Il perfetto veicolo polare non esiste. Ma la Kharkovchanka…

Ci sono due modi possibili per “fare il giro del mondo” in appena 15 minuti: il primo prevede una qualche nuovo tipo di Stazione Spaziale Internazionale inserita in un’orbita tre volte più veloce di quella corrente. Il secondo, il contesto adatto ed una certa flessibilità nell’attribuire i meriti, come generalmente tendono a fare coloro che hanno già compiuto, negli ultimi 15 minuti precedenti, un’impresa che fosse assolutamente degna di questo nome. Vedi gli scienziati, autisti e tecnici russi, che il 26 dicembre del 1959 giunsero a trovarsi per una missione di studio sismico presso uno dei due soli luoghi al mondo in cui ciò fosse, allo stato corrente delle cose tecnologiche, mettere su carta l’effettiva realizzabilità del gesto. E tra le alternative a disposizione, senza dubbio la meno accessibile, ovvero il Polo agli antipodi dell’Artide, letterale luogo maggiormente a meridione dell’intero pianeta. Come testimoni, gli americani della stazione di ricerca Amundsen, stabilitosi da queste parti ormai tre anni prima e che furono ben lieti, nonostante fosse l’epoca della più fredda tra le guerre, di sollevare assieme a loro le bandiere, celebrando un’unità impossibile tra i due paesi contrapposti e distribuirono scherzosi certificati commemorativi. Dopo 18 giorni di un estenuante viaggio, a bordo di quel cubico veicolo dai cingoli possenti che, a suo modo, era riuscito a entrare nella storia: Харьковчанка ovvero “La signora di Kharkov”, città d’Ucraina ove trovava la sua sede la fabbrica di veicoli governativa V.A. Malysheva, già coinvolta nel 1957 al fine di abilitare, ovvero rendere possibile, il raggiungimento dell’ultimo traguardo in materia di mobilità veicolare. E farlo non grazie a sistemi di trasporto alternativi o avveniristici, bensì la più letterale applicazione del concetto, già percorso quasi 30 anni prima, della landship o nave di terra, un letterale appartamento su ruote, dotato di riscaldamento e motore possente, gli spazi per l’intero team ed ogni ragionevole comfort. Quando i sovietici erano stati coinvolti, alla metà del decennio, nella spartizione tra potenze del nuovissimo e più gelido tra i continenti, a loro era infatti toccata una zona non particolarmente vicina al centro esatto di tale calotta ghiacciata, situata nella parte orientale del suo estendersi inesplorato. Scaricando quindi una ragionevole commistione di trattori civili ChTZ e veicoli per il trasporto dell’artiglieria AT-T, alcuni dei più avanzati mezzi di trasporto glaciali del periodo, essi avevano sperimentato qualche successo nell’addentrarsi verso i loro obiettivi, arrivando fino ai siti in cui sarebbero state costituite le due basi di Mirny e Vostok, dal nome dei velieri della stessa nazionalità che nel XIX secolo avevano navigato, per primi, lungo le coste dell’Antartide in attesa. Ciò detto, tali automezzi presentavano un problema, su tutti: la mancanza di spazio all’interno per equipaggiamenti, materiali ed altri contenuti validi ad agevolare la sopravvivenza umana. Il che richiedeva, necessariamente, l’abbinamento di slitte a rimorchio con il resto del carico, le quali a loro volta non avendo propulsione integrata, tendevano ad impantanarsi e restare bloccate nel ghiaccio, costringendo i membri della spedizione a scendere ed intervenire, in condizioni climatiche occasionalmente inferiori ai -50 gradi Celsius. Un contesto in grado di limitare il loro progresso con la base Vostok, più avanzata delle due, a non meno di 1286 chilometri dal Polo Sud. Almeno fino a che non vennero schierate, tra l’aspettativa e l’entusiasmo generale, una coppia delle imponenti, cubiche Signore da 35 tonnellate…

