La grande onda virtuale del quartiere coreano di Gangnam

Il blu, il bianco, l’azzurro: pigmenti usati per tracciare l’impronta, delicatamente intagliata nella tavoletta di legno, dell’impresa degna di qualcuno che possiede il Segreto… Necessario per catturare, imprimere e riprodurre fino all’estremo l’inumana enormità del mare! Ed è senz’altro un merito innegabile dell’innato senso d’immaginazione che risiede nostra mente, se una simile illusione, bidimensionale nonché contenuta da un singolo foglio di carta, può evocare in noi le più profonde sensazioni di reverenza, entusiasmo e coinvolgimento create normalmente dalla natura. Se fosse dunque in qualche maniera possibile, o necessario, non avremmo già tentato di replicare su scala maggiore lo stesso effetto dell’arte xilografica, per farne il soggetto non più un fortunato gruppo di possessori o visitatori di una mostra, bensì la popolazione di una città intera? Seoul oppure Il mondo, persino. Attenzione, tuttavia: diverse proporzioni influenzano l’efficacia dei mezzi normalmente utilizzati per compiere l’impresa. E qualche volta, prevedibilmente, occorre adattare le proprie aspettative alle limitazioni e i punti forti dell’epoca corrente.
Corsi, ricorsi, avanti e indietro corre l’energia profondamente reiterata del moto che rimescola, sin da tempo immemore, la parte acquatica del nostro vivido astro planetario. Una scheggia d’universo catturata in una scatola grazie a un’illusione ottica antropomorfa, ed esposta sopra la facciata digitale di un palazzo. Niente di simile era mai stato tentato: gli 80,1 x 20,1 metri di uno schermo a LED curvo, quello del singolare centro commerciale SMTown Coex Artium presso il quartiere della capitale che ha dato il nome alla più famosa canzone Pop degli anni 2000, adesso dedicato esternamente a dimostrare il realismo raggiunto dalla riproduzione digitale della forma dell’acqua in tempesta, almeno a patto di osservarla dalla direzione adatta a mantenere l’effetto tridimensionale di una prospettiva forzata. Soggetto notoriamente avverso a qualsivoglia riduzione su scala inferiore ad 1:1. Ma nessun ricorso sembrerebbe essere stato fatto, questa volta, all’allegorica riduzione dei singoli elementi costituenti, affinché l’opera dell’artista possa prendere vita sotto gli occhi degli osservatori: bensì l’assoluto realismo è stato perseguito fin nei minimi dettagli, fino al punto di animare l’onda in maniera tale che sembri girare ancora e ancora dentro l’edificio a sei piani, come il ciclo finale di una gigantesca lavatrice. Il tutto grazie all’opera creativa della compagnia mediatica D’strict, nata a Seoul nel 2004 con l’obiettivo originario di creare siti Web per le aziende ma specializzatosi, negli anni successivi, al fine di proporre dei soggetti per l’onnipresente strumento futuro della comunicazione pubblicitaria: il maxi-schermo installato in situazioni pubbliche, grande punto fermo della letteratura di genere fantascientifico ed effettiva realtà d’Oriente, persino al margine dei nostri giorni di transizione. Un concetto che trova il suo più imponente esempio su scala globale proprio in questo esempio edificato nel 2009, come principale novità del centro congressi COEX situato lungo il corso del fiume Han. Suscitando l’inevitabile, nonché proficua domanda, su quali astruse meraviglie possano nascondersi al suo interno…

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Il robo-insetto che si poserà sulla pala eolica più alta del mondo

