Echi del fantasma crestato che abbaia nella giungla della Nuova Caledonia

Il passo simile a una danza, il lungo becco acuminato, la forma simile a quella di un pollo allungato fino a ben 55 cm di notevole presenza. Non particolarmente distintivo nelle sue caratteristiche almeno finché non si palesa sul sentiero la sagoma di un potenziale rivale nel controllo del territorio, suo simile dagli stessi riflessi bianchi e lievemente tendenti al blu. Nemico di fronte al quale si erge diventando il più alto possibile, aprendo le ali striate da un notevole disegno a righe bianche e nere… Poco prima d’indossare l’elmo gladiatorio incorporato, con le piume disposte nella feroce cresta tipica dei più temuti guerrieri!
Kagu è l’uccello nato per dimostrarci come le complesse categorie create dalla scienza dell’uomo non abbiano alcun significato nel flusso indistinto della natura. Kagu non è un pappagallo, non è un rallide, non è un fasianide e neppure un gruiforme, sebbene per lungo tempo fosse stato inserito erroneamente in quest’ultima categoria. Finché un’analisi più approfondita, basata sulle sue caratteristiche genetiche, non ha permesso d’individuare il suo unico parente nell’improbabilmente remoto tarabuso del sole (Eurypyga helias) che vive in territorio sudamericano. Il che costtiuisce senz’ombra di dubbio le radici di un problema dal punto di vista geografico, visto come il nostro grigiastro Rhynochetos jubatus viva, di suo conto, nella grande isola situata ad Occidente del continente australiano, la titolare Nuova Caledonia. Con un nome composto da rhis + chetos, parole che significano rispettivamente in greco “naso” e “corno” seguite del termine latino riferito all’alta cresta simile a quella di un cacatua. Per questi uccelli dalle grosse zampe che non sono certo migratori e precorrono la colonizzazione umana, stroncando sul nascere l’ipotesi che un qualche tipo di propagazione o contaminazione genetica possano essere avvenute svariati secoli fa, causa trasporto a bordo d’imbarcazioni di provenienza polinesiana. Il che lascia la notevole spiegazione di trovarsi nei fatti dinnanzi a una creatura straordinariamente antica, probabilmente risalente all’epoca in cui i continenti avevano soltanto cominciato a separarsi, riuscendo ad occupare, col suo distante familiare, l’intera placca rocciosa nota come Gondwana, amalgama primordiale di Sudamerica, India, Medio Oriente, Antartide e Australia. Assai probabilmente ben prima che assumesse molti dei suoi tratti maggiormente distintivi, tra cui soprattutto l’incapacità di staccarsi da terra agitando le sue ali, che pur essendo sufficientemente grandi mancano al giorno d’oggi della muscolatura necessaria a sostenere il volo. Questo perché il kagu (o cagou) come sono soliti chiamarli i membri dell’etnia nativa dei Kanak, occupa un’ambiente rimasto privo di predatori per una buona parte dell’intera storia umana, almeno finché i primi coloni occidentali, per errore o intenzione, fecero sbarcare in queste terre cani, gatti e topi, rinomati distruttori d’ecosistemi. Non che l’unico rappresentante vivente della famiglia Rhynochetidae ed il genere Rhynochetos se la stesse passando particolarmente bene prima di quel momento, vista la caccia non propriamente sostenibile dei suoi esemplari adulti condotta dalle tribù indigene successivamente al progressivo popolamento dell’isola, con l’obiettivo di finire in pentola prima del termine della giornata, per un destino gramo che avrebbe in tempi non sospetti già condotto all’estinzione della sua specie cognata R. orarius o kagu di pianura, in media più grande del 15% rispetto all’uccello attuale. Eppure nonostante tutto, questa creatura definita in via informale “fantasma” per la colorazione delle sue piume continua faticosamente a sopravvivere, deponendo le sue massimo tre uova stagionali da cui alleva, nella maggior parte dei casi, un singolo pulcino. Il che non costituisce, di sicuro, l’aspetto maggiormente insolito e caratteristico della rissosa creatura…

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Filo ininterrotto col Neolitico: i primi 5000 anni di Skara Brae

