Essere il curatore, nonché principale responsabile del museo di entomologia di Chengdu, nel Sichuan cinese, è un mestiere che può regalare grandi soddisfazioni. Trovare gli esemplari, esporli nella teca, guidare i visitatori nel fantastico mondo delle creature più numerose, e talvolta insolite, di questo azzurro pianeta. Eppure nessuno si aspetterebbe, assolvendo a una simile mansione, di accedere agli onori delle cronache internazionali, in funzione di un singolo insetto raccolto durante un’escursione sul monte Qingcheng. Non che una simile esperienza, per il Dr. Zhao Li, possa definirsi del tutto nuova, considerata la sua scoperta nel 2016 del più lungo Phryganistria chinensis (insetto stecco cinese) mai scrutato da occhi umani: 64 cm di creatura aliena in grado di arrampicarsi e mimetizzarsi (più o meno) sulle piante della sua regione di appartenenza. Ma non c’è forse nessun altro ordine d’insetti, tra il vasto catalogo a nostra disposizione, ad essere in grado di suscitare una reazione d’interesse ansioso come quello dei ditteri, diretti responsabili di una maggior quantità di decessi umani rispetto a qualsiasi altro animale vivente. Per via delle zanzare, soprattutto, in pratica degli aghi ipodermici volanti, capaci di diffondere le più temibili e mortifere malattie. Ragione per cui sarebbe difficile rimanere indifferenti, di fronte all’immagine abbinata alla notizia: la riconoscibile sagoma di questa minaccia, tenuta a vantaggio della telecamera nel palmo aperto. Con l’appendice boccale in corrispondenza dell’indice, e la parte posteriore dell’addome che raggiunge agevolmente il centro del palmo. Per essere chiari, stiamo parlando di un’apertura alare di 11,15 cm, più di 10 volte superiore a quella delle zanzare che ci stiamo preparando ad accogliere con l’avanzare della primavera. Un vero e proprio mostro, degno di epoca preistoriche dimenticate, in grado di gettare nello sconforto il cuore degli adulti ed almeno in teoria, succhiare via una parte considerevole del sangue di uno sfortunato bambino. Se non che, sarà meglio specificarlo subito: la Holorusia Mikado in questione è assolutamente vegetariana, nutrendosi, molto saltuariamente una volta acquisita la capacità di volare, soltanto di pollini e il nettare dei fiori. Il che non ha impedito alla stampa generalista, come avviene ogni volta, di approcciarsi alla questione coi consueti titoli allarmanti e tutti i superlativi del caso. Vediamo, dunque, di fare un po’ di chiarezza e rassicurare chiunque abbia in programma un viaggio in Oriente.
L’eccezionale insetto in questione, appartenente a una specie scoperta in Giappone dal naturalista-entomologo John O. Westwood nel 1876, è un’esponente da libro di testo delle cosiddette tipule o zanzaroni (fam. Tipulidae) creature piuttosto comuni in tutti e cinque i continenti e quindi inevitabilmente, presenti anche da noi in Italia. Incapaci di arrecare un danno diretto alle persone, benché le loro voraci e coriacee larve, note negli Stati Uniti come leatherjacket (giacca-di-cuoio) possano fare scempio di determinate coltivazioni agricole, attaccando di preferenza le radici e i più teneri tra i virgulti, prima di mutare nell’ultima, breve fase della loro vita, dove dovranno rischiare tutto nel tentativo di riprodursi, ben sapendo che nel giro di pochissimi giorni sopraggiungerà la senescenza e in seguito, la morte. Suscitando, nel corso della loro occasionale visita nell’impreparato contesto urbano, un tale senso di terrore diffuso da dare i natali all’insensata leggenda americana, secondo cui proprio questi sarebbero gli insetti potenzialmente più velenosi e quindi pericolosi del mondo, se non fosse per la loro assoluta incapacità anatomica d’inoculare sostanze alle creature tanto più grande di loro. Un’associazione d’idee da cui deriva assai probabilmente il soprannome di origini letterarie Daddy Longlegs (Papà Gambelunga) condiviso col ragno dei solai (Pholcus phalangioides) altra creatura il cui grado di rischio in caso di incontri accidentali, dal punto di vista popolare, viene grandemente sopravvalutato. È tuttavia importante applicare i distinguo del caso: una qualsiasi tipula italiana come la T. Paludosa misura, generalmente, tra 1,3 e 2,3 cm. Niente a che vedere con gli esemplari di 7-8 nordamericani, o addirittura il mostro svolazzante sulle cime nebbiose della montagna cinese…
strano