Telecomandi ponderosi, oggetti carichi di una certa potenzialità immanente, strumenti utili ad assolvere uno scopo. Dotazione assai probabilmente irrinunciabile, prima di un tempo mediamente lungo, nell’equipaggiamento degli addetti alla manutenzione di un settore in cui funambolia, alpinismo e navigazione su veloci lance a motore erano soliti trovar l’incontro, impegnativo altresì rischioso, per garantire un funzionamento idoneo della filiera elettrica dei nostri giorni. Filiera composta in una certa piccola, ma importante percentuale da strumenti in grado di trasformare i venti della Terra in potenziale capacitivo da trasmettere a distanza. Ovvero in altri termini, energia elettrica per le nostre case. Questi telecomandi usati, in un certo qual senso, per dominare tali spazi distaccati dal terreno, i cieli nebulosi che sovrastano le onde fino alla wind farm, ovvero rada foresta di alberi costituiti da cemento, plastica ed acciaio. Giacché il rope team (“squadra della corda”) di addetti alla manutenzione di questo imminente scenario futuro progettato dall’americana General Electric, assieme alla compagnia di ricerca & sviluppo inglese ORE Catapult, nell’ambito dell’auspicabile progetto Stay Ashore! (“restiamo a riva”) tutto dovrà essere tenuto a fare, tranne arrampicarsi ancora sopra il fusto maestro delle circostanze. Bensì usare, con particolare abilità, lo strumento di un drone radiocomandato, inviato delicatamente fino a tale oggetto della loro professione, rilasciando nel momento culmine della parabola un particolare carico robotico sulle sue pale. BladeBug il suo nome, ovvero letteralmente “l’insetto della pala” per come è stato battezzato dall’omonima startup londinese, coinvolta dai giganti dell’energia offshore proprio in funzione delle prospettive, sapientemente disegnate, da una simile creatura composita e volante. Operato il rilascio quindi di una simile entità dotata di sei zampe con ventose, dalla lunghezza di circa 60 cm, essa potrà percorrere l’intero corso obliquo di una o più braccia roteanti, rilevando tramite webcam eventuali crepe, imperfezioni o altri possibili problemi futuri: nessun rischio, pericolo o complicazione. Davvero una soluzione ideale, questa, per assolvere ad un compito che fin dall’epoca della remota genesi delle wind farm negli anni ’80 ha reso più difficile recuperare i costi operativi di questa importante fonte di energia pulita, in cui circa un anno è necessario, in condizioni ideali, per recuperare i costi d’ingresso di un singolo generatore.
Ma le pale girano e con esse il corso della storia, fino al nostro mondo in bilico, in cui ogni quantità importante d’energia prodotta in questo modo conta due volte, corrispondendo essenzialmente a molte tonnellate di carburanti fossili risparmiati, per non parlare delle pericolose emanazioni collaterali allo sfruttamento di questi ultimi.
Proprio per questo GE ha elaborato, in concomitanza con l’oggetto cardine di questo automatismo, ciò che più di ogni altra cosa potrà beneficiare del suo servizio futuro: sto parlando di Haliade X o 12, dove il numero dovrebbe corrispondere, per l’appunto, alla quantità di megawatt prodotti in condizioni ideali dall’imponente edificio roteante, capace di raggiungere i 220 metri d’altezza in cima al tubo centrale in metallo e 107 metri di lunghezza delle sue pale. un vero e proprio gigante che dovrebbe fare la sua comparsa, se tutto andrà come previsto, entro il 2021 in diversi siti nascenti di trasformazione dell’energia del vento, tra cui l’impianto di Dogger Bank in Inghilterra e due nuove wind farm di Ørsted costruite negli Stati Uniti. Benché l’unico esemplare costruito in qualità di prototipo, al momento presente, si trovi presso le banchine del porto di Rotterdam in Olanda a partire dal novembre 2019, dove cartellina alla mano ha già infranto ogni record, riuscendo a generare 262 MWh di energia pulita nel giro di sole 24 ore. Nell’attesa di ricevere, un giorno imminente, l’attesa visita del suo robotico impollinatore.

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L’alba fulgida della risacca trasportata da un mondo alieno

Pur sempre rilevante resta l’espressione: “Esistono cose…” Luoghi fuori dagli atlanti, nozioni che non rientrano nella filosofia degli antenati, parole sfuggite dal catalogo di qualsivoglia dizionario pubblicato fino all’alba di questo giorno. Ed anche quando si conosce l’effettiva provenienza di un fenomeno, tutt’altra sensazione è viverlo, in prima persona, sospesi tra le cognizioni teoriche e l’incredibile progressione dei momenti. Surfista: persona che persegue l’attimo, attraverso l’interfaccia priva di complicazioni tra uomo e mare. Colui che risvegliandosi a tarda sera, presso le dorate spiagge situate tra San Diego e Los Angeles, riceve la notizia che per tanto tempo si era riservato di far corrispondere alle proprie percezioni personali: il mare è acceso, il mare è azzurro, le onde ardono di un fuoco elettrico di provenienza chiaramente sovrannaturale. Già, questa è la semplice e purissima evidenza, di un qualcosa che c’è sempre stato e in qualche modo, poco chiaro, sembra esulare dalle cognizioni della scienza possedute nello stato dei fatti attuali, rientrando nella pura e inconoscibile magia. Laddove i nostri sensi, spesso, sbagliano e in effetti tutto questo ha una precisa provenienza: l’accumulo piuttosto tossico, ecologicamente problematico e persino pericoloso dell’alga facente parte della cosiddetta marea rossa, fenomeno annualmente ricorrente comune all’intera costa del Pacifico degli Stati Uniti (e non solo). Ciò detto è chiaro che nel caso di Newport, Hermosa e Venice Beach l’intera faccenda si trova connotata dalla presenza di un particolare elemento, confluenza di una lunga serie di percorsi evolutivi. Quelli in grado di dar vita, e permettere di replicare all’infinito, l’alga unicellulare dinoflagellata Lingulodinium Polyedra, 40-54 nanometri di micro-creatura ricoperta da una solida corazza e dotata di uno specifico, non del tutto inaudito sistema d’autodifesa, consistente nell’emissione di un’intensa luce azzurra all’indirizzo del potenziale predatore. Ora durante il giorno, c’è ben poco di affascinante in queste semplici creature. Il cui ammasso indiviso, fatto crescere in funzione dell’accumulo di nitrati, fosfati ed altre sostanze dovute all’inquinamento dei mari, assume le tinte rossastre in grado di colorare le onde che raggiungono la spiaggia in un susseguirsi di ruggiti roboanti, ciascuno accompagnato dai chiari segni che scoraggiano qualsiasi contatto da parte dei bagnanti. Quando al calare della sera, ecco che le cose cambiano in maniera diametralmente opposta: sotto la luce della luna, quando tutto il potenziale accumulato durante il giorno viene scatenato in un bagliore che sembrebbe rispondere, progressivamente, ad ogni singolo movimento dell’acqua e tutto quello che contiene. Così come mostrato nel video pubblicato all’inizio della scorsa settimana sul canale di FunForLouis e già visualizzato quasi 15.000 volte. Non tanto per la qualità registica o l’originalità dei contenuti (siamo innanzi, d’altra parte, ad un fenomeno ben noto) quanto in funzione dell’eccezionale atmosfera che regna dall’inizio alla fine della sequenza: soltanto un gruppo di ragazzi, con voglia di divertirsi, alle prese con un qualcosa che esula dalla comune percezione del quotidiano. Quasi annualmente ripetuto pur non diventando mai scontato; praticamente la neve ad agosto, in un luogo in la temperatura che sussiste non permetterebbe di vederla neanche in inverno…

