Quando si sta pensando al giusto modo di librarsi in volo, esistono una grande quantità di alternative a disposizione. Ma nel momento in cui ci si aspetti di rimanere staccati da terra per un tempo superiore al minuto, controllando traiettoria, assetto e poter scegliere persino una destinazione, le possibilità si riducono drasticamente: pallone aerostatico (con il motore), ala fissa o aerogiro. Con il terzo dei suddetti casi ulteriormente escluso dalla lista delle scelte percorribili per molti aspiranti piloti, considerato il pregiudizio persistente nei confronti di un oggetto che può perdere la propria leggerezza non appena un guasto meccanico causa l’arresto del suo rotore. Una possibilità da lungo tempo paventata nel mondo dell’aviazione, molto prima che venisse messa in chiaro l’autorotazione, eppure non considerata necessariamente pregiudizievole all’impiego di un simile approccio nella realizzazione del Sogno dell’Uomo. Tanto che già Leonardo da Vinci, nei suoi codici, ne aveva disegnato uno. Ma l’elicottero, con tutto il comparto di elementi tecnologici controintuitivi, non avrebbe incontrato una realizzazione funzionale molto prima del famoso Flyer dei fratelli Wright, in diverse accezioni contrastanti ognuna delle quali più o meno riuscita sotto alternativi punti di vista. Creazioni tra le quali, per lo meno in un primo momento, le più avanzate furono fin dal remoto 1907 quelle di un inventore già lungamente affermato: Emile Berliner, ebreo tedesco emigrato negli Stati Uniti trent’anni prima, per sfuggire al reclutamento forzato nella guerra Franco-Prussiana. Soltanto per vedersi, come molti altri sapienti della propria epoca, un brevetto revocato a favore di Thomas Edison, i cui legali dimostrarono che fosse stato l’altro ad aver inventato per primo il microfono telefonico. Ancorché nulla di simile sarebbe capitato invece per il disco piatto da grammofono, sostitutivo del cilindro precedente, probabilmente il principale lascito di questa importante figura. Non tutti ricordando, tuttavia, la passione che egli possedeva anche per un altro campo tecnologico, quello dei velivoli capaci di portare l’uomo via dal suolo e verso il regno empireo delle nubi sottili. Così come fatto in quel radicale primo esperimento costruito con l’aiuto del meccanico J. Newton Williams, in cui attaccato un sedile di appoggio all’assemblaggio con doppia elica coassiale, si staccò da terra per alcuni metri e pochi, notevoli minuti. Il problema iniziale dell’elicottero Berliner, destinato almeno in parte ad essere ereditato dalle sue iterazioni successive, rimaneva d’altra parte l’assenza del complesso sistema meccanico del piatto oscillante o collettivo, in grado di trasmettere il moto rotativo anche mentre il disco risultante veniva intenzionalmente inclinato da una parte o dall’altra con il fine di direzionare gli spostamenti. Il che lasciava, oggettivamente, dei significativi margini di miglioramento se non che nell’immediata decade a venire, il già più che cinquantenne ingegnere scelse di dedicarsi in modo preponderante all’alleggerimento ed il miglioramento dei suoi motori. Un principio che avrebbe portato, nell’immediato, alla fondazione della compagnia Gyro Motor di Washington D.C. e la produzione in serie del primo motore rotativo (non più semplicemente radiale) utilizzato estensivamente nel campo dell’aviazione, a partire da un modello automobilistico creato inizialmente dalla Adams-Farwell di Dubuque, Iowa. Il dispositivo in questione nelle sue diverse versioni, del peso contenuto nonostante i fino a 110 cavalli di potenza, venne dunque immesso sul mercato con l’obiettivo di trovare impiego nei successivi esperimenti elicotteristici del suo creatore. Ciascuno progressivamente più vicino, in modo sorprendente, all’idea che aveva da principio messo in moto le possenti province del suo cervello…
aerei
Drone dimostra il principio del motore che esploderà quintuplicando la velocità del suono
