Gioia e giubilo, per il ritorno delle foche nel Tamigi!

Le automobili sull’A2 sfrecciavano a portata d’orecchio, chiaro segno della vicinanza nei confronti della brulicante, cacofonica società urbana “Dev’esserci PER FORZA un modo migliore di farlo” Anna Cucknell della Zoological Society of London pronunciò a volume udibile, un po’ pensando tra se e se, un po’ rivolgendosi al collega vicino, intento nella stessa ardua, possibilmente inconcludente procedura. È l’autunno del 2018 e un sole timido risplende sulle acque opache del più celebre fiume inglese, mentre un gruppo di naturalisti tentano, per quanto possibile, di catturare il flusso del vento, lo scorrere della corrente, il flessuoso agitarsi dei fili d’erba lungo l’estensione dei secondi. Ovvero per usare termini meno affini al concetto di metafora, annotare sugli appositi quaderni le rispettive impressioni numeriche (poiché sfortunatamente, è proprio di questo che si tratta) in merito alla quantità di riconoscibili forme sull’altra sponda, poco a ridosso del ponte Queen Elizabeth, a settentrione del comune di Dartford, nel Kent. Forme di creature, creature che si spostano continuamente, giocano tra loro rotolandosi nel fango, quindi sobbalzando con agilità invidiabile, si tuffano nelle marroni acque, scomparendo nuovamente alla vista. “Io ne ho contate… 27, con 5 cuccioli.” Fece quindi la responsabile del progetto, soltanto per alzar le sopracciglia alla risposta implicita del suo collega “24 e 6 cuccioli, mi spiace.” D’accordo, tempo di ricominciare, sospirò. Mentre la mente ritornava vuota da pensieri e imprecazioni, quindi, il suo sguardo prese a sollevarsi spontaneamente verso il cielo, in direzioni degli alti palazzi di Londra all’orizzonte. E fu allora che scorse, ancor prima di sentirlo, la forma di un piccolo aereo…
Tradizione rinomata e mantenuta in alta considerazione, come tante altre in Gran Bretagna, l’annuale sondaggio delle foche sul Tamigi era ormai diventato, fino all’anno scorso, alquanto prevedibile nei propri risultati. Una nutrita e fluida popolazione di appartenenti alla specie più comune della Phoca vitulina, con gruppi occasionali della Halichoerus grypus o foca grigia, più imponente e in certi casi, aggressiva, benché né l’una nell’altra specie, per motivi dettati dai loro istinti, sembrasse spesso intenzionata a riprodursi tra simili rumorose sponde. Un assunto messo in discussione, e finalmente superato, giusto lo scorso settembre 2018 al completamento e successiva pubblicazione soltanto quest’anno della reiterata iniziativa, grazie all’impiego di una risorsa tecnologica del tutto nuova: l’impiego di un aeroplano monomotore SOCATA Rallye, dall’abitacolo del quale contare i vari gruppi di animali non più direttamente, bensì tramite l’impiego del più risolutivo tra gli approcci immaginabili: la fotografia. Così che, finalmente, le foche non potessero più mescolarsi nel corso dell’annotazione, garantendo l’ottenimento di un conteggio privo d’esitazioni o difetti. Il che avrebbe permesso, a sua volta, di giungere alla conclusione lungamente sospettata: che non soltanto le due specie di foche inglesi avevano infatti fatto il proprio ritorno lungo una significativa sezione del grande fiume londinese, incluso il centro cittadino e fino al comune sito nell’entroterra di Richmond Lock, ma esse stavano visibilmente prosperando, con una popolazione di piccoli stimata essere attorno ai 3.500 esemplari e 138 cuccioli complessivi, ovvero essenzialmente la presa di coscienza di un vero e proprio Rinascimento di questi animali, drammaticamente accelerato nel corso degli ultimi anni. Niente male affatto, per un fiume che era stato dichiarato biologicamente morto soltanto una generazione e mezzo fa…

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Il casale situato all’apice della spirale gasteropode viennese

