Il cuore elettrico della città di New York

Tre enormi finestre in fondo alla navata, che ricorda quella di un’antica basilica romana. Una volta per soffitto, di colore verde brillante sulla quale appaiono una serie di costellazioni dipinte dal pittore Charles Basing. E l’orologio più famoso della Grande Mela, tra fregi neoclassici sopra il tabellone con gli orari di arrivo e partenza dei treni. Il rumore caotico della stazione più grande del mondo impedisce, oggi, di sentirla. Ma se soltanto appoggiaste il vostro orecchio al pavimento, avreste l’occasione di percepire per un attimo l’energia delle radici. Come una vibrazione, l’energia dei tempi che corrobora il progresso. Il fluido tecnologico che costituisce, anch’esso, l’America. Non semplicemente una metafora, almeno fino alla fine degli anni ’80, quando ancora funzionavano i convertitori rotanti, le poderose macchine incaricate di rendere possibile tutto questo. Esattamente: avete presente la scena al termine del primo Guerre Stellari, quando Luke distrugge il planetoide della Morte Nera con un singolo siluro protonico piazzato nel condotto di raffreddamento? A quei tempi, la città più popolosa degli Stati Uniti presentava un punto debole dalla portata equivalente. Situato esattamente qua sotto, a una distanza di 10 piani invertiti dalla superficie del manto stradale. Nessuno lo sapeva eppure, in qualche maniera, la sua esistenza era giunta all’orecchio degli agenti al servizio di Adolf Hitler in persona. Ora, quanto segue è essenzialmente un sentito dire, benché gli siano stati dedicati dei segmenti sia su History che Science Channel. Pare che il pericoloso dittatore tedesco, in un momento imprecisato antecedente all’ingresso in guerra della nazione da lui più temuta, avesse inviato due sabotatori esperti sulla costa dell’Atlantico, mediante l’impiego di altrettanti sottomarini U-Boat. E che il più esperto dei due, grazie all’abilità dell’FBI, fosse stato catturato prima che potesse ricongiungersi col collega, portando quest’ultimo a costituirsi. Peccato solo che, una volta raccontato il diabolico piano, nessuno volesse credergli, tanto era assurda la portata dell’idea: introdursi, sotto mentite spoglie, fino alla sottostazione M42. Aggirare in qualche modo le guardie armate fino ai denti del misterioso sotterraneo. E paralizzare l’intero Northeast statunitense tramite l’impiego di un singolo secchio di sabbia, gettato tra gli ingranaggi dei convertitori di fase.
Ora, c’è del vero in questa storia ma anche, probabilmente, un qualcosa di romantico e in qualche maniera esagerato. L’apparato esiste ancora, benché non sia più in uso da lungo tempo, ed è ragionevole pensare che avesse una funzione primaria. Questo tipo di strumento elettrico, all’interno di una rete ferroviaria cittadina, era del resto sempre stato sempre una vista piuttosto comune, da quando in determinati quartieri di New York erano stati vietati i treni a vapore, a sèguito di un grave incidente del 1902, nel quale lo scarico di una locomotiva all’uscita di questa stessa Grand Central Station aveva accecato i macchinisti, causando un tamponamento tra due treni, 17 morti e 36 feriti. Ma far muovere un treno elettrico, all’inizio del secolo scorso, non era un’impresa semplice: in primo luogo perché lo stato delle cose e il grado di sofisticazione dei motori prevedeva, allora, l’impiego esclusivo di corrente continua (DC). L’invenzione rivoluzionaria di Thomas Edison con la sua General Electric, scienziato e imprenditore, che aveva trovato il modo d’instradare e condurre l’energia fino alle rotaie, benché una parte venisse dissipata dopo essere stata trasformata in calore lungo il tragitto dei cavi. Finché, nell’ultima parte del XIX, non si era presentata prepotentemente sulla scena la figura di Nikola Tesla, il sapiente dalla preparazione eclettica, e