Uomo scava un buco e trova l’elettricità

Mentre la ruspa depone l’ultimo mucchietto di terra a lato, già arriva il camion che con massima cautela, inizia l’opera più delicata: il versamento di un’attenta colata di cemento, all’interno degli stampi preformati precedentemente attrezzati a lato del fiume. Chi dovesse osservare il progetto da lontano, non avrebbe particolari dubbi: questo gruppo di serissime persone sta costruendo, per qualche motivo, una sorta di avveniristico scivolo d’acqua, con la forma di una chiocciola della verdura. Al termine del fondamentale passaggio, quindi, con aria solenne, un capo poco più che trentenne si avvicina ai comandi di quella che sembrerebbe chiaramente costituire una chiusa a controllo remoto. Dopo un ultimo sguardo ai suoi colleghi, al cielo ed al profilo della Cordigliera distante, egli preme il tasto sopra il suo telecomando. Ed è così che all’improvviso, in un singolo, drammatico secondo, cambia il significato del fiume.
È una grande verità della corrente situazione tecnologica, che determinate forme di energia diventino progressivamente più difficili da implementare, mentre altre, per un ventaglio molto vasto di ragioni, si trasformano progressivamente in una metaforica passeggiata di salute. Poiché carbone, petrolio e in misura minore, anche l’uranio, man mano che vengono estratti e trovano il loro impiego, non vengono rigenerati automaticamente da alcun processo naturale a breve termine, mentre esistono determinate fonti alternative, prima tra tutti il Sole, che non cesseranno mai di continuare a funzionare, fino all’ultimo secondo della nostra stessa esistenza. Il fatto, tuttavia, è questo: vi sono luoghi al mondo, tempestosi e nuvolosi come loro principale prerogativa, presso cui la luce dell’astro la cui forza gravitazionale ci governa giunge in effetti molto raramente, soprattutto con una forza tale da far funzionare i nostri personal computer e/o forni a microonde. Ma anche altrove, per un soddisfacene impiego dei pannelli concepiti al fine di assorbire la sua potenza, l’affiancamento di un sistema per l’accumulo ed il riutilizzo in differita, in altri termini, un sistema di batterie. Costoso, ingombrante, inquinante al termine del suo ciclo di utilizzo. Altre tipologie di energia sostenibile hanno i loro problemi. L’eolico si ferma quando manca il vento. L’energia geotermica ha un costo d’ingresso particolarmente elevato. Il mareomotrice, basato sulle correnti delle vaste distese acquatiche che ci circondano, può avere un impatto drastico sull’ecosistema, è soggetto a forze d’erosione estreme e tende ad aumentare la sedimentazione costiera. E che dire, invece, della semplice energia gravitazionale dell’acqua? Poderosi flussi trasparenti, ogni giorno, scorrono a partire dai loro eremi montani, dove si sviluppano a partire dall’accumulo dell’acqua precipitativa o lo sgorgo da falde sotterranee dimenticate. Ogni giorno, per 24 ore al giorno, la loro forza scavalca gli ostacoli, segue le asperità del territorio e s’inoltre a innumerevoli chilometri di distanza, per giungere in maniera certa alla destinazione finale del mare. Sarebbe veramente assurdo, non tentare in qualche maniera d’approfittarne.
