi attraverso gli oltre cinque secoli rilevanti. Immaginate, a tal proposito, la fiducia che doveva essere riposta in queste danzatrici, per potergli permettere di trasportare un letterale arsenale di fronte ai facoltosi committenti del mondo in cui erano costrette a muoversi per nascita ed eredità delle proprie famiglie…

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L’oscuro potere spirituale delle sette bambole sepolte dai Maya

Contando e ricontando in modo rituale quanto si trovava all’interno del recipiente di fibre vegetali intrecciate, il Sommo Sacerdote volse ancora una volta lo sguardo ad Oriente. Ancora pochi attimi, lo sapeva molto bene, e la parete opposta si sarebbe illuminata dello sguardo sacro del sommo Spirito capace d’influenzare la vita, religiosa e secolare, della sua intera schiera di prestigiosi seguaci. Il sovrano e la sua famiglia, i funzionari regionali e gli addetti alla pianificazione pubblica in evidente stato di fervore religioso, mentre il popolo moriva di fame. Erano finalmente pronti ad inchinarsi, adesso, al suo segnale! L’altare di venerazione sollevato e messo da una parte, con un compartimento simile ad un tubo aperto in solenne attesa di ricevere quanto dovuto. Ancora una volta, Colui che aveva ricevuto tale incarico toccò in rapida sequenza il principio maschile dall’enorme fallo d’argilla, circondato dalle sue sei consorti scolpite nello stesso materiale, ciascuna caratterizzata da un diverso tipo di deformità fisica, importante segno della divinità. Ancora pochi minuti adesso, è quasi giunto il momento. Di nascondere tali entità agli occhi del mondo, per ora e fino alla fine dei giorni…
È in realtà del tutto essenziale al fine di comprendere la più duratura ed architettonicamente produttiva civiltà centrata nell’area mesoamericana, molti anni prima dell’arrivo di Colombo, citare almeno brevemente l’importanza avuta dalla matematica nella loro sofisticata serie di valori culturali. Scienza assolutamente primaria nel mantenimento di un calendario, nella conduzione dei commerci ed anche nei fondamentali calcoli ingegneristici, utilizzati per edificare alcune delle loro strutture destinate a durare maggiormente a lungo. Dato il semplicissimo sistema di notazione inoltre, in cui i punti indicavano le unità e le linee quantità di cinque, mentre lo zero era raffigurato da una conchiglia, chiunque poteva apprendere in poco tempo il funzionamento di tale meccanismo. Ed forse proprio in funzione di questo, che particolari numeri acquisivano significati molto particolari: il 20, quantità corrispondente al totale delle dita delle mani e dei piedi umani. Il 52, la quantità di anni capace di costituire un “fascio”, concettualmente non dissimile dai cento del secolo secondo il conteggio dei Greci e dei Latini. E per ragioni largamente ignote agli archeologi e filologi dei nostri giorni, quantità considerate sacre il numero 7. Scritta mediante l’uso di una linea sovrastata da due puntini, in una sorta di accenno alla pareidolia antropomorfa, tale cifra ricorre dunque negli schemi costruttivi dei Maya: 7 erano i tumuli di antichi sovrano presso il sito di Uxmal. 7 le torrette del palazzo di Teotihuacan, re di Tikal. 7 i serpenti a sonagli contenuti nel suo totem, 7 le piume che adornavano i ritratti scultorei delle antiche figure politiche o religiose. Con una capacità di ricorrere e risalire addirittura attraverso i secoli, giungendo fino alle città ed insediamenti dell’epoca Classica (250-900 d.C.) incluso quello studiato a partire dallo scorso secolo di Dzibilchaltun. Vera e propria città dell’odierno stato peninsulare dello Yucatàn, collocata il più possibile in prossimità della costa per sfruttare al massimo la preziosa risorsa del sale, in un’area ragionevolmente vivibile ma di certo non tra le più fertili di tale specifica sezione di continente. Il che non gli avrebbe impedito del resto, al suo apice, di ospitare una quantità stimata di circa 20.000 persone, capaci di trarre sostentamento da una fiorente pratica del commercio e alcuni riusciti tentativi di sfruttare al massimo i pochi terreni agricoli a disposizione. Tra cui una precisa conoscenza del ricorrere degli equinozi e dei solstizi, grazie al calcolo dei giorni, e una serie di precisi… Metodi e rituali, concepiti per attrarre l’attenzione volubile degli esseri superni. Tra cui l’entità creatrice del Mais, che sarebbe stata a seconda del periodo maschile, femminile o addirittura composta da due gemelli; Cha’ak o Chaac, l’essere talvolta plurimo incaricato di gestire la pioggia e tutto ciò che ne deriva; ed ovviamente, K’inich Ahau, il “Signore dal Volto di Fuoco” che ancora adesso siamo pronti a ricondurre alla potenza luminosa e termica dell’astro solare. Importante protettore, quest’ultimo, a cui ogni capitale della civiltà Maya era solita dedicare un tempio situato ad est, con caratteristiche speciali tra cui una colorazione bianca delle mura ricoperte di semplice stucco, piuttosto che policrome come avveniva normalmente, e finestre rivolte in direzioni specifiche, al fine di raccogliere la luce in corrispondenza di ricorrenze particolarmente importanti al fine di pianificare la coltura agricola con finalità di sussistenza. Aspetti in cui non fa eccezione Dzibilchaltun, sebbene tale struttura presenti nei cataloghi un appellativo chiaramente riferito a una funzione di tipo diverso, con chiare implicazioni di natura ancor più misteriosa e profonda: Structura.1-sub, alias “Tempio delle (sette) bambole”, una serie di figurine d’argilla custodite ad oggi presso il museo del sito, dall’aspetto particolarmente alieno ed inquietante…

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