la strana vita personale, che aveva dimostrato la validità di un nuovo approccio al problema, che prevedeva un filo rosso di ritorno della corrente. Nacque così la corrente alternata (AC) che poteva essere trasmessa a qualsiasi distanza senza perdite di potenza, oltre ad essere generata con un processo meccanico molto più semplice ed efficiente. “Ma il suo voltaggio elevato è pericoloso per il corpo umano!” Protestò Edison, arrivando a dimostrarne l’effetto su cani e gatti di strada. Al che Tesla che era un animalista, durante un evento seguito dalla stampa dell’epoca si fece percorrere da un flusso di corrente alternata, dimostrando di rimanere illeso. Edison assunse quindi il collega, ma dopo avergli promesso uno spropositato compenso di 50.000 dollari per la realizzazione di un generatore di corrente alternata, non lo pagò. Lui vendette quindi i suoi brevetti alla rivale Westinghouse. Era iniziata la cosiddetta guerra delle correnti, che esattamente come quella tra VHS e Betamax, o Sega e Nintendo, avrebbe influenzato col suo esito il percorso della stessa evoluzione umana. Ma cosa c’era, in fondo, da decidere? Entrambi i tipi di energia, almeno fino al perfezionamento dei treni allora disponibili, avrebbero trovato le loro applicazioni. Ed è proprio per questo che nel giro di poco tempo, nacquero degli approcci tecnici per convertire il potenziale energetico dall’una all’altra, a seconda della necessità. L’approccio iniziale fu quello della mera forza bruta: semplicemente al termine delle linee AC, veniva posto un motore, che faceva funzionare dei generatori di corrente DC collegati ai binari. Nel 1888, tuttavia, questo approccio fu perfezionato, principalmente grazie all’opera di Charles S. Bradley. Era nato, finalmente, il convertitore di fase rotante. La più grossa, e rumorosa, lavatrice di tutti i tempi.

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Pescatore di tesori nella città del bike sharing

Il giovane dalla capigliatura interessante si avvicina al ponte sul fiume Yarra, nel mezzo della verdeggiante città di Melbourne, estremo meridione d’Australia. Nelle sue mani c’è un uncino di metallo, unito ad una corda dall’aspetto decisamente resistente. L’uomo si guarda intorno, con un sorriso sghembo stampato sul volto. Quindi scruta attentamente le acque sottostanti, ed apparentemente soddisfatto, getta il suo amo nelle torbide profondità. Qualche secondo dopo, inizia a tirare con forza, mentre ciò che emerge gorgogliando è un vistoso manubrio giallo. Seguito da un sellino, quindi una ruota e poi l’altra: l’oggetto è una bicicletta. Anzi per meglio dire, si tratta di una oBike. Mettendosi in posa per la telecamera, l’autore di tutto questo la dispone accuratamente sul ponte. “Bravo!” Grida qualcuno tra il pubblico. Si sentono applausi distanti. Lui prosegue per qualche metro, quindi la scena si ripete a partire dall’acqua. Completa di lancio, pesca miracolosa e ringraziamenti…
In tutte le società utopiche teorizzate dai filosofi e sociologi occorre poter tollerare un certo grado di anarchia. Nella concezione del tipo di vita dell’aggregazione ideale, in uno stato di equilibrio ed assoluta serenità, le persone agiscono sulla base di un senso di auto-coscienza che prescinde il mero concetto di legalità. È come una versione laica (o non…) del concetto di “ama il tuo prossimo come te stesso” che permetta di eliminare l’imposizione della legge, la vigilanza continua, il senso di vigilanza estrema che condiziona ogni rapporto d’interscambio con gli sconosciuti. Fino al superamento, del concetto stesso di scambio. Se non esiste più la proprietà privata, che fine faranno le ingiustizie? Condividere una mucca significa che tutti avranno il latte. Oppure nessuno. E così avviene pure, per la bicicletta. Un mezzo di trasporto per più persone: questo è il