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Come aprire lo scrigno fossile di un granchio primitivo

Provando ancora il senso dell’aria salmastra che ti accoglie mentre scendi dalla cima della spiaggia, guardi attentamente dove metti i piedi, lungo il ripido sentiero fino al mare. Nuova Zelanda, terra di scoperta e meraviglie naturali, terra di avventure, hobbit ed antiche mistiche creature. Corazzati esploratori degli abissi e della terraferma, che molti milioni di anni a questa parte s’inoltrarono fin oltre il bagnasciuga, poco prima di seccarsi e morire (non necessariamente in quest’ordine). Ma i principi che governano i processi naturali a volte sono strani, pensi, mentre conti per l’ennesima volta quelle pietre tondeggianti per l’effetto della semplice erosione, ben sapendo che tra quelle, assai probabilmente, può nascondersi il tesoro della tua escursione. 12, 24, 48 ed arrivato a 51, gioia e giubilo, una concrezione! Piccoli cerchi concentrici denunciano l’appartenenza ad una classe di reperti degni di essere raccolti. E nel momento in cui la volti, giunge il chiaro segno della verità, ovvero forme che sporgono dai lati, come l’ali di un uccello mineralizzato, però asimmetriche per forma e dimensioni. Perché, certo! Sono chele. Di quel “mostro” cinque volte più imponente dell’attuale granchio viola delle rocce (gen. Leptograpsus) che i paleontologi amano chiamare, di lor conto, Tumidocarcinus giganteus.
Questo fece e quindi aveva pubblicato, all’incirca un mese fa, l’esperto cercatore di fossili Mamlambo, operativo nella zona di Christchurch (Isola del Sud) presso spiagge come quelle di Motunau e Glenafric, famose per la quantità di pietre contenenti tracce di antichissime creature ormai transitate alle regioni dell’eternità immanente. Granchi e altri crostacei, soprattutto, per l’alto contenuto di chitina mineralizzata già presente nella loro armatura esterna, ma anche ogni altra forma biologica capace di esalare l’ultimo respiro sul sostrato destinato a diventare parte inscindibile di queste rive. Il termine geologico rilevante risulta essere, del resto, concrezione: riferito al caso niente affatto raro di un agglomerato di sedimenti, accumulati in fase di diagenesi, che si solidificano attorno al “corpo” solido di un qualche elemento estraneo. Come per l’appunto, la carcassa solida di un granchio neozelandese.
Ciò che segue è tipico della natura umana: gente che di questa caccia, lungo gli anni e i secoli, ne ha fatto la ragione di un collezionismo. E base imprescindibile di un’arte vera e propria, consistente nel massimizzare le qualità estetiche e scientifiche di ciascun pezzo ritrovato. L’autore del video, capace di raccogliere centinaia di migliaia di visualizzazioni nel giro di alcune settimane, dimostra in questo chiare capacità operative, mentre con il proprio scalpello pneumatico traccia in seguito i contorni dell’animale intrappolato nella pietra, per valorizzarne al massimo le caratteristiche innate nascoste dal trascorrere di circa 12 milioni di anni. Datazione facilmente desumibile, nei fatti, dal tipo di pietra e la natura stessa di questa creatura, da tempo datata dai paleontologi come appartenente all’epoca del Miocene, durante cui molti degli attuali esseri viventi presero la forma che ci appare maggiormente familiare. Inclusi, per l’appunto, i più diffusi spazzini decapodi del lungo mare….

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