Come nell’ipotesi sulla vita extraterrestre della foresta oscura, migliaia se non milioni di startup rimangono nell’ombra, in attesa di poter cambiare il mondo tramite realizzazione delle proprie logiche contrarie agli usi ed alle convenzioni del nostro Presente. Allorché occasionalmente, nell’allineamento fortunato di particolari condizioni o linee guida di contesto, l’una o l’altra si colora di una luce altamente visibile, avvicinandosi all’aspetto cosmico di una supernova. Metafora, quest’ultima, in un certo senso adatta a definire l’impresa della scorsa settimana della ditta di Houston Velocity Aerospace, il cui nome viene associato da anni al concetto sempre più discusso dell’aeroplano ipersonico, un tipo di velivolo idealmente in grado di raggiungere qualsiasi punto della Terra nel giro di una singola ora. Distanze in altri termini come Roma-Sydney o San Francisco-Tokyo, trasformate nel dispendio cronologico di una trasferta quotidiana verso il luogo di lavoro, sebbene con dispendi certamente superiori di carburante, manutenzione, materiali di supporto. E una visione lungamente paventata, quanto immateriale negli aspetti pratici, di come il futuro appare progressivamente migliore del modo in cui tende a materializzarsi il susseguirsi delle generazioni. Possibile, dunque, che stavolta le cose possano essere diverse? Osservate e giudicate con i vostri stessi occhi, questo breve ma importante video promozionale, in cui viene mostrato l’effettivo funzionamento di un oggetto volante a decollo assistito mediante l’impiego di un vecchio aereo da addestramento Aero Vodochody L-29C Delfin, che potremmo descrivere come un tubo lungo due metri e mezzo, dal peso di 130 Kg. Dotato in altri termini dell’aspetto di un missile, ma l’esclusivo e indiscutibile funzionamento di qualcosa di concettualmente diverso. Ovvero l’apparecchio in grado di volare senza nessun tipo di pilota e in modo almeno parzialmente indipendente, nel modo che va sempre più spesso incontro alla definizione ad ombrello di “drone”. Il che non inizia d’altra parte neanche in modo vago a caratterizzare quello che costituisce, in modo principale, il nesso maggiormente notevole dell’impresa. Che ha visto tale arnese, proiettato a poco meno del Mach 1 per non causare problemi nello spazio aereo statunitense deputato al test, raggiungere tale velocità attraverso l’utilizzo di un impianto tanto inusuale, così strettamente associato al mondo di un fantastico e infinito potenziale, da essere stato relegato per decadi al regno della pura ed intangibile teoria. Salvo rare eccezioni, s’intende. Sto parlando del motore a rotazione detonante (RDE) il cui stesso funzionamento fu scoperto in modo ragionevolmente catastrofico, proprio a causa di un significativo incidente…
L’impresa del francese che tentò di avvicinare il volo dei paleotteri ai disegni di Leonardo da Vinci
Maestoso, rigido, elegante, l’aereo progettato dagli umani procede sulla rotta attentamente tratteggiata in linea retta, ragionevolmente indisturbato dalle condizioni climatiche, il vento avverso (che in effetti, lo aiuta a sollevarsi!) E abbassa le sue ruote soltanto una volta che ha raggiunto la destinazione opportuna. L’aereo progettato dalla natura, di contro, è imprevedibile ed erratico. Esso compie il suo decollo senza un obiettivo chiaramente definito, ma piuttosto si aggira in linee intersecantisi tra un fiore e l’altro, posandosi ora qui, ora lì. Prima della metà del giorno, il suo addome è già coperto di polline. Mentre dà sfoggio di un eccezionale maneggevolezza in base alle opportune condizioni vigenti. Esso è anche, nella maggior parte dei casi, non più lungo di qualche centimetro. Conveniente, nevvero? È tutta una questione di obiettivi, chiaramente. Eppure non si può affermare che dal punto di vista cosmico, una soluzione sia superiore all’altra. Ed è chiaro che costituirebbe un valore aggiunto di notevole entità, riuscire a coniugare in qualche modo gli aspetti migliori di entrambi i mondi. D’altra parte fin dai primi timidi approcci al distacco controllato da terra, gli antenati degli odierni scienziati ed ingegneri tentarono più volte d’imitare il volo con ali battenti. Vedi l’opera dei medievali Elmer di Malmesbury ed Abbas Ibn Fabbas attorno all’anno Mille, ma senz’altro più famosamente e con importanti strascichi nella cultura popolare Leonardo da Vinci nel 1485, che disegnò e presumibilmente realizzò un efficiente dispositivo rispondente alla definizione di ornitottero, realisticamente in grado di andare molto vicino all’evidente obiettivo di partenza. Tanto che affinché qualcuno riuscisse, effettivamente, a ri-creare un qualcosa paragonabile ci sarebbero voluti altri quattro secoli e venti anni, grazie all’opera di qualcuno che aveva studiato a lungo i presupposti. Prima di approntare, attrezzi e materiali adatti alla mano, il dispositivo più vicino a una libellula mai creato da mani pensanti. Sto parlando in questo caso del modello Dubois-Riout, monoplano svolazzante a creato dalla mente di