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L’oceano atomico del Seamaster, idrovolante più veloce della storia

Secondo la teoria degli universi plurimi, parte dell’analisi quantistica dell’universo, l’oscillazione delle microparticelle può determinare percorsi alternativi della storia che coesistono, in maniera parallela, negli stessi spazi geografici e temporali. Così nella versione non-identica del più potente paese nordamericano, attorno alla metà degli anni ’80, una scolaresca visita il museo newyorchese dedicato alla breve quanto apocalittica terza guerra mondiale: “E qui bambini, potete osservare una replica della sala da cui il presidente Eisenower diede l’ordine di bombardare le città sovietiche, come unica possibile risposta alla distruzione radioattiva di San Fran. Con questa stessa mappa gli strateghi parte dello staff presidenziale aggiornarono man mano la posizione dei velivoli e le testate a disposizione.” Incuriosito dal diorama, completo di manichini ragionevolmente realistici, il giovane Elijah si avvicinò al tavolo dove fu deciso, sotto pressioni incomparabili, chi sarebbe vissuto e chi avrebbe lasciato il regno dei viventi. Quindi scorse qualcosa d’inaspettato: “Signora maestra, dev’esserci un errore. Come mai quell’aereo galleggia nel Mar Baltico, invece di trovarsi su un qualche tipo di pista d’atterraggio?” L’insegnante osservò, sorrise per un attimo, quindi annuì con consapevolezza. “No vedi Eli, quello è l’Enola Gay II. Quando tutte le armi contenute nei sommergibili furono state scagliate verso gli obiettivi, e prima che l’introduzione dei missili balistici potesse restituire l’equilibrio auspicabile dello status quo, il nostro presidente scelse di ricorrere ad ogni strumento di cui potessimo disporre per fermare la follia del nemico. Incluso un certo progetto sperimentale della marina…”
Scene fantastiche, velivoli futuristici ma un singolo e importatante dato reale. Perché il Martin P6M “Maestro dei Mari” fu effettivamente costruito e non soltanto in forma di prototipo preliminare, bensì in 12 esemplari che avrebbero dovuto anticipare, nell’idea dell’ammiraglio James Russell, il metodo del secondo corpo delle forze armate per tornare rilevante verso il delicato inizio della guerra fredda, rispetto all’aviazione che poteva, in qualsiasi momento portare il carico all’uranio fino all’ultima destinazione. Un bombardiere, sostanzialmente, dal ruolo e prestazioni comparabili a quelle del B-52 Stratofortress, dotato tuttavia dell’ulteriore capacità di riarmo e rifornimento presso qualsiasi tratto acquatico sufficientemente calmo e lungo. Nient’altro che un’adattamento, strategicamente rivoluzionario, del concetto all’epoca primario dei cosiddetti aerei di pattuglia, ovvero in grado di operare lontani da quelle basi che, senza ombra di dubbio, avrebbero costituito il primo bersaglio degli ordigni provenienti dall’Est. L’aereo persino nella sua accezione sperimentale con numero di serie XP6M-1, fatta decollare per la prima volta il 14 luglio del 1955 con una missione segreta condotta dal pilota sperimentale George Rodney, si dimostrò persino più veloce una volta in volo dell’alternativa con partenza e atterraggio sulla terraferma, potendo raggiungere i 1.104 Km orari (mach 0,9) grazie all’uso di quattro turbogetti Allison J71-A-4 prelevati direttamente dal cacciabombardiere F-84 Thunderjet. Benché ciò rappresentasse comunque una riduzione necessaria delle aspettative rispetto ai turbo-ramjet originariamente previsti, non dissimili da quelli che avrebbero trovato posto sull’aereo da ricognizione SR-71 Blackbird esattamente 11 anni dopo, così come il raggio di “appena” 3.352 Km, comunque compensato dalla capacità di operare a partire da qualsiasi superficie acquatica del mondo. Ciò detto, già l’uso di un sistema propulsivo a reazione per un velivolo anfibio presentava una serie significativa di problemi, largamente responsabili della linea insolita e gli strani limiti di questo improbabile pellicano dei cieli…