La tipica centrale idroelettrica tuttavia, per continuare la nostra carrellata dei “lati negativi” potrebbe anche essere vista come la somma di tutti quelli fin qui citati: certamente, essa ferma e devia il corso dei fiumi. Immancabilmente, ne danneggia (per non dire distrugge) l’ecologia. Essa è versatile e potente. Ma anche propensa, per sua implicita natura, all’imposizione di uno stato per così dire borderline, nel quale qualsiasi frana, terremoto o perché no, attacco terroristico, potrebbe non soltanto privare un’intera città o paese della sua principale fonte di sostentamento energetico, ma anche letteralmente spazzarla via dalle mappe mentre si libera letteralmente dalle briglie che gli erano state forzosamente imposte. Chi ha mai detto, tuttavia, che debba sempre essere necessariamente così? I due imprenditori di Anversa Jasper Verreydt e Geert Slachmuylders, dimostrando una tipica prerogativa dei giovani, sono così improvvisamente apparsi sul radar delle compagnie incubatrici e gli altri finanziatori tipici dei progetti di una startup, per togliere dal quadro generale il processo formale di una metodologia, per così dire, del tutto acclarata. Ponendo pubblicamente la domanda, a loro stessi e conseguentemente anche a noi tutti, di che cosa succederebbe, se mettessimo direttamente la turbina e il generatore lungo il corso del fiume, ignorando del tutto il concetto di costruirvi attorno una diga, o un terrapieno di qualsivoglia tipo? Il risultato, presentato come realtà di business nel 2014, è Turbulent Hydro, una compagnia che sembrerebbe quasi uscita dal mondo del crowd-sourcing internettiano, volendola giudicare dal video promozionale degli autori che spiegano con entusiasmo la loro idea, parlando sullo stereotipico sottofondo di musica di pianoforte e quello che sembrerebbe, piuttosto incredibilmente, proprio il suono di un pacifico ukulele. Mentre la realtà è che loro si rivolgono ad enti statali, compagnie affermate e potenzialmente, per il loro tramite, soltanto dopo una lunga serie di passaggi, al sempre fondamentale cliente finale. Intendiamoci, non è che un agricoltore o minatore, sperduto in qualche angolo remoto di questa Terra, non possa decidere di farsi costruire il generatore-vortice della Turbulent. Molto semplicemente, tuttavia, egli dovrà affrontare la spesa sulle sue sole forze. Laddove questo approccio alla produzione idroelettrica, per sua implicita natura, si presta molto bene ai programmi di ampio respiro per l’industrializzazione delle regioni disagiate. È così tremendamente flessibile, e ad impatto praticamente zero…

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La tragica situazione idrica di Città del Capo

Il giorno zero arriverà, secondo la stima dell’amministrazione cittadina, esattamente il 13 maggio 2018. E dovrebbe trattarsi di un calcolo piuttosto preciso, dato che stiamo parlando di un disastro creato e controllato dall’uomo, prevedibile creatura alla base di molti dei suoi stessi guai. Sarà un momento drammatico e del tutto privo di precedenti, semplicemente inimmaginabile per una città appartenente al così detto “mondo occidentale” pur trovandosi al di sotto di un determinato parallelo, e tra i confini di un certo continente, oltre i quali i notiziari internazionali non si sentono in dovere di fare informazione. Eppure, raggiunto l’ormai pressoché inevitabile punto di crisi, questa situazione balzerà improvvisamente al centro dei nostri canali; all’interno, persino, dei nostri pensieri. Riuscite ad immaginarlo? Un’intera città di 3 milioni e mezzo di persone, che d’un tratto rimane senz’acqua. E sia chiaro che non sto parlando, per questa volta, di un blocco temporaneo delle forniture, un razionamento a tappeto o una semplice riduzione della pressione. Quella fase, in effetti, l’abbiamo già superata. Bensì di una straordinaria convergenza di fattori, una sorta di tempesta perfetta della siccità, che ha portato l’intero stato sudafricano, ma in particolare l’agglomerato urbano con il ruolo di sua capitale, ad un susseguirsi senza precedenti di ben tre estati prive di pioggia, con progressivo svuotamento dei principali bacini idrici cittadini: Kwazulu-Natal, Lesotho, Mpumalanga, Capo Orientale… Nomi che per noi potranno significare ben poco, ma che per le genti di questa terra costituiscono uno dei principali pilastri all’urbanizzazione, la sicurezza di poter disporre di quantità spropositate di acqua pulita e potabile, facendo fronte alle inevitabili necessità della vita contemporanea. Fino ad ora ed a quanto sembrerebbe, ancora per poco. Ne parla con tono rassicurante ma enfatico il sindaco Helen Zille, che nei suoi discorsi degli ultimi mesi è diventata allo stesso tempo la profetessa di una nuova, remota ancora di salvezza, ma anche una delle figure più odiate in tutta la storia di questa città. È veramente difficile in effetti, allo stato attuale dei fatti, riuscire ad attribuire le responsabilità. Poiché come ci viene narrato in questo video prodotto dal sito Chronicle Digital, dalla voce di diverse figure responsabili dell’approvvigionamento idrico della città, geologi e scienziati ambientalisti, un piano per contrastare la situazione effettivamente esisteva da mesi. Ma sarebbe stato il governo stesso, per eccessivo ottimismo o una tragica mancanza di zelo, a lasciare che la situazione precipitasse fino al punto irrecuperabile in cui ci troviamo adesso.