La chiocciola corre mentre le sue dita battono sulla tastiera. Possibile che tale cosa, diversamente dal resto, debba rimanere totalmente immaginaria? Quando si è seduti in un ufficio, col freddo bagliore di uno schermo per computer che si riflette nelle iridi dei nostri occhi, non è facile guardarsi a lato, per capire esattamente chi abbiamo come collega. Quale tipo d’esperienza, storia familiare o in certi casi dote segreta, ciascuno di costoro possa custodire, ben nascosta in fondo ad una patina d’ordinaria dedizione al compito che ci si attribuisce in tale luogo. Soltanto in speciali casi, conversando amabilmente, può succedere che il nostro punto di vista risulti improvvisamente ampliato, acquisendo cognizioni che potrebbero lasciarci basìti. Un qualcosa che scommetto, dovrà essere accaduto più volte nel corso dell’articolata storia professionale di Andreas Gugumuck, laureato in scienze ed economia che a partire dal 2000 aveva iniziato una brillante carriera nella sede austriaca del colosso informatico IBM, raggiungendo in pochi anni la qualifica manageriale. E tutto ciò nonostante quello che doveva essere, da un punto di vista meramente ereditario, il suo destino: ricevere in eredità l’antica fattoria di famiglia nei dintorni di Vienna, risalente almeno al 1720, per fare qualsiasi cosa che non fosse star seduto su una sedia per un minimo di 7-8 ore al giorno. Pensiero ricorrente, nato dal bisogno e il senso umano del contesto: potrei riuscire nonostante tutto a provvedere alla mia famiglia facendo ciò per cui sono nato? Domanda al centro delle circostanze: sarei maggiormente felice, in un simile luogo? Per cui gradualmente, nel cubicolo della sua diurna appartenenza, cominciava nel forgiare il segno e il senso di una nuova idea. Il suo passaporto, se vogliamo, per uscir di lì. E quale lasciapassare straordinario, sarebbe stato…
Ricreare, senza alcun tipo di soluzione di continuità, un’usanza medievale ormai perduta da tempo. Facendosi gli anacronistici ambasciatori di un intero mondo della gastronomia perduto, oggi associato principalmente ad altri paesi e luoghi. Per cui non a caso, siamo soliti chiamarle escargot e associarle ad una specifica serie di piatti e specialità francesi. Laddove nella realtà dei fatti medievale, è sempre esistita una ricca tradizione mitteleuropea ed in particolare appartenente al centro culturale dell’Austria per la coltivazione e preparazione di questi piccoli animali, come ampiamente documentato dalle cronache coéve. Pare infatti che sopratutto nella città di Vienna, durante la quaresima, i monaci fossero soliti andarne ghiotti, proprio perché essi non venivano considerati, letteralmente, né carne, né pesce. Fino all’istituzione successiva nel XIX secolo di un rinomato mercato dietro alla chiesa di Peterskirche sul viale Jungferngasserl, dove una simile pietanza, chiamata talvolta “ostriche dei poveri” o anche “ostriche viennesi” veniva proposta al pubblico con diversi livelli qualitativi e di prezzo. Perché mai, dunque, giunse a chiedersi Mr Gugumuck, dovremmo decidere di lasciare indietro un così ricco e redditizio passato? Un approccio alla questione frutto d’indole curiosa e propensione a sfidare le convenzioni che nei fatti, avrebbe in seguito costituito la sua fortuna…

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Hawaii: la rinascita della palude dalle mille piante appiccicose

Alcuni film hanno una scena particolarmente memorabile, che non è né quella più costosa, lunga, articolata o importante per la storia. Ma una semplice sequenza di collegamento tra un passaggio e l’altro, capace di restare impressa per le particolare soluzioni registiche, il montaggio o in maniera ancor più semplice e diretta, lo scenario sullo sfondo dell’inquadratura, scelto con sapienza per incrementare il senso di scala della narrazione. Come nel momento in cui, verso l’inizio del grande successo degli anni ’90 Jurassic Park, l’elicottero con i protagonisti sorvola l’isola dove sono stati ricreati i dinosauri, tra montagne a strapiombo, vertiginose cascate ed alberi disseminati da ogni dove. Un luogo che realmente può essere visitato ancora oggi, contrariamente alle incredibili creature preistoriche costruite grazie alla computer graphic per il film, trovandosi nei fatti entro i confini dell’isola di Kauai, quella geologicamente più antica nell’intero arcipelago del Pacifico che fu teatro del più grande attacco dei giapponesi contro gli Stati Uniti, all’apice della seconda guerra mondiale.
Tra irte pendici e maestose barriere naturali oltre le quali, a conti fatti, l’ambiente ha risentito anche nel mondo reale di poco accorte manipolazioni umane, o per essere ancor più specifici, l’incidentale liberazione di creature che in nessun modo dovrebbero appartenere a questo tempo o luogo: grufolanti, ruzzanti, scavatori, mangiatori/defecatori e qualche volta ferocemente territoriali suini rinselvatichiti, il cui nome operativo è Distruzione, almeno per quanto concerne il cosiddetto “rapporto armonioso con la natura” che in circostanze ragionevoli, dovrebbe far parte del più profondo essere di tutti gli animali. Il che sarebbe forse un problema meno grave per così selvaggi e imprendibili recessi, se non fosse per il singolare tesoro paesaggistico nascosto all’ombra delle montagne, in un particolare bioma (o habitat che dir si voglia) che risulta totalmente unico tra queste terre, nonché raro anche nel mondo in generale. Chiamato dai nativi, sin da tempo immemore, palude di Kanaele: una distesa di acquitrini integralmente ricoperta di vegetazione rigogliosa, con molte piante più uniche che rare, proprio in funzione della sua particolare collocazione nel mezzo dell’oceano e ad un’altitudine sul mare particolarmente bassa, contrariamente a luoghi simili nel resto dell’arcipelago rilevante. Incontaminato e memorabile rimando ad epoche dimenticate, almeno fino a qualche decade fa quando, inevitabilmente, venne invaso da due fattori altamente problematici, il primo dei quali, ovviamente, furono i maiali. Ed il secondo, invece, di natura vegetale: mi sto riferendo alla terribile ciliegia o mirto di Guava (Psidium cattleyanum) alberello di 2-6 metri appena capace di diffondersi a macchia d’olio grazie allo spargimento dei suoi semi da parte di uccelli e caso vuole, proprio inconsapevoli suini. Fino a stritolare e soverchiare, come già avvenuto in molti altri territori non nativi, grosse aree di preziosa vegetazione locale… Il che nella palude di Kanaele, non potrebbe che costituire un disastro particolarmente irrimediabile, perché…