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Jizai okimono, i draghi plasmati sulle incudini dei samurai

Con guanti e mascherina bianca, l’addetto del Museo Nazionale di Tokyo maneggia il piccolo dio dei fiumi come se potesse spiccare il volo da un momento all’altro. Apre e chiude la bocca, solleva le zampe, piega innanzi la coda. L’animale straordinariamente vivido, benché del tutto passivo, mantiene un’espressione indecifrabile mentre i suoi baffi oscillano lievemente, per il solo effetto dell’inerzia e lo spostamento d’aria. Mentre con il potere posseduto dagli antichi manufatti, riesce ad evocare non soltanto lo spirito degli antenati grazie a un ruggito inaudibile, bensì la stessa catena di eventi che avrebbe portato, senza deviazioni possibili, alla sua magnifica esistenza.
Invincibile, orgoglioso, pronto a tutto. Dopo quel cruciale inverno del 1615 in cui aveva diretto con successo la difesa del castello di Osaka, all’età non più giovanissima di 48 anni, il famoso samurai Sanada Yukimura dovette infine rassegnarsi a un crudele destino: l’alta fortezza temporanea in legno che portava il suo nome ormai smontata, così come i due fossati che circondavano il suo signore erano stati riempiti per l’inganno del conquistatore di Mikawa, che pur avendo promesso la pace continuava a insediare l’eredità di colui che avrebbe dovuto essere shōgun. Quel Toyotomi Hideyori figlio del reggente imperiale, tradito e circondato da truppe nemiche assieme ai più fedeli servitori, rimasti legati a un senso dell’onore che non era soltanto creato dalla forza, bensì dal diritto di nascita e le promesse fatte in una vita trascorsa, ormai soprasseduta dal progresso inarrestabile della storia. Così circondato dai Tokugawa e affrontato da un guerriero senza nome, che soltanto a partire da quel giorno ne avrebbe avuto uno sulle pagine della storia, il penultimo dei Sanada si tolse il celebre elmo con le sei monete sulla placca frontale. Ed ormai esausto, venne così decapitato sul campo di battaglia.
Il concetto particolarmente amato dalla filosofia nipponica del cosiddetto “Ultimo Samurai” viene generalmente attribuito alla figura di Saigo Takamori, colui che 9 anni dopo il totale rinnovamento politico del paese nel 1868 si ribellò assieme al suo feudo nel tentativo di riportare innanzi gli antichi valori. Per morire armato di spada ed arco contro le manovre di un esercito dotato dei più avveniristici fucili con canna rigata, ed alcuni esempi importati dalle potenze occidentali di primitive mitragliatrici con assemblaggio rotativo. Ma se quella fu la fine di un’ideale, resta difficile negare che il suo mestiere avesse cessato di avere una logica già oltre due secoli prima, con la fine dell’ultima vera, grande battaglia delle guerre civili per l’unificazione del paese. Il che avrebbe portato ad una serie di cambiamenti a tutti i livelli della società, incluso quello di un’intera industria metallurgica, per cui la costruzione di spade e armature aveva costituito, attraverso i secoli, la linfa vitale della propria stessa esistenza continuativa di un tempo. Sarebbe possibile affermare dunque che, così come la fine di un epoca si era consumata all’ombra delle mura del castello di Osaka, l’inizio di un’altra avrebbe avuto luogo sotto quelle di Himeji, l’antica rocca fortificata col soprannome di Airone Bianco che il trionfatore di Sekigahara e del successivo assedio avrebbe assegnato al suo seguace Ikeda Terumasa. Situata nell’omonimo centro abitato famoso, tra le altre cose, per la qualità del proprio artigianato guerresco. Di cui tra i praticanti più celebri figurava la famiglia Myochin, le cui armature ancora vengono celebrate nel mondo del fantastico e dei videogiochi, come sinonimo insuperabile del concetto di protezione personale. Ma quale poteva essere il loro scopo, nella nuova, lunga epoca di una nazione finalmente in pace con se stessa e gli altri?