È una situazione in cui, purtroppo, le organizzazioni tendono ad agire come gli individui. Chi non ha mai vissuto quell’istinto ad agire con moderazione, mentre si profila un evento all’orizzonte che potrebbe causare problemi, nella convinzione che un suo allontanamento possa bastare ad eliminarlo dal calendario? Si approntano le prime contromisure, in questo caso il razionamento dell’acqua in determinati quartieri e per fasce orarie piuttosto conservative, osservando con soddisfazione l’analisi statistica a nostro favore. Così che, il tempo che ci separa dal disastro raddoppia, più e più volte. Ma nel frattempo la velocità con cui si avvicina aumenta. Finché la curva degli eventi, secondo la previsione originaria, diventa semplicemente troppo ripida perché sia possibile risalirla, e questa entità plurima che potremmo definire noi/voi/loro non può far altro che precipitare nel baratro, trasformando la vita in dura sopravvivenza, costellata di sacrifici e dolore. Ciò detto, è altamente probabile che con l’avvicinarsi del momento fatidico, le autorità si troveranno ad agire per forza di cose, lavorando secondo un grado imprescindibile d’efficienza. I piani, ancora una volta, sono già in posizione: all’alba del 13 (una domenica) la riserva d’acqua cittadina si troverà, per la prima volta nella sua storia, al 13,5% del totale. Sarà allora che i direttori degli impianti di approvvigionamento, di concerto, chiuderanno i rubinetti degli acquedotti principali, assicurando l’approvvigionamento idrico soltanto agli ospedali ed altre zone critiche dal punto di vista sanitario. Come le township, i distretti disagiati di periferia, dove la sovrappopolazione di abitanti dalle condizioni sociali più sfortunate assicurerebbe l’immediato insorgere di condizioni malsane, con possibile espandersi di epidemie. Ma questo è quello che sta rischiando, dopo un primo margine di resistenza, l’intera città.

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L’arte che impedisce di cadere nelle fogne giapponesi

Chi visita abitualmente i blog di settore, o perlustra Internet alla ricerca di notizie sul Giappone, avrà di certo già fatto la conoscenza di John Daub, creatore ed unico conduttore del canale di YouTube ONLY in Japan, particolarmente bravo nel riassumere all’interno di concise esplorazioni particolari aspetti culturali del suo paese d’adozione. Sempre con grande simpatia, rispetto ed attenzione ai dettagli. Nel caso di questo recente video, credo tuttavia che sia riuscito addirittura a superarsi. Per il semplice fatto che non esisteva, in tutta Internet, una trattazione documentaristica tanto completa dei tombini giapponesi. Pensate che non la meritassero? Pensateci di nuovo.
