Quando al termine dell’anno 2007 in Kenya venne dichiarato il risultato delle presidenziali, che vide la problematica ed inaspettata riconferma di Mwai Kibaki, nel paese si aprì una crisi destinata a sfociare ben presto nella violenza. Le critiche e i sospetti del Movimento Democratico Arancione, ascoltate da diversi gruppi politici, tribali e terroristici del tormentato paese, furono quindi il segnale che avrebbe dato inizio a violenti disordini civili. Durante i quali, a causa della difficoltà di reperire armi da fuoco in Africa Orientale, le antiche culture locali sfoderarono uno strumento ormai dimenticato da tempo: il cardenolide, un potente veleno contenuto all’interno dell’albero Acokanthera schimperi, comunemente detto in lingua inglese il poison arrow tree. Migliaia di punte sibilanti, accompagnate da altrettante asticelle piumate, iniziarono così a sibilare da un lato all’altro della Rift Valley, assolvendo perfettamente la compito per cui erano state create: indurre un’incremento drammatico dei battiti cardiaci di chiunque venisse anche soltanto superficialmente ferito. Con conseguente, irrimediabile e immediata dipartita dal mondo dei viventi. Nell’intero mondo vegetale non esistono, d’altronde, molte altre sostanze che si siano evolute con la specifica funzione di riuscire a dissuadere un elefante. E di cui soltanto pochissimi milligrammi, una volta entrati in circolo, possono assicurare la morte di un essere umano adulto. I gruppi armati dei Kalenjin, Mungiki, Chinkororo e Mulungunipa, tuttavia, non erano i soli a conoscere un simile segreto potenzialmente letale per i loro nemici. Lungamente noto a una creatura assai più piccola, ma non meno letale, che si aggira di notte nel sottosuolo della foresta, il Lophiomys imhausi.
Potrebbe sembrare, in un primo momento, nient’alto che una puzzola striata (Ictonyx striatus) data la colorazione bianca e nera, la coda folta e le movenze inarcate del corpo grande approssimativamente quanto un coniglio. Creatura di per se abbastanza maleodorante, ed universalmente temuta, da poter osare di sottrarre il cibo sotto il naso dei leoni. Una chiara soluzione aposematica, benché il destino dei grandi felini eccessivamente aggressivi, ineluttabilmente, risulterebbe ancor più drammatico nel caso del cosiddetto topo crestato. Un singolare rappresentante, a seconda della scuola tassonomica, della famiglia dei muridi o cricetidi, che l’evoluzione ha preparato ad un mezzo di difesa tanto orribile quanto singolare: mordicchiare le foglie e i rami del fatale albero Acokanthera, per poi provvedere a cospargersi i fianchi della sua linfa scaturita dall’inferno verde di epoche preistoriche dimenticate. Un approccio all’autodifesa per il quale il roditore dalla lunghezza approssimativa di 50 cm risulta perfettamente attrezzato, vista il modo in cui nasconde, sotto la propria impressionante criniera erettile, alcuni peli specializzati dalla consistenza spugnosa, in grado di restare imbevuti maggiormente a lungo del veleno cardiaco misto alla saliva dell’animale. Nei confronti del quale il topo riesce invece ad essere, di contro, prevedibilmente immune ad ogni tipo di effetto. Ragion per cui risulta comprensibile il fatto che, fino a novembre del 2020, nessuno avesse osato avvicinarsi abbastanza a queste creature nel loro ambiente naturale, da poter approfondire la loro struttura sociale ed abitudini ereditarie. Almeno fino al coraggioso studio scientifico, pubblicato sul Journal of Mammalogy da un gruppo di studiosi guidati dalla biologa dell’Unversità dello Utah, Sara Weinstein…
bosco
I 100 occhi di Argus, fagiano danzante dell’Asia Meridionale
Un’offerta da non perdere, l’occasione di portare un tocco di classe nella vostra vita entro il concludersi di questa settimana: per Natale, regalatevi un Argusianus argus, con tutti gli optional degni di nota. L’ultimo modello s’intende, dotato di livrea cangiante dagli ocelli in ordine perfetto, i lunghissimi ornamenti caudali ed il contegno raffinato di un vero gentiluomo della giungla nel suo ambiente nativo di Borneo, Sumatra e penisola Malese meridionale. Fino a 200 cm di lunghezza per appena 2,72 Kg di peso (una buona parte sono soltanto piume, dopo tutto) manovrati agilmente grazie al paio di forti zampe, usate per spostarsi al ritmo sostenuto e soprattutto, quando l’occasione lo consente, mettersi improvvisamente a danzare. Già perché il bisogno di esibirsi per un essere dotato di una tale grazia e splendore innati non deriva certo dalla musica, il contesto sociale o l’occasione di giornata, bensì la pulsione che potremmo definire il fondamento stesso dell’esistenza di qualsiasi animale su questa Terra: tramandare con successo i propri geni, verso la prossima generazione intrappolata nell’inconsapevole attesa. Ecco quindi la ragione di una simile, straordinaria scena: lei dalla tranquilla livrea marrone, priva di caratteristiche particolari tranne l’imponenza sempre significativa per la sua famiglia di appartenenza (72-76 cm) che si aggira noncurante nel sottobosco, mentre uno dei più ineccepibili spettacoli della natura si dipana innanzi ai suoi occhi tondi e neri: dapprima un richiamo intenso e assai potente, trascrivibile con l’onomatopea “kow wow” ripetuta più volte, ancora e ancora. Fino all’individuazione della spettatrice ragionevolmente inconsapevole ed impreparata, che costituisce il segno che è il momento di dar via alle danze.