Il teschio che appassisce nel fiore leonino
Mentre i giorni passavano, la dama indifferente continuava a passeggiare nel suo giardino segreto. Camelie, rose, qualche tulipano. Ma il punto da lei preferito, il nesso principale del suo passatempo preferito, era l’angolo degli Antirrhinum, o bocche di leone. Seduta sul muretto perimetrale, il vento a muoverle i capelli assieme ai piccoli arbusti antistanti, passava lunghi minuti a osservare quei flessuosi racemi, ciascuno dei quali coronato da una miriade di fiori colorati. C’erano le varianti naturali porpora, gialle, bianche. Ma anche ibridi più rari, i cui petali simili a labbra semichiuse apparivano violetti, rosa e arancioni. I pensieri rivolti al passato, andava a stringerli delicatamente uno per uno tra il pollice e l’indice, mentre per come si muovevano, sembrava quasi di udire la loro voce. “Non lasciarci, non partire per assecondare tuo padre, andando in sposa al principe di Danimarca, abbiamo visto la sventura nel flusso del tempo.” Ma la decisione era già presa e come voleva la tradizione, un bel giorno ella sparì. Nessuno, tra i servi o gli altri abitanti della vasta magione, conosceva il passaggio nascosto che conduceva nel piccolo cortile, così le piante abbandonate, una dopo l’altra, perirono nella più completa solitudine. E il grigiore del mondo reale, da quel momento, governò gli spazi remoti. Finché qualcuno, circa sei mesi dopo, non venne a sapere, da un membro della famiglia reale prossimo alla dipartita, dello spazio un tempo occupato dai pensieri di quella dama. E con grande pazienza, tastando i muri e tirando a se dozzine di torce, non giunse a quella capace di spalancare l’antico passaggio dimenticato. Era scoppiata la guerra, ormai, e già i colpi d’artiglieria risuonavano in lontananza, trasportati dal vento che risaliva le irte pendici montane. Alla ricerca di nuovi nascondigli per importanti documenti e provviste, il servo fece il suo timido ingresso nell’intercapedine sconosciuta, illuminata da un singolo raggio di sole a ogni ora diverso, capace di filtrare tra le merlature distanti. “Te l’avevamo detto, te l’avevamo detto…” Sentì dire nel vento. Dal punto in cui andò a focalizzarsi il suo spazio, molte dozzine di piccoli teschi, orbite spalancate, menti sfuggenti e strani nasi cartilaginei. Le foglie ormai secche a circondarli come antichi sudari. Le anime dei morti parevano manifeste, pronte ad accogliere nuove generazioni di stolti.
Fin dall’antichità, queste piante diffuse in Europa e in Nord Africa (ne esiste anche una variante americana) furono indissolubilmente associate al mondo degli spiriti, credendo potessero scacciare il male. Il primo a parlarne: Teofrasto di Ereso (371-287 a.C.) botanico e filosofo, a cui risale la definizione di anti, “simile a” unita rhin, “naso” voleva fare riferimento alla particolare forma della corona dei fiori, oggi inserita nell’insieme informale delle piante per così dire “personate”, ovvero capaci di stimolare l’impulso umano della riconoscenza-di-se, anche detta pareidolia. Esse ricompaiono nei testi soltanto molti anni dopo, ad opera di Dioscoride (40-90 d.C. ca.) medico greco alla corte dell’imperatore Nerone, che usava prescriverle come rimedio a diverse afflizioni della pelle, si dice con buoni, se non ottimi risultati. In epoca medievale, quindi, all’intero genus venne associato un particolare sentimento, quello del rifiuto, da parte delle donne in età di matrimonio, dei propri spasimanti. Nacque così l’usanza, diffusa in tutta l’Europa centro-meridionale, di indossare uno solo di questi fiori nei propri capelli, sperando che i giovani del villaggio comprendessero l’antifona. Il che, presumibilmente, non capitava quasi mai. A meno che si trattasse di gente particolarmente superstiziosa ed a conoscenza del segreto più profondo dell’Antirrhinum, ovvero la sua metamorfosi surrealista e decisamente tendente allo spazio più macabro dell’esistenza. La maniera in cui ciascuna capsula contenente i piccoli semi neri, dopo l’appassire dei fiori, assumesse senza falla l’aspetto di un cranio mostruoso, chiaro presagio, nonché un cupo memento, della collettiva mortalità. E furono in molti, di fronte a una simile scoperta, a restare del tutto senza parole…
Il valore architettonico di un gabinetto norvegese nel nulla
