Gli occhi sub-glaciali della creatura vertebrata più vecchia al mondo

Essere o non essere per 512 anni, questo è il problema. Pochi sono gli ordini della tassonomia animale cui abbiamo l’abitudine di attribuire uno stereotipo più radicato e almeno in apparenza, eternamente riconfermato, di quello del temuto pescecane. Squaliformes, esseri del tutto privi di mistero: predatori famelici, straordinariamente rapidi e percettivi, capaci d’inseguire il segno di una preda per parecchie centinaia di metri, prima di raggiungerla e serrare l’arma gastronomica delle ganasce incorporate nello scheletro cartilagineo che sostiene un simile organismo. Sempre attivi, sempre attenti, del tutto impossibilitati a fermarsi e ragionare, anche soltanto per un attimo, sui ruoli reciproci e i profondi significati dell’universo. Come il fatto, largamente noto, che “La stella che arde al triplo della magnitudine, sopravviverà per un terzo del tempo” e allora come potremmo mai tentare di spiegare, o comprendere nella realtà dei fatti, l’esistenza di uno squalo ancor più antico dell’Amleto shakespeariano? Una creatura, tanto per venire al punto, che non è un ricordo né un reperto sotto formalina, né tanto meno un fossile all’interno di un museo, poiché nessun vetro riuscirebbe a contenere il suo bisogno di percorrere profondità dimenticate. Vivo & vegeto, ancorché piuttosto stagionato, coi sui cinque secoli (si stima) di esistenza prolungata sotto i ghiacci di questo Pianeta.
Che i Somniosus microcephalus anche detti squali della Groenlandia benché attestati nell’interno Atlantico settentrionale vivessero svariati secoli, l’avevamo del resto sempre saputo. Proprio in funzione della propensione di tali pesci a continuare a crescere nel corso della propria intera vita, riuscendo a raggiungere talvolta dimensioni eccezionali di oltre 7 metri per una tonnellata e mezzo di peso; qualcosa di parecchio sconvolgente da rinvenire, in tutti gli accidentali casi in cui queste creature schive appartenenti al mondo degli abissi più remoti venivano accidentalmente catturate nelle reti dei pescatori. Ciò detto resta chiaro che negli ultimi anni, grazie al progredire della scienza, sia stato compiuto il passo ulteriore, con un percorso iniziato grazie allo studio del 2016 del biologo marino dell’Università di Copenaghen Julius Nielsen, autore di un approccio decisamente innovativo alla problematica datazione accurata di un creatura tanto difficile da catturare e priva di ossa in senso tradizionale, che potessero venire sottoposto alla classica analisi di datazione al carbonio 14. Ecco dunque, l’idea! Andare a rintracciare il fondamentale isotopo, prodotto in modo accelerato a seguito dei test nucleari effettuati dalla società moderna, esattamente dove nessuno aveva mai pensato di cercarlo prima: nelle pallide profondità degli occhi. Organi lattiginosi e quasi inutili, per simile creature, abituate ad affidarsi a un senso dell’olfatto straordinariamente sviluppato. Quando non del tutto privi di funzionalità residue, a seguito dell’aggressione, secolare, di spiacevoli vermi abissali…

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L’epico suicidio sessuale del piccolo carnivoro australiano