René Louis Riout, ingegnere francese con l’aiuto del connazionale celebrato con la prima parte del nome. Forse uno sponsor? Chi può dirlo. Fatto sta che tale modello preliminare, dotato di un singolo paio di ali e in grado di spingersi in avanti già nel 1909 in forma di modellino grazie alla deformazione autonoma delle sue ali, fu giudicato degno di ricevere il prestigioso premio attribuito dalla commissione Lépine, creato soltanto 8 anni prima per ricompensare i maggiori inventori e creativi di tutta la Francia. Benché la versione a dimensioni reali dell’apparecchio sarebbe andata distrutta durante una prova di volo nel 1916, d’altronde, ciò non fu giudicato sufficiente a perdersi d’animo da parte del suo creatore, che con il concludersi della grande guerra decise di tentare nuovamente, facendo questa volta le cose più in grande. Il che avrebbe incluso, caso vuole, l’aggiunta di un secondo paio d’ali in parallelo lungo l’estendersi della fusoliera. Ed una coda lunga e sottile, del tutto paragonabile a quella tipicamente mostrata dagli antichi insetti appartenenti all’ordine degli Odonati…
Nella grande guerra del Pacifico, l’incredibile progetto di un aereo da 500 tonnellate
Ci sono innegabili vantaggi nel combattere assieme ad un gruppo che ricorda lo stesso addestramento, ha condiviso ogni esperienza fino all’attimo saliente del confronto col nemico in un contesto davvero rilevante. Fino a 900 uomini, un intero battaglione, che conoscono le rispettive debolezze e punti di forza, capaci di riconoscersi dalle specifiche caratteristiche delle proprie uniformi. Questo è il concetto, a ben pensarci, dei corpi di spedizione o d’avanguardia, come quelli utilizzati durante il drammatico 6 giugno del 1944 in Europa, per la liberazione della Normandia e tutto quello che sarebbe venuto a seguire. Eppure ripensando a quell’operazione, ed alla maniera in cui molti dei soldati finirono separati dalle proprie unità, per la complessità logistica di organizzare questo tipo di operazione, verrebbe anche da chiedersi: possibile che ci fosse un modo migliore? Chiedetelo ai giapponesi, nella travagliata progressione dei tre anni antecedenti di guerra, e potreste aver trovato una risposta inaspettata. Da parte di una macchina bellica come quella dell’Impero del Sol Levante, più volte soggetta a difficoltà significative nel trasferimento delle proprie truppe o risorse tra le isole distanti dell’Oceano, ove giacevano in paziente attesa i temuti sommergibili americani. Vi sono effettivamente varie teorie sul perché storicamente, un popolo capace di produrre tale tipo di vascelli fallì più volte nel riuscire a contrastarli adeguatamente: secondo alcuni la dottrina navale del paese, di concezione eccessivamente recente, non sapeva comprendere le regole della moderna guerra multi-livello. Altri hanno affermato che il codice stesso dei guerrieri del distante Oriente, il famoso Bushido, non concepisse il gesto di tendere agguati a navi disarmate da rifornimento o trasporto. O è ancora possibile che semplicemente l’ammiraglio Yamamoto, supremo comandante del conflitto, fosse incline a spendere le sue risorse altrove, trascurando il pericolo maggiore affrontato dai suoi uomini ancor prima di trovarsi in battaglia. Fatto sta che già nelle prime fasi della guerra la Dai-Nippon Teikoku Kaigun (Marina Imperiale del Grande Giappone) poteva contare sull’impiego di numerosi ed imponenti idrovolanti, utilizzati per spostare cargo particolarmente preziosi, evitando totalmente il rischio di finire a tiro dei siluri nemici. Aerei come il Tipo 97 e il Tipo 2, con un equipaggio rispettivo di 9 e 13 persone, pesantemente armati e capaci di decollare ed atterrare pressoché ovunque. Tanto che verso la metà del 1943, in base a informazioni raccolte successivamente, si decise di contattare la compagnia produttrice Kawanishi della prefettura di Hyogo affinché creasse un nuovo tipo di velivolo, capace di eliminare completamente la necessità di affidarsi ai convogli. In assenza di un soprannome effettivo, tuttavia, il semplice numero di serie KX-3 non permetteva in linea di principio di presumere la portata rivoluzionaria di una simile idea: un’alta coda, una monumentale carlinga. Due ali ampie 180 metri, ovvero pari alla lunghezza di un incrociatore da battaglia di quel paese e la capacità del tutto senza precedenti di portare un carico di 500 tonnellate. Abbastanza da cambiare ed invero definire, per quanto possibile, il destino di un’intera battaglia…