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Le antiche tradizioni atletiche della casa dei guerrieri d’Iran

Nato attorno all’epoca del mito che si colloca attorno all’anno mille, l’edificio persiano della Zurkhaneh può dirsi corrispondere a uno scopo specifico frutto del suo contesto culturale d’appartenenza. Inerentemente collegato a celebri figure di condottieri ed eroi secondo il testo coevo del “Libro dei Re” (Shahnameh) esso ha molto a che vedere, e al tempo stesso quasi nulla di simile dal punto di vista esteriore, con il concetto moderno della palestra in cui si coltiva la preparazione fisica, l’aspetto e la salute del corpo. Benché molte delle sue caratteristiche, una volta varcata la bassa porta concepita per costringere i visitatori ad inchinarsi in segno di rispetto, si dimostrino immediatamente corrispondere a un bisogno e quello soltanto: preparare i guerrieri al combattimento. O almeno questa era la chiara idea di partenza, con strumenti chiaramente ispirati ad armi, come la mazza pesante di provenienza indiana meel, gli scudi di legno sang o l’arco con catena kabadeh, ciascuno maneggiato in modo estremamente faticoso dagli aspiranti strongmen ed altri esercizi mirati ad incrementare le capacità di maneggiare una spada in combattimento, quali le flessioni con panchetto (shena) e il charkh/pazadan, rotazione vorticosa con le braccia sollevate e salti non del tutto dissimile dai rituali mistici dei dervisci danzanti. Passaggio un tempo fatto seguire, senza falla, dagli incontri di combattimento in stile libero koshti pahelvani, successivamente riservato ai soli professionisti per la frequenza d’infortuni anche gravi. Eppure molto poco, dello spirito originario, è andato perso attraverso il correre dei secoli, mentre il corpus tradizionale destinato ad assumere il nome di Varzesh-e Pahlavāni (lo Sport degli Eroi) veniva coltivato in modo ininterrotto da un’elite e infine riscoperto dal senso comune all’inizio del secolo scorso, come importante ausilio filosofico al nazionalismo di questo antico paese del Medio Oriente. Mentre quelle mura non del tutto dissimili da una moschea, con l’alta cupola e le torri, venivano erette nuovamente nei quartieri storici di città come Tehran, Mashad ed Isfahan. Associazione che naturalmente tende a scomparire per quanto concerne gli interni, data l’insolita collocazione della grande sala ad un livello inferiore a quello della strada, con l’ottagono centrale ulteriormente scavato al fine di proteggere gli atleti sottoposti a significativi sforzi fisici dai pericolosi spifferi provenienti dall’esterno. Il che detta la collocazione, dal punto di vista architettonico, di quegli spalti ove altri uomini aspiranti all’onore di partecipare, e nelle città più progressiste anche qualche donna invitata con il ruolo di spettatrice, potranno assistere alle complicate evoluzioni degli atleti secondo le precise direttive del morshed, direttore e capo spirituale dell’incontro. Individuo collocato sullo speciale sedile con piume di struzzo per simboleggiare “gli elmi sulla testa dei guerrieri” ed attrezzato con campanella per chiedere una pausa, stufa portatile e il maneggevole tamburo d’argilla morshed, riscaldato da quest’ultima e impiegato per dare il ritmo agli sportivi, mentre tenta d’ispirarli mediante le parole di preghiere e poesie classiche la cui origine si perde talvolta nella nebbia dei tempi.
Il che la dice molto lunga, sul ruolo originario di questi particolari luoghi che sono esattamente la stessa cosa, ma anche molto più di una palestra allo stesso tempo…

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