Succede ogni anno attorno al cambio di stagione, quando uno dopo l’altro, pelosi piccoli cadaveri cominciano a fare la loro comparsa nella terra di nessuno che divide la foresta e gli insediamenti umani. Di creature insettivore simili a topi, ma che nella realtà dei fatti, furono tutt’altro sin dall’epoca in cui erano venuti al mondo. Prima di precipitare in modo sistematico dai rami più bassi degli alberi, le rocce, le banchine stradali o altre strutture edificate dai loro vicini sovradimensionati a due gambe. I quali se soltanto si prendessero la briga di studiare la faccenda in modo più diretto e personale, scoprirebbero l’inaspettato: che una simile morìa coinvolge, in un rapporto di almeno tre a uno, solamente gli esemplari maschi del consorzio di queste specie, condannate a lasciarci all’apice della propria avvenente gioventù.
Per gli esponenti del genere Antechinus, importante categoria di marsupiali, la riproduzione rappresenta più di un semplice chiodo fisso. Arrivando a scrivere, nei fatti, l’effettivo destino genetico alla base della propria stessa esistenza fino al culmine di quel breve periodo di tre settimane, contenuto generalmente nella sua interezza all’interno del mese più caldo dell’anno, che costituisce per i maschi anche l’ultimo periodo della propria stessa vita, lunga per l’appunto poco più di 365 giorni. Non così invece per le femmine, che dovranno accudire e svezzare i propri piccoli, come previsto dal copione della propria classe tassonomica affine ai canguri e demoni tasmaniani, per un periodo di oltre un mese, riuscendo qualche volta a sopravvivere fino al seguente periodo riproduttivo. Ma perendo anch’esse, nella maggior parte dei casi, durante le stagioni di maggiore penuria alimentare. Un approccio questo, sostanzialmente, non poi così dissimile da quello di taluni insetti univoltini, cui l’evoluzione ha imposto la necessità di “farsi da parte” una volta espletata la trasmissione del proprio codice genetico alla generazione successiva, affinché quest’ultima possa beneficiare a pieno delle risorse, generalmente limitate, messe a disposizione dall’inclemente natura. Ma poiché simili esseri, nonostante le caratteristiche decisamente fuori dal comune, sono e restano pur sempre dei mammiferi, non sarebbe in alcun modo un azzardo ipotizzare, come fatto nel 2013 dalla biologa Diana Fisher dell’Università del Queensland, che l’origine ed il senso di un simile racconto sia di un tipo profondamente diverso, appartenente sostanzialmente alla sfera competitiva. Dopo tutto, chi non ha presente le feroci battaglie per l’accesso esclusivo a una compagna combattute con feroce enfasi dal cervo, il lupo, la zebra, diverse specie di scimmie ed allo stesso modo, spesse volte, noialtri maschi umani! Immaginate ora di contro il dramma procedurale sperimentato da una creaturina le cui dimensioni si aggirano, a seconda della specie, tra i 12 e i 31 cm appena, sostanzialmente priva di artigli, zanne o altri tratti utili a stabilire un primato combattivo, senza rosicchiarsi vicendevolmente le ossa craniche o altri approcci altrettanto letali. Non c’è dunque nulla di strano, a conti fatti, che la strada scelta diventi quella di un KO tecnico concesso da un diverso tipo di superiorità: quella della quantità di sperma prodotta in quel breve, fondamentale periodo della verità…

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Dalla punta della Florida, un raro topo boscaiolo che architetta splendide magioni

Passeggiando lungo i margini del bosco in luoghi come il Kansas, il Missouri, l’Illinois meridionale, l’intera penisola floridiana o le radici montane dei celebri Appalachi, può capitare di scorgere uno caratteristico cumulo di rami, sterpaglia o tronchi, semi-nascosto tra i cespugli o intrecciato, e in qualche modo sostenuto, dalle diramazioni più basse di alberi verdeggianti e vivaci. Tanto complesso, nella sua costruzione e così evidentemente artificiale, da lasciar pensare potenzialmente al pregresso passaggio di un’antica comunità umana, come dimostrata dal nome convenzionalmente attribuitogli di midden, dall’originale termine in inglese medioevale usato per riferirsi ai mucchi spesso archeologicamente rilevanti di spazzatura, resti o rimasugli appartenenti alle generazioni che ci hanno preceduto. Ed è soltanto ad un’analisi più approfondita, che il mistico agglomerato rivela la presenza di una serie d’ingressi, uscite e gallerie, nonché stanze al proprio interno riempite di erbe, semi ed altro materiale commestibile, ad opera di una creatura comunemente nota, non a caso, come pack rat o “topo accumulatore”. Un essere il cui transito immanente risulta essere particolarmente chiaro, e rinomato, nel territorio unico dal punto di vista ecologico dell’isola di Key Largo, parte della sottile dorsale oceanica che si estende dalla principale penisola statunitense verso l’isola di Cuba, dove questi cumuli tendono ad assumere proporzioni letteralmente gargantuesche rispetto a coloro che li creano, con oltre 5 metri di lunghezza per almeno 1,5 di altezza e 2 o 3 larghezza, al punto che costituisce un diffuso modo di dire, quello secondo cui anche i roditori che abitano questo sito preferenziale d’innumerevoli ville e proprietà di lusso, avrebbero una percepita necessità di spazi abitativi decisamente più estesi della media. Ciò potenzialmente per il fatto che, in un territorio relativamente chiuso come un’isola di “appena” 40 Km quadrati d’estensione, gli esemplari della rara specie cognata Neotoma floridana smalli (lievemente sottodimensionata come esemplificato dal nome) tendono a vedere sovrapporsi i propri territori, finendo per abitare, una generazione dopo l’altra, nei vasti appartamenti costruiti con gli stessi rami, sterpaglie e detriti. Il che non può prescindere, al passaggio d’inquilino baffuto, da un ragionevole processo di rinnovamento e l’aggiunta di un’ala o due (anche tre). Eppure sarebbe assai distante dalla verità, chiunque dovesse tendere a pensare, anche soltanto per un attimo, che simili creature risultino invadenti per i suddetti vicini umani o in qualche modo lesive per la loro serenità abitativa, quando si considera la loro indole riservata e come siano nei fatti proprio gli uomini e donne della Florida, a costituire un rischio estremamente significativo per questa frenetica e operosa genìa. O a voler essere più precisi, quella che sembra essere la loro creatura domestica preferita, con il “sacrosanto” diritto di essere lasciata libera e percorrere, all’alba ed al crepuscolo, tutte quelle zone ai margini entro le quali il succitato piccolo mammifero si aggira alla ricerca di cibo, materiale edilizio o piccoli tesori scintillanti, notoriamente da lui sottratti e radunati in modo comparabile a quanto fatto dalla gazza ladra. Tanto che un altro nome della creatura in questione risulta essere quella di “topo del baratto” per il modo altamente insolito in cui tende a lasciare gli oggetti che sta portando se ne trova di maggiormente desiderabili, scambiando in questo modo i suoi metallici tesori per invitanti avanzi o rimasugli di cibo. Il che, di nuovo, non può che lasciar spazio al fraintendimento, visto come simili creature non appartengano dal punto di vista tassonomico, formalmente, neppure alla stessa famiglia dei topi…