Diversamente dal pavone con la sua ingombrante coda, tuttavia, l’evoluzione del fagiano maggiore di Argus ha fatto in modo di piazzare la sua principale arma di seduzione in corrispondenza delle piume secondarie situate sotto le ali. Il che, pur facendone un volatore tutt’altro che ineccepibile, contribuisce nel contempo a dare vita ad una serie di movenze straordinariamente originali. Che invito ad ammirare mentre lui, piroettando in una serie di assalti da più lati, gira e rigira attorno al suo bersaglio, aprendo a più riprese il suo mantello quasi draculiano dai plurimi ocelli in successione regolare, neanche si trattasse della lama di un coltello a serramanico o un rapidissimo ombrello. C’è una sorta di ritmo, in ciascuna scenografica apertura con la testa portata quasi fino a terra, che parrebbe dirsi attraversare intonso crismi estetici delle culture contrapposte e le diverse macro-zone interpretative del concetto di grazia ulteriore ed eterna. Il che giustifica, immediatamente, la singolare associazione tassonomica scelta da Linneo in persona, al fine di classificare questo uccello incomparabile, di cui doveva aver soltanto sentito parlare verso la metà del XVIII secolo. Basata su niente meno che il nome latino del gigante Argo Panoptes, il quale si diceva possedere una quantità spropositata di occhi lungo l’intera estensione del suo corpo, tali da permettergli di rimanere sempre sveglio e attento alla venuta dei suoi nemici. Almeno finché il dio Ermes in persona non decise di punirlo irretendolo per la sua voracità e arroganza (nonché il fatto che avesse rapito l’incolpevole ninfa Io) suonandogli il racconto della soave storia d’amore tra Pan e Siringa. Grazie a una melodia tanto rilassante da convincerlo per qualche ora a riposarsi. Ultima ed incauta scelta, prima di finire brutalmente assassinato dallo spietato messaggero dell’Olimpo, causa l’ira invereconda del sommo Zeus…
La foresta non più amica del crestato pollo punk del Venezuela
Diritta, sottile, ininterrotta è quella linea che collega tutti gli esseri viventi, attraverso il lento trascorrere delle generazioni. Così succede che cambiando ambiente, circostanze, storia ereditaria di una specie, essa finisca non di meno per allinearsi, a suo modo, nello schema delle circostanze date per scontate altrove. Non che debba essere, nei fatti, soltanto un singolo caso di “altrove”: così i cracidi del Sudamerica, in realtà diffusi anche nell’istmo centrale del continente e ancor più sopra, in specifiche regioni del Messico meridionale, possiedano non soltanto caratteristiche dei comuni galliformi selvatici del Vecchio Mondo, come il fagiano, bensì altre mutuate per vie traverse dalla famiglia dei megapodidi, loro distanti cugini dell’Australia, Pacifico e Nuova Guinea. Verso l’ottenimento di un insieme di elementi che risultano fortemente distintivi, caratteristici e difficili da confondere con qualsiasi altra creatura. Osservate, come riferimento, questo maschio di Crax Rubra o hocco maggiore dal richiamo simile alla sirena di una polizia, il più grande, comune e forse più notevole di questi uccelli, 78-84 cm e fino a 4,8 Kg finendo quindi per ricordare nelle dimensioni il tacchino piuttosto che l’uccello simbolo delle nostre comuni fattorie. Eppur capace, nonché propenso, a svolazzar fin sopra gli alberi per ripararsi dai predatori, tra una battuta e l’altra per cercare frutti, bacche e semi. Mentre l’occasionale insetto, topo o piccolo mammifero d’altra natura non viene certo disdegnato, ogni qualvolta si presenti l’occasione di catturarne uno senza eccessive difficoltà. Ciò che lo distingue maggiormente da lontano, d’altro canto, è soprattutto l’aspetto e la disposizione delle sue penne, che al di là del dimorfismo cromatico tra i due sessi, li vede simili nella presenza di un ciuffo ondulato sopra la testa, che l’uccello impiega per segnalare l’intenzione di accoppiarsi, difendersi o imporre più semplicemente la propria notevole presenza. Caratteristica particolarmente nota di questo hocco (o currassow in lingua inglese) come molti altri appartenenti al gruppo dei cracidi, è l’istinto di aggressione notevolmente sviluppato verso chiunque invada il suo territorio, a partire da impreparati, imprudenti umani. Conduttivo verso una serie di feroci attacchi portati mediante l’uso degli artigli e il caratteristico becco gobbuto, di colore giallo nel maschio e nero della femmina con il resto del corpo marrone, rispetto a lui che è invece in genere del tutto nero.