L’esperienza di visitare una qualsiasi grande città italiana, per un turista, può talvolta risultare ansiogena, soprattutto se proviene da un paese del Nord. Mentre ci si sposta da un’antico monumento a una piazza storica, assorbendo uno per uno i reperti delle epoche passate, il clima mediterraneo tenderà inevitabilmente a pesare sull’impeto della camminata, soprattutto in estate. Così, a temperature superiori di anche 15 gradi rispetto a quelle di una città come Oslo, persino a parità di stagione, il sudore inizierà a formare dei rivoli copiosi, mentre prevedibilmente, l’esploratore fuori sede finirà per acquistare una bottiglietta d’acqua, da un minimarket o uno dei tanti venditori ambulanti del centro. Così con l’avanzare del pomeriggio, prima o poi, avvertirà la necessità d’utilizzare la toilette. Un’esperienza che in territorio nostrano, per quanto basilare, può talvolta risultare contro-intuitiva. Già perché dove sono, ad esempio, i gabinetti pubblici della Capitale? Roma è un luogo in cui, se si avverte il bisogno di espletare le risultanze, l’unica scelta ragionevolmente a disposizione è spesso prendersi un caffè al bar. Mentre grava sulla propria testa la possibilità, sempre presente, che proprio il locale in cui è stata riposta la propria fiducia abbia appeso il lapidario cartello “guasto” per questioni di tipo tecnico o amministrativo. Perciò mentre si chiede al proprio fisico di trattenere ciò che non può essere rimandato, tanto spesso, lasciare i confini della città verso l’aperta campagna rappresenta un’esperienza di riscoperta, che permette un ritorno metaforico e letterale alla natura. Dove ogni luogo può essere un bagno, quando la necessità guida il giudizio e le preoccupazioni diventano poco più del battito d’ali di una falena, attorno al fuoco notturno della liberazione individuale.
Prendiamo in analisi, di contro, la questione di un tipico luogo turistico norvegese. Il paese in grado di sconfinare nel Circolo Polare Artico, la cui densità di popolazione media, per ovvie ragioni contestuali ammonta a sole 15,8 persone per Km quadrato (ma può calare, in vaste aree del territorio, a fino un terzo di quella cifra). Un paese lungo e stretto, in cui un ristretto numero di lunghe strade statali riveste un ruolo primario nella viabilità nazionale, con utilizzo relativamente intenso e costi di mantenimento altrettanto significativi. Ciò che avviene a quel punto, come in certe aree centrali degli Stati Uniti per la leggenda della storica Route 66, è che il tragitto stesso diventa una meta degna di comparire sulle guide, arricchendosi d’innumerevoli “punti di sosta” consigliati ai turisti, ciascuno dei quali in grado di offrire un modo per fermarsi ed assaporare il momento, senza la mediazione gravosa degli pneumatici e del volante. Soltanto che, senza il linguaggio tipico del kitsch d’oltreoceano, piuttosto che monumenti alla bizzarria come la più grande ciambella del mondo, il dinosauro evoluzionista a scala naturale o l’edificio a forma di cestino del pranzo, simili attrazioni tendono qui ad avere una specifica funzione. E tale funzione, tanto spesso, è il bagno. Ed è singolare ma comprensibile, in un tale panorama, il successo internazionale riservato a una creazione come quella di Ureddplassen tra Gildeskål e Meløy, nel Nordland, proprio dove la celebre strada Helgelandskysten transita di fronte al golfo di Fugløya. “Ecco a voi il bagno più bello del mondo!” hanno titolato giornali per lo più inglesi come il Telegraph e il Daily Mail, mentre secondo una prassi già lungamente acquisita, le testate di altri paesi hanno si sono fatti ambasciatori dell’insolita notizia. Poiché in effetti, l’aspetto di questa struttura è tanto atipico da sembrare quasi decadente. Il senso di meraviglia inizia già mentre si lascia l’area di sosta, percorrendo una serie di ampi gradini costruiti come parte di un anfiteatro, giungendo presso una piazza in riva al mare dotata di attraenti panche rivestite in marmo di rosa norvegese. Ed è allora che apparirà al centro del proprio campo visivo, il più particolare piccolo edificio con pareti di vetro non-trasparente, il tetto formato da una struttura in grado di ricordare il moto delle onde che s’infrangono sugli scogli antistanti. “Mentre ci si avvia verso la ritirata” racconta un sito web, “…sarà possibile udire il richiamo distante delle pulcinelle, aquile di mare o il più grande gufo d’Europa, l’hubro. Alla vostra destra, un importante monumento…”