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L’esistenza ultra-competitiva delle mosche dagli occhi a martello

“…Che fanfarone! Nessuno è in grado di rispondergli per le rime?” Le foglie pennate di Phoenix dactylifera, comunemente chiamata palma da datteri, oscillavano nel forte vento egiziano, mentre i due si fronteggiavano a distanza di sicurezza. “Nessuno? D’accordo: ci penso io. Voi avete degli occhi… molto, uhm, distanti!” Ogni ronzio tacque in attesa della sua risposta. “Questo è tutto?” Rispose lui: “È assai poca cosa. Se ne potevano dire, ce n’erano a josa!” Enunciò, danzando agilmente sulle sottili zampe anteriori, mentre i peli sembrarono sollevarsi al pari delle due antenne. “Potevate essere… Aggressivo: se avessi peduncoli oculari tanto lunghi, me li farei subito tagliare; Amichevole: quando mettete gli occhiali, mi raccomando di tener d’occhio lo stipite delle porte; Arrogante: ragazzo, chi vi ha omaggiato di tal carrello? Vi si potrebbe appoggiare l’ombrello! […] E così via a seguire.” Come una sorta di brivido, in quel momento, sembrò percorrere il tronco della pianta, ove si trovava la folla indistinta delle femmine della loro specie: “Ma di spirito, voi, miserrimo artropode, mai non ne aveste un micron, e di lettere tante quante occorrono a far la parola: IDIOTA!” Un altro duello, per fortuna di natura soltanto verbale, si consumò in questo modo nel caldo pomeriggio dell’estate nordafricana. E fu così che il maschio dominante dovette spiccare il volo, lasciando il posto a chi possedeva la “qualità” che ogni dama desidera, anche quando non ne è cosciente: una distanza tra le pupille considerevolmente superiore alla media. Anche di creature MOLTO più grandi di loro…
Diopsidae o come siamo soliti definirle in maniera comune: (piccole) mosche dagli occhi peduncolati. Un’intera famiglia di ditteri ragionevolmente cosmopoliti, diffusi soprattutto nelle aree tropicali ma anche nella parte mediana dell’Asia, in Nord America e in un particolare caso ungherese, persino nel nostro beneamato Vecchio Continente, profondamente distinti dai loro simili per una serie di caratteristiche, sia comportamentali che relative alla particolare conformazione fisica del loro corpo. A cominciare dal metaforico elefante nel barattolo di miele: l’eccezionale costrutto somatico che poggia sulla loro testa triangolare, costituito da due peduncoli direzionati ad Y, ciascuno ospitante i principali orpelli dell’apparato sensoriale dell’insetto. Sarebbe a dire, il paio di antenne e gli altrettanti occhi di un color rosso acceso, così tanto simili a ciliege infilzate sulla punta di uno spillo. Caratteristica, questa, presente soprattutto nei maschi delle rilevanti specie, in cui l’estensione di tali organi supera spesso l’estensione longitudinale del loro stesso corpo, laddove nelle femmine, piuttosto, succede sempre il contrario. Questo perché al momento dell’emersione adulta dallo stato di ninfa (altresì detto metamorfosi o sfarfallamento) nessuna mosca diopsida presenta alcuna estrusione peduncolare, bensì occhi perfettamente ravvicinati e posizionati ai lati della testa. Almeno questo finché, secondo un preciso copione iscritto nel loro codice genetico, non iniziano a risucchiare aria con la bocca, gonfiando i peduncoli come fossero i lunghi palloncini di un clown. E tutto questo, con un preciso, non-poi-tanto segreto senso d’aspettativa…

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