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La minuscola salvezza di un McDonald’s pieno d’api

Costituisce da tempo un assunto plausibile, per quanto assolutamente non dimostrabile, che l’agitarsi di un’ala di farfalla possa aver causato l’estinzione dei dinosauri. Per un’ovvia concatenazione di cause ed effetti, che comincia con l’impercettibile brezza provocata da quel battito, a sua volta in grado di deviare il vento di qualche millimetro. Che per la legge dell’effetto dòmino, si moltiplica all’ennesima potenza, generando all’altro lato del pianeta un uragano. Senza il quale, assai probabilmente, la nube devastante sollevata dall’enorme meteorite avrebbe avuto modo di disperdersi, risparmiando la congrega dei scagliosi proprietari della Terra. È questa la legge delle cose piccole, che insistendo sullo stato delle circostanze possono causare un cambiamento in grado di durare nel tempo. Come l’infinitesimale parassita Varroa destructor, o acaro delle api, che per sua implicita natura non vorrebbe null’altro dalla sua vita, che insinuarsi dentro l’alveare, per succhiare via la dolce, dolce emolinfa che scorre dentro al corpo delle nostre beneamate produttrici di miele. Peccato che una tale predisposizione, soprattutto nel contesto largamente problematico dell’attuale ambiente contaminato dall’inquinamento, stia portando lentamente, e inesorabilmente, all’estinzione dell’insetto maggiormente amato delle nostre colazioni.
Eppure all’orizzonte, sotto l’epica luce riflessa di quel duplice arco d’oro, si profila una speranza: che sia il dinosauro stesso, per stavolta, a far muovere di nuovo le ali dell’insetto? Lucertola gigante come la catena principale di fast food americani, tanto spesso demonizzata per il contenuto non propriamente salutare del suo più tipico menù. McDonald’s il titano, “Grande abbastanza…” come recita la nuova campagna pubblicitaria per la Svezia creata dall’agenzia NORDDB, su richiesta della dirigente svedese Christina Richter “…Per fare la differenza.” Ecco un messaggio schietto e sincero, approccio raro in pubblicità, che non cerca di far passare una potente realtà multinazionale come una realtà legata direttamente ai bisogni e le esigenze della gente in strada, benché possa, in qualche modo, intervenire nell’arresto di un crudele quanto orribile destino: l’estinzione delle api. Orrore. Devastazione. Zero diffusione del vitale polline, quindi aumento della fame nel mondo. E cosa fare, in risposta ad una simile tremenda possibilità? Se non dare il proprio contributo, indubbiamente significativo, costruendo sopra il tetto dei propri infiniti ristoranti delle arnie pronte per accogliere altri ospiti davvero benvenuti. Proprio coloro che ronzando, possono contribuire alla ricostruzione dell’Universo. Ma per chi si è fatto strada dall’età di soli 18 anni, giungendo infine ad acquistare quello stesso ristorante, a Stattena, dove aveva avuto inizio la propria carriera negli anni ’80, tutto questo non poteva certamente bastare. Ecco dunque l’idea, resa possibile dal contributo dei pubblicitari, di creare in occasione del recente giorno internazionale delle api (20 maggio) un’arnia davvero speciale, costruita per assomigliare, in tutto e per tutto, all’edificio di cui avrebbe dovuto costituire l’artropode coronamento…

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