Il concetto stesso dell’eroe ingiustamente rifiutato ricorre spesso nella letteratura e cultura Pop d’Occidente. Come nel caso delle Ninja Turtles degli anni ’80 e ’90, tartarughe mutanti in grado di combattere il crimine, ma non di camminare liberamente per le strade di New York, salvo essere schernite per il loro aspetto anormale. Lo stesso luogo in cui abitavano diventa, quindi, altamente simbolico: le fogne cittadine. Un luogo spiacevole, come loro, nascosto ai nostri occhi, altamente indesiderabile ed indegno. Ma anche la chiave stessa che ci permette di accedere alla validissima modernità: cosa sarebbero i nostri computer, le potenti automobili, i centri commerciali, senza un sistema di scarico delle acque reflue sufficientemente funzionale? Nient’altro che ninnoli, all’interno di città sommerse nelle nebbie dei miasmi e malattie. Il che è altamente comprensibile da chiunque ed in qualsiasi momento, al giorno d’oggi. Provate solo a rimanere senz’acqua per un giorno o due! Ma non fu sempre così. Il Giappone, la cui religione nazionale considera sacro il culto della pulizia, ha incluso nei suoi progetti urbanistici un qualche tipo di canali di scolo fin dall’epoca Yayoi (250 a.C. – 300 d.C.) ma non ha potuto disporre di vere e proprie fognature, salvo qualche rara eccezione, fino alla fine del XIX secolo, quando la riapertura del paese dopo il lungo shogunato segregazionista Tokugawa, l’arrivo delle Navi Nere del Commodoro Perry (1853) e il progressivo ampliarsi a tutte le fasce sociali dei segreti del rangaku (蘭学- gli “studi olandesi”) a seguito della lunga serie di trasformazioni socio-politiche fatte partire convenzionalmente con l’evento storico della Restaurazione Meiji (1868) permisero d’iniziare l’importazione su larga scala di libri, tecnologia e conoscenza provenienti dagli Stati Uniti e l’Europa. La soluzione di un sistema di condotte sotterranee, poi, che integrassero l’innominabile con le fondamenta degli edifici cittadini stessi , continuò ad essere indesiderabile ancora per lungo tempo, e molte comunità relativamente rurali non avrebbero potuto sperimentarne l’utilità almeno fino al secondo dopoguerra del ‘900, a causa della sfiducia della classe dirigente. Per non parlare della tipica reazione degli abitanti: disgusto e un categorico rifiuto. Il Japan Times racconta, nella risposta ad una lettera ricevuta nel 2008, di come all’inizio degli anni ’50 le principali città giapponesi già si stessero preoccupando di rendere in qualche modo benvoluta l’unica parte visibile nel quotidiano di un sistema fognario, integrando nella fusione metallica immagini caratteristiche ed immediatamente riconoscibili dagli abitanti. Un tombino non può, del resto, essere completamente liscio, pena l’estrema scivolosità in caso di pioggia, e l’inclusione di un pattern personalizzato non faceva crescere il costo unitario di più di un approssimativo 5%.  Ma la vera rivoluzione sarebbe giunta solamente nella decade immediatamente successiva, con l’entrata in scena della figura di un burocrate nel Ministero delle Infrastrutture, il cui nome era Yasutake Kameda.
L’attuale Associazione dei Tombini Giapponesi (日本グラウンド マンホール業会 )  rinomata alleanza di 32 compagnie produttrici con sede a Tokyo, fu proprio lui, a partire dagli anni ’60 standardizzò e rese convenzionale la rivisitazione del concetto di tombino come un punto d’orgoglio delle diverse città e paesi, che proprio per questo venivano chiamati a proporre, tramite l’istituzione di un plebiscito, le immagini da far raffigurare sui loro tombini. Da quel momento, si sviluppò una proliferazione estrema di proposte, con il cittadino medio giapponese, che è generalmente molto orgoglioso della sua appartenenza ad un particolare gruppo o ambiente di provenienza, che si affrettava a proporre per le sue coperture fognarie monumenti, figure storiche e persino l’eventuale Yuru-chara  (ゆるキャラ) ovvero il personaggio di fantasia, buffo o in qualche modo grazioso, usato convenzionalmente per rappresentare la città.