Virtuoso della chitarra riproduce i suoni della Formula 1
È stato certamente uno spettacolo: le sgargianti livree delle monoposto di Formula E, ciascuna coronata dal casco di un abile pilota, che disegnavano accurate geometrie tra le angolose curve del quartiere Eur di Roma. Una gara sportiva lungamente attesa, proiettata verso il futuro per organizzazione, idee e comparto tecnologico di fondo. E mentre le vetture acceleravano, e con esse l’entusiasmo del pubblico, mentre le telecamere creavano quel filo ideale di energia elettrica, riflessa ed amplificata dai motori lineari attraverso l’etere, fino all’ingresso delle nostre case, in molti si resero conto gradualmente di un qualcosa che non si erano aspettati. Si riuscivano a sentire le voci delle persone. Il tifo dagli spalti, gli ordini dei meccanici nei box, le domande dei giornalisti; come in una rappresentazione idealizzata della primavera all’inizio di un documentario disneyano, non c’era un sussurro, il grido di un gabbiano, e neppure i passi di qualche altro ipotetico animale, che potessero sfuggire alla captazione dei microfoni, in una sostanziale cappa di armonia auditiva in grado di pervadere ogni momento della surreale kermesse. Il che, da una parte, sovvertiva fondamentalmente un aspetto considerato importante in precedenza: la possibilità di percepire i singoli gesti di ciascun pilota. Come un esperto di calligrafia orientale, che osservando i tratti prodotti dal pennello di un maestro riesce a identificare le singole curve e ogni fondamentale rettilineo del kanji rappresentato sul rotolo, rivivendo nel suo essere il motivo delle scelte compiute, degli approcci cadenzati e le angolazioni prodotte, così l’esperto spettatore di simili gare impara a distinguere, nei sorpassi, il momento esatto in cui un pilota ha lasciato l’acceleratore, riconoscendo il diritto dell’avversario a prendere momentaneamente il comando. A meno finché la prossima opportunità, nell’economia degli eventi, non gli permetta di ribaltare la situazione. Potremmo chiamarlo, volendo, il “senso innato del ruggito graffiante” ovvero quella dote, che diventa necessità, di applicare quanto si è guadagnato per se stessi attraverso anni di evidente passione individuale per il cavallino rampante, la freccia d’argento, il toro vermiglio o una qualsiasi tra le sfavillanti alternative che mordono l’asfalto di gara.
Eppure l’evento di Roma, diretto al cuore stesso di noi italiani, parla davvero chiaro: l’elettrico sta continuando a prendere piede, sempre di più e in ogni campo dell’ingegneria, per una semplice necessità dei nostri tempi. Che dire, dunque, di tutto ciò… Riusciremo a ritrovare il nostro equilibrio sonoro costruito in generazioni di Formula 1, o continueremo a oscillare tra passato e futuro, alla ricerca dell’ago di una bussola che fondamentalmente, non è esistita e non esisterà mai? In quale modo potremmo semplificare la transizione? Di certo sarebbe assurdo! Inutile. Chiamare un musicista, intendo, giù dagli spalti e vicino alla tribuna di chi ci tiene di più, al fine di fargli accompagnare le immagini con il movimento delle sue abili dita. A meno che… La persona in questione, pescando tra gli archivi di Internet, non sia il misterioso Mario Torrado, dal volto costantemente coperto mediante il cappello in pieno stile Michael Jackson, l’eterno giubbotto di jeans, la postura composta ma vagamente informale, mentre strimpella l’iconica chitarra elettrica Gibson X-plorer (o Explorer) al fine di produrre una sola, lunghissima e articolata nota. Si, proprio così. La definizione è corretta, se è vero che la più piccola unità musicale, sostanzialmente, altro non è che una vibrazione dell’aria, misurabile in singole ripetizioni esattamente come la rotazione di un motore. Il tutto attraverso una procedura scientificamente analitica che in un molti modi, traspare con grande evidenza. Nel suo video più celebre risalente al 2013, recentemente ripubblicato sul portale social Reddit, l’artista compare mentre dimostra la precisione del suo metodo, effettuando una tripla dimostrazione pari a una rassegna retrospettiva proiettata delle epoche trascorse, espletata attraverso i tre motori più celebri nella storia di queste gare: V10, V8 e V6. Ma prima di passare ad un’analisi tecnica di quanto questo video risulta in grado di offrirci, c’è almeno un altro esempio da prendere in considerazione…