Ogni comportamento ostile, per quanto concerne questo bistrattato uccello, appare particolarmente giustificato data la secolare tradizione di cucinarlo in una serie di piatti tipici, mentre le piume venivano comunemente usate per la costruzione delle frecce di antiche tribù di cacciatori, favorendo uno sfruttamento che avrebbe condotto, attraverso i secoli, a una progressiva riduzione dei loro gruppi sociali un tempo assai uniti. Ma tutto questo non è nulla, in effetti, rispetto alla riduzione progressiva dell’habitat boschivo necessario alla loro sopravvivenza, gradualmente trasformato dall’uomo in campi per la coltivazione della canna da zucchero e altre merci valide all’esportazione, con imprescindibile sofferenza della popolazione aviaria. Un fato condiviso, ed in maniera ancor più sfortunata, da taluni altri rappresentanti di questo particolare ramo dell’albero della vita, oggi inseriti dall’indice dello IUCN tra l’elenco degli animali a maggiore rischio d’estinzione del nostro delicato pianeta.
L’astuto mimetismo del chimerico ragno formica della Malesia

Fondamentale nella classificazione di un animale risulta essere, in qualsiasi circostanza, il conteggio delle sue zampe ed altre parti anatomiche della sua dotazione complessiva. Quadrupede o bipede, mammifero ed uccello (generalmente) insetto ed aracnide (rispettivamente, 6 ed 8) per concludere con il decapode (si tratta normalmente di un crostaceo). Ecco, dunque, un enigma degno di essere affrontato: possiedo dodici zampe, 8 occhi e due teste. Cosa sono? Potremmo aggiungere ulteriori elementi alla descrizione, come la forma allungata dell’addome, le tonalità variopinte della mia livrea metallizzata o la maniera improvvisa con cui effettuo i miei balzi verso i margini della momentanea foglia di residenza. Ma tutto ciò non è realmente ed a tutti gli effetti necessario, per definire a scanso d’equivoci il surreale Orsima ichneumon, particolare specie di ragno salticida non più lungo di 5-8 mm e diffuso principalmente in Malesia, il cui aspetto fortemente distintivo anticipa alcune caratteristiche insolite del suo comportamento e stile di vita. Membro meno conosciuto della stessa famiglia del cosiddetto ragno pavone (Maratus Volans) dalle variopinte estensioni dell’opistosoma vagamente simili alla coda dell’uccello in questione, utilizzate durante un elaborato rituale d’accoppiamento, questa surreale creatura è infatti membra di un diverso genus composto esclusivamente di tre varietà, con le altre due diffuse, rispettivamente, in Indonesia ed Africa orientale. Altrettanto capaci, sebbene in maniera meno pronunciata, di sfruttare nella vita di tutti i giorni la propria somiglianza a particolari specie di imenotteri, generalmente varie tipologie di vespe e formiche, con prospettive mimetiche valide a scoraggiare varie tipologie di predatori. Ma soprattutto capaci di favorire la convivenza con membre di quest’ultimo, aggressivo raggruppamento d’insetti, le cui abitudini sociali non lasciano normalmente spazio alla convivenza con appartenenti a un diverso strato della foresta. Eppure eccolo, il nostro sgargiante ragno-vespa o ragno-formica che dir si voglia, sopra le foglie di piante o alberi ai margini della macchia boschiva, dove la luce del sole riesce a penetrare garantendogli una migliore visibilità diurna, mentre si aggira danzando nel territorio dell’uno o l’altro formicaio riuscendo a mantenere un monopolio delle foglie contenenti ghiandole nettarifere extra-floreali di bassi arbusti come il Clerodendrum, mediante l’approccio sistematico del suo aggressivo stile per procacciarsi il cibo. Già perché, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tutte le specie di Orsima dotate dell’intrigante sistema mimetico sono erbivore in caso di necessità, avendo imparato attraverso i secoli a nutrirsi di nettare ogni qualvolta le prede viventi scarseggiano, per la potenziale presenza di altri più organizzati, aggressivi e feroci predatori. Il che conduce all’inevitabile domanda del perché, in considerazione di questo, il ragno non scelga di spostarsi su un’altra pianta mediante l’impiego della capacità di spiccare balzi grazie alla pressione dell’emolinfa contenuta nelle articolazioni, piuttosto che rimanere nell’area oggetto di tale competizione continua e pressione ecologica del formicaio. Almeno finché non si prende atto del suo particolare nonché risolutivo approccio al problema…