In un buco nel terreno, presso le verdeggianti regioni settentrionali della Terra di Mezzo, viveva uno hobbit. Ma quanto profondo, esattamente, era questo buco? In che numero di stanze si divideva? E che prove abbiamo, ad esempio, che l’abitazione in questione non fosse più che altro una sorta di magazzino in penombra, dove il proprietario teneva i suoi formaggi, la carne, i cereali? Gli hobbit, a differenza degli elfi, non sono immortali ed ipotizzando uno scenario in cui futuri archeologi si fossero trovati a riscoprire una Contea sepolta, chissà cosa sarebbe stato possibile desumere, dal contesto di quel sito rimasto in silenzio da innumerevoli generazioni… Probabilmente, abbastanza da riuscire a farci un’idea. Se vogliamo usare come modello il metodo scientifico di questo mondo, per come è stato applicato a un luogo antico e rinomato come le rovine semi-sotterranee di Skara Brae, villaggio riportato alla luce del sole da una tempesta nell’ormai remoto 1850. Non che all’epoca il laird (governante) della vicina baia scozzese di Skaill, nelle isole Orcadi, fosse stato in grado di approfondire eccessivamente la questione, scavando e documentando soltanto quattro delle otto case costituenti l’insediamento ed attribuendole a una non meglio cultura preistorica della regione. Ma William Watt era in effetti più che altro un appassionato di storia, che lavorava da solo e coi limitati strumenti filologici e d’approfondimento a sua disposizione, ragion per cui nel giro di qualche anno il sito venne nuovamente abbandonato. Almeno fino a quando nel 1927, spronata dall’avvenuto saccheggio ad opera d’ignoti ed il successivo danneggiamento causa un’ulteriore perturbazione meteorologica, l’Università di Edinburgo decise d’inviare in questo luogo il professore di archeologia Gordon Childe, che ricercò in maniera più approfondita l’origine precisa di una simile testimonianza architettonica, giungendo ad attribuirla in via preliminare all’Età del Ferro. Ma ancora una volta, si trattava di un errore. Sarebbe stato infatti solo con l’arrivo degli anni ’70 e l’invenzione della tecnica di datazione al carbonio, che la vera e impressionante antichità di un tale luogo sarebbe stata finalmente documentata dallo studioso David Clarke: 3100/2500 a.C, ovvero in altri termini, un tempo antecedente alla Grande Muraglia, la Piramide di Giza e potenzialmente lo stesso cerchio di pietre di Stonehenge. Facendone, a tutti gli effetti, il più cronologicamente remoto e ben conservato di tutti i villaggi ritrovati nell’intero territorio europeo.
Questo intonso agglomerato, quindi, si presenta come una serie di abitazioni scavate nel terreno con mura costruite in lose, pietre sottili spaccate in larghezza e disposte a strati, e minuscole porticine probabilmente usate al fine di tenere fuori il freddo e il vento di questa regione. Gli antichi tetti, forse costruiti in legno, sono del tutto mancanti mentre risulta perfettamente immutato l’intero corredo di arredi interni, scolpito direttamente nella pietra capace d’attraversare immutata i millenni della nostra lunga vicenda umana. La stessa collina usata come protezione esterna per gli edifici si presenta come artificiale, data la sua costituzione in parte significativa della materia prima nota come midden o in altri luoghi geografici sambaqui, un agglomerato di rifiuti organici, conchiglie sbriciolate e calcare, accumulatosi nel tempo in funzione della lunga permanenza dell’indefinita civiltà progenitrice. Il cui destino finale, nonostante tutto, continua a rimanere per lo più ignoto…

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La storia delle rocce che sviluppano la fotosintesi clorofilliana