concetto alla base del cosiddetto “x” sharing, applicabile anche alle automobili, i motorini elettrici, i monopattini Segway dalle grandi ruote autobilancianti… Non è solo un inglesismo, poiché la differenza col concetto di noleggio è che non sopravviene mai l’attimo della restituzione. Una volta finito di spostarsi, il veicolo si lascia semplicemente lì, dove càpita, metaforicamente nelle mani del suo prossimo utilizzatore. Perfetto. O quasi: questo si finì per pensare negli anni ’60 all’epoca delle prime sperimentazioni, quando in alcuni campus universitari le bici generosamente messe a disposizione degli studenti iniziarono progressivamente a sparire, causa il pessimo comportamento di alcuni. In una sorta di effetto domino dell’autodistruzione collettiva, il progetto fu irrimediabilmente abbandonato. Finché verso la fine della prima decade del 2000, un miracolo della tecnologia: la gente che inizia a portare in tasca un dispositivo informatico che è al tempo stesso terminale di Internet, e un localizzatore GPS. Con un apparecchio simile, si possono fare molte cose! Cose come trovare istantaneamente dei monocicli sparsi per la città, farsi riconoscere presso una serratura automatica dotata di Bluetooth con la propria identità virtuale e segnalare alla grande Rete il momento in cui si è finito di usufruire del mezzo, pagando il prezzo di sharing e bloccando di nuovo la serratura in attesa del prossimo abbonato. Se ha funzionato (più o meno) in Cina, di certo dovrà avere un certo margine di efficacia anche nel civilizzato Occidente, dove le norme del vivere civile sono notoriamente meno permeabili ed esclusive, nevvero? Questo sembrava aver pensato la compagnia O Bike di Singapore, nel momento in cui decise di espandersi fino alla terra dei canguri con questa importante sperimentazione nella metropoli melbourniana.
Ma la realtà dei fatti, per qualche ragione, sembra aver preso una piega diametralmente opposta. E la spettacolare pesca di Tommy Jackett, filmmaker ed a tempo perso l’ormai proverbiale “eroe che ci meritiamo” non è che un momento simbolo di un problema più vasto. In tutte le città dotate di servizi di vero bike sharing, sia con partecipazione pubblica che portati avanti da compagnie private, la storia è più o meno sempre la stessa: dopo un primo periodo di acclimatamento, i velocipedi iniziano ad essere ritrovati nel fondo dei corsi d’acqua, sopra gli alberi, dentro le fontane… Quasi come il concetto di “parcheggiala dove vuoi” sia stato trasformato in una sorta di sfida, che mira a mettere alla prova il senso di collettiva inciviltà. Ben pochi utenti, poi, si preoccupano di usare le aree di parcheggio più idonee, lasciando i veicoli là dove capita, a perenne ostruzione di marciapiedi, stradine, importanti luoghi d’aggregazione e spazi verdi cittadini. È un veleno dei buoni e cattivi sentimenti, che non sembra aver alcun tipo di antidoto sociale…

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I dannati sulle isole perdute di New York

Nel 1614, quando i coloni finanziati dalla Compagnia olandese delle Indie occidentali giunsero per la prima volta in massa presso le acque di quello che sarebbe diventato l’East River, autostrada d’acqua nel bel mezzo della city newyorkese, loro erano già lì: De Gesellen, i compagni. E ci sono ancora, benché si siano riscoperte consanguinee tra di loro, diventando Brothers – fratelli. Due isolette che si guardano, in grado di attrarre l’interesse dei misantropi che passano di lì. Perché sembra impossibile, che possa esistere un luogo completamente abbandonato nel bel mezzo di una delle metropoli più grandi e celebrate al mondo, poco prima della baia in cui si trova la terza “sorella” Ellis, con il plinto che ospita l’intramontabile Statua della Libertà. Possibile che a nessun fautore dello sviluppo urbanistico