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Come sopravvivere al pericolo dei pali della luce

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In questo segmento sulla sicurezza della compagnia energetica dello Stretto di Puget vicino Seattle, che incidentalmente ricorda da vicino lo sketch di una sit-com alquanto dark, viene presentata una situazione possibile, a cui tuttavia nessuno pensa molto spesso. Ci passiamo sotto, oppure vicino, per centinaia di volte l’anno, se non addirittura in ciascun mese; sono una costante delle nostre giornate, appena visibili ai margini del campo visivo, specie per chi vive fuori dal contesto urbano, alternativa stolida e artificiale alla legnosa presenza di un albero, con le sue fronde verdeggianti. E spesso altrettanto pieni di uccelli. Ma va? Eppure sono nondimeno, a ben pensarci, mortalmente pericolosi. La ragione è che in quei cavi, sospesi a quattro, cinque metri da terra, scorre una tensione che si aggira normalmente attorno ai 7500 volt, con un amperaggio tale da risultare sufficiente a cuocere un tacchino nel giro di un paio di minuti al massimo, volendo andarci molto larghi. Inoltre, trattandosi di apparecchiature poste ad ipotetica distanza di salvaguardia dal contatto con qualsivoglia essere parlante e/o pensante (pappagalli esclusi) non sono schermati in alcun modo, costituendo la perfetta frusta castigatrice di chiunque dovesse trovarsi a contatto con la loro crudele essenza, esclusi, per l’appunto, i bipedi volanti. Per una mera questione di conduttività, della quale parleremo più avanti. Ma che cosa potrebbe capitare, ci invita a chiederci il presente video, nel caso in cui un autista molto sfortunato, oppure distratto, dovesse impattare contro la suddetta cosa, causando la caduta della stringa catenaria sul cofano, e da questo fin sull’asfalto che circonda le sue ruote? Egli si troverebbe a due centimetri dalla morte, questo è poco ma sicuro. Avendo, in ultima analisi, soltanto una speranza di salvezza: l’aver visto questo video, o un altro simile, tra i tanti disponibili sul web.
La scenetta inizia in modo già piuttosto preoccupante. Il simpatetico protagonista, alla guida per viali di campagna del suo fuoristrada Toyota, rigorosamente senza usare la cintura di sicurezza (ehi, non è un video dell’autorità STRADALE!) parla animatamente al telefono con la moglie o fidanzata, avendo per lo meno la prudenza di affidarsi a un vivavoce. Senza sapere, tuttavia, come nel frattempo stesse per sopraggiungere in senso contrario una ragazza, il cui concetto di utilizzo dello smartphone al volante di un’altra auto, sull’immediato, ci appare come niente meno che follia totale: lei starebbe infatti a quanto pare, scrivendo un SMS. O un’E-mail? Il che la porta, bellamente, ad invadere la corsia del senso opposto, rischiando un frontale con il tipo del SUV. Che forse, forse l’avrebbe potuta anche evitare, se non fosse che in quel fatidico momento stava riagganciando la chiamata, staccando gli occhi dalla strada per premere un pulsante sul cruscotto. E basta un attimo, per… Dissolvenza in nero. Nella seconda scena, il disastro è già avvenuto. L’uomo, per evitare l’altra macchina (guarda caso anch’essa una Toyota) ha perso il controllo ed è finito contro il palo della luce, ritrovandosi nella letale situazione di cui sopra, una contingenza di cui molti, assai probabilmente, non sarebbero neppure informati, finendo per aprire lo sportello, scendere dall’auto e fare la reale fine di chi tocca il suolo incandescente nel popolare gioco per bambini “Il pavimento è Lava”. Se non che Jim (John?) O qualunque altro sia il suo nome, per sua fortuna ha “prestato attenzione al briefing sulla sicurezza!” E sa perfettamente, quindi, come comportarsi. Ed è questo, fondamentalmente, il colpo di genio del presente video, che senza passare mai dal facéto al serio, mostra tuttavia il metodo migliore per salvarsi a seguito di un simile incidente. Tutto inizia, neanche a dirlo, da una chiamata effettuata al cellulare. Quello stesso, dannato, amato/odiato, strumento che modifica e connota le nostre moderne vite.

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