programmato, o costruttore edilizio,  o altro tipo di speculatore delle proprietà immobiliari, sia mai venuto in mente di impiegare queste terre emerse in modo utile all’allora nascente società delle colonie americane? Il fatto è che di spazio, in origine, ce n’era in abbondanza. Così che per quasi due secoli, costruire i propri edifici presso un luogo scollegato dalla terra ferma non avrebbe portato alcun vantaggio degno di nota. Finché nel 1850, a qualcuno non venne in mente di spostare qui l’ospedale dell’isola più grande di Blackwell, poco più a monte in quel canale ormai altamente modificato dall’uomo. Ma con un approccio progettuale totalmente differente: alte pareti, solide cancellate, porte chiuse a chiave e ben pochi infermieri, abbastanza coraggiosi ed abili da mantenere le distanze. Volete conoscerne la ragione? Questo divenne ben presto il luogo in cui la città di New York teneva i suoi abitanti più temuti e al tempo stesso, considerati indegni di attenzione: coloro che rimanevano colpiti dalla malattia del vaiolo. In un’epoca in cui la vaccinazione era ancora guardata con estrema diffidenza, e l’umanità non possedeva alcun tipo d’immunità del branco, il concetto di lazzaretto sopravviveva immutato, essenzialmente fin dall’epoca degli antichi, offrendo un terreno fertile a ogni sorta di sgradevole iniquità. Le malattie infettive colpivano preferibilmente nei luoghi sovraffollati, coinvolgendo intere famiglie disagiate, che da uno stato d’indigenza sostanziale venivano rapidamente deportate in questi luoghi dove, tanto spesso, incontravano una morte atroce. Nonostante gli esperimenti di Pasteur del 1796 coi microbi e i vetrini, l’opinione del senso comune, nonché purtroppo il consenso tra molti professionisti della sanità, era che le epidemie nascessero dai miasmi dello sporco e del disagio, in una sorta di generazione spontanea comparabile a quella delle larve putrefacenti nella filosofia di Aristotele, che l’aveva elaborata 14 secoli prima a partire dalle inesistenti conoscenze scientifiche dei suoi tempi remoti. Una situazione che, ben presto, sarebbe cambiata. Proprio grazie alla figura di una donna destinata a rimanere, negli annali della storia, perennemente legata all’isola fratello del Nord, la più grande delle due.
La legge del karma, prodotto di un metodo assai distante di vedere il mondo e la società, è sostanzialmente diversa dal concetto di un angelo vendicatore, perché riguarda unicamente ogni singolo individuo, ed è il prodotto delle sue stesse gesta. Mentre il volere dell’Onnipotente non colpisce mai i deboli, ma proprio coloro destinati al Paradiso, perché credono maggiormente in lui. Ecco a voi un esempio, se dovesse mai servire: nel 1904, la nave a vapore PS General Slocum (che per i molti incidenti subiti, si diceva fosse maledetta) si trovava a navigare presso le due Brother Island, quando all’improvviso, un’incendio si scatenò a bordo. Delle 1.342 persone a bordo, quasi tutti membri della Chiesa Evangelica Luterana di St. Mark che si stavano recando ad un pic-nic, ne sopravvissero soltanto 321, ovvero quelli che avevano avuto la fortuna, e la capacità, di raggiungere a nuovo le vicine rive dell’isola-ospedale, attendendo lì i soccorsi inviati dalle autorità civili. Fu il più grande disastro subito dalla città di New York fino all’attentato delle torri gemelle, e resta tutt’ora il secondo per numero di vite umane perdute al mondo. Ma pur costituendo il più grave e terribile fatto di storia legato alla storia delle due isole dell’East River, non resta probabilmente il più famoso. Un primato legato invece al personaggio di Mary Mallon, cuoca, irlandese, forte di carattere e di fisico, portatrice sana della febbre da tifo. Che potrebbe aver ucciso, con la sua negligenza più o meno intenzionale, un numero stimato di fino ad oltre 50 persone.

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New York ’93: l’impossibile videocassetta in HD

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La città era gremita, le persone si parlavano l’una sull’altra. Dall’Ottava Avenue a Gran Street, da Broadway a Times Square, non c’era un singolo luogo in cui sarebbe stato possibile individuare il suono del vento. Gente semplice, gente elegante, uomini e donne di mondo, eroi emarginati. Ciascuno estremamente cosciente, così come lo è immancabilmente la natura umana, del preciso istante e della condizione in cui stava vivendo, al termine di un secolo di duri sacrifici, lotte, ardue tribolazioni; sulla cima del periodo economicamente più elevato degli ultimi 100 anni. Alla Casa Bianca faceva il suo ingresso proprio in quell’anno Bill Clinton, con un futuro ancora da decidere, forse un passato nebuloso, ma una leadership di partito solida e una visione politica del mondo a cui il popolo americano, fin da subito, si dichiarò abbonato. Altre scelte, meno degne dei libri di storia eppure a loro modo non prive d’importanza, influenzavano il mondo del commercio in modo significativo. I dischi giravano nei vorticosi meccanismi.
I Kennedy, i Rockfeller. Chi sono i Taft, gli Udall? Di certo non potremmo sollevare alcun dubbio, neanche da ignoramuses europei, in merito all’importanza rivestita nella storia del contemporaneo dai due presidenti Bush. Le dinastie al potere della classe dirigente americana, la cui storia pregressa porta molti a pensare che persino dopo queste elezioni del 2016, i Clinton possano tornare in lizza con l’ingresso nell’arena della figlia Chelsea. C’è una tendenza fondamentale, universalmente nota, che porta il potere politico a scorrere dentro alle vene con il sangue, e per questo trasferirsi intonso lungo il flusso delle sue generazioni. Mentre se c’è un ambito in cui questo non poteva mai succedere, questo era senz’altro la tecnologia. Un mondo le cui regole sono dettate necessariamente dal senso pratico, e il ritmo è scandito dalle innovazioni ingegneristiche e la sperimentazione. Giusto? Allora spiegatemi un po’ questo documento: una ripresa della Grande Mela in cui la folla, presa da lontano, non è soltanto una massa indistinta di colori, ma presenta nasi, bocche, addirittura singoli capelli. La cui inquadratura si compone, se volessimo contarli, di esattamente 1980 x 1080 pixel a scansione interlacciata. Gli stessi di un moderno film in Blu Ray. E a scanso d’equivoci: non siamo assolutamente di fronte a una creazione avveniristica, creata per un pubblico di tecnici nelle candide sale. Queste scene, create con piglio registico neutrale ma piuttosto accattivante, facevano parte originariamente di un disco demo giapponese, impiegato per dimostrare nei negozi le straordinarie potenzialità del Laserdisc MUSE della Pioneer. Un qualcosa che avrebbe immediatamente ricordato, agli occhi dei giovani d’oggi, un CD grosso come un 33 giri.
Eppure, non è ancora questa la ragione degna del nostro supremo senso di sorpresa: perché il video in questione, per come lo stiamo guardando attraverso l’upload dell’utente YouTube Pedant, è stato in effetti catturato tramite l’uscita component dispositivo differente, per il grande pubblico letteralmente sconosciuto. Un videoregistratore… In alta definizione. Si, è così! La suprema contraddizione in termini, come un pesce che cammina sulla terra, o un cubo di ghiaccio che va a fuoco, un verme che mette le ali come una farfalla. C’è stata un’epoca, tutt’altro che lontana, in cui lo storage ottico del disco laser ci sembrava vecchio e superato. Ed il futuro era chiaro  e limpido, come una scatola di plastica col nastro magnetico all’interno. La sublime, indimenticabile invenzione del VHS di JVC: torneremo mai a quell’epoca gloriosa? Aah, la nostalgia. Il fatto, sostanzialmente, è come segue. Nell’opinione comune, si tende a pensare che l’immagazzinamento dei dati in formato digitale non possa che derivare da specifiche tipologie di supporti. Che i dati codificati, in maniera totalmente scollegata dalla loro fisica natura, siano un appannaggio del “mondo nuovo” nato successivamente all’invenzione del transistor, e che la conoscenza, come qualsiasi altra forma di energia, non possa comprimersi al di sotto di un peso specifico determinato. 74 minuti di musica, ad esempio, per un CD Audio; ma ora provate a registrarli in formato MP3, o ancora meglio in FLAC. Ora avete 650 megabytes, ed in funzione della qualità scelta, molto, MOLTO spazio di manovra…

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