É il ritorno di un qualcosa che, in un certo senso, non se n’era mai andato: tra le acque di laghi dell’Australia Occidentale, poco popolati di pesci, molluschi o altre creature, hanno dato forma al proprio profilo attraverso gli ultimi millenni alcuni strani ed irregolari oggetti. Fossili viventi in più di un senso, poiché non solo assomigliano nei fatti ad un qualcosa di mineralizzato ed oramai immutabile, ma continuano ostinatamente a respirare. Agglomerati di materia calcarea, quindi assai chiaramente non vivente, al cui interno si nasconde tuttavia una scintilla senza occhi, bocca o un qualsivoglia tipo di cervello. Il cui fondamentale desiderio, imperturbabile, viene perseguito con entusiasmo: dar seguito alla propria genìa, dall’interno d’inespugnabili e antichissimi castelli che crescono 5 cm ogni 100 anni, definiti scientificamente stromatoliti (dal greco “rocce a strati”).
Un corpo astrale ruota attorno alla sua stella ricevendo in alternanza luce, radiazioni, energia. Ma non è solo ciò a determinare, nel ripetersi di questa fase ininterrotta, il tipo di trasformazioni che caratterizzano la sua esistenza. Mentre letterali miliardi di cellule, sfruttando l’opportunità proficua, si combinano e producono esseri complessi. Le creature che, da un punto di vista cosmico, esistono soltanto per creare dei problemi: riscaldamento terrestre, effetto serra, polveri sottili. Ciò che ha prodotto un possibile punto d’arrivo per l’insieme complessivo degli esseri eucarioti, questa perennemente insoddisfatta razza umana, non ha pari nella storia (recente) della natura. Le cose cambiano, di contro, qualora si diriga la nostra lente verso i territori degli albori, l’esistenza prima del concetto stesso di secoli o millenni: 4.000 milioni di anni fa, periodo Archeano. Il suolo instabile dei continenti, ormai raffreddato, è una vera e propria giungla primordiale di microrganismi, ricoperta dei batteri procarioti che, un giorno, avrebbero imboccato la strada senza ritorno dell’evoluzione. Almeno quelli che, tra loro, si sarebbero dimostrati capaci di un certo livello di adattamento. Poiché una classe, su tutte, domina il sistema ecologico di pianeta ancora totalmente anaerobico, ovvero privo di ossigeno. Sto parlando dei bluastri, immobili e cionondimeno operosi cianobatteri, la cui stessa presenza non avrebbe continuato a permettere una simile contingenza di fattori. Gradualmente, progressivamente, la luce penetra lo spesso strato di quel gas metano che, all’epoca, dominava la nostra atmosfera. Mentre questi letterali antenati del concetto contemporaneo di alga, dando seguito al processo che costituisce per loro il sinonimo stesso della respirazione, iniziarono a produrre ciò di cui oggi noi, lontani discendenti di un ramo parallelo, abbiamo un assoluto bisogno per continuare il percorso della nostra lunga e travagliata civiltà. Così l’ossigeno, come la fissione atomica dell’era nucleare, fece la sua comparsa all’interno di un sofisticato laboratorio, in questo replicato letterali milioni di volte all’interno dell’oceano senza pesci. Finché non si raggiunse, nel corso di una svolta imprescindibile, l’evento di trasformazione atmosferica noto come Grande Evento Ossidativo, databile a circa 2.450 milioni di anni fa, quando tutto il ferro contenuto negli oceani iniziò, istantaneamente, ad arrugginire.

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Il regno artropode della Preistoria conservato sotto il suolo della Romania

Appiattita dalla catalogazione orizzontale di Internet, ogni tipo di sequenza cronologica tende a passare in secondo piano: così la notizia fotografata e riportata sui social recita: “Ritrovata caverna vecchia di 5,5 milioni di anni con quasi 50 specie animali sconosciute alla scienza.” Subito seguìta dal commento cupamente umoristico: “Gente, richiudetela immediatamente. Questo NON è l’anno adatto!” E come dargli torto? Ma vediamo anche stavolta, per onor di cronaca, di creare l’ordine dal caos ridefinendo il labile confine tra realtà e fantasia. La grotta in questione, situata nella regione rumena di Costanza sulle coste del Mar Nero, è un effettivo ritrovamento accidentale a seguito di un sondaggio speleologico di prospezione mineraria durante la dittatura comunista di Ceaușescu, sottoposto presto ad approfonditi studi e valido a cambiare alcuni basilari presupposti sulla nascita e l’evoluzione della vita. La sua scoperta, tuttavia, risale al remoto 1986 e senza alcun recente nuovo sviluppo, in questa turbolenta prima metà dell’anno 2020, salvo il carosello tipico dei tentativi reiterati di chi tenti di aumentare il proprio numero di clicks. Ciò detto, l’esistenza stessa di questo network di gallerie noto al mondo con il nome di Movile costituisce di per se un fatto tanto importante per la storia in essere delle scienze biologiche da poter cogliere in un simile frangente l’opportunità rara, e preziosa, di approfondirne (letteralmente) ogni sepolta nozione, recuperando cupe consapevolezze su qual sia l’origine di tutto e assai probabilmente, anche il nostro remoto futuro.
La prima esplorazione di questo arcano luogo viene collegata normalmente alla figura eclettica dello scienziato e speleologo Dr. Cristian Lascu, recatosi sul posto col suo team dell’Università di Bucarest per l’opportunità di annotare per la prima volta alcune delle più improbabili diramazioni sotterranee dell’albero della vita. Come narrano le cronache e i successivi rilevamenti, delle non più di 100 persone abbastanza folli o coraggiose da inoltrarsi lì sotto nel corso degli ultimi 34 anni, Movile è un crogiolo di circostanze ecologiche tanto estreme ed improbabili da poter essere paragonato all’ambiente di un diverso pianeta. Oltre una discesa verticale con la corda di circa 20 metri e superato un primo ambiente quasi anaerobico fatto di pertugi angusti e serpeggianti, l’esploratore con equipaggiamento per immersioni si ritroverà infatti ad accedere al livello più profondo, completamente occupato da un lago sulfureo e maleodorante. All’interno del quale brulica la più improbabile, nonché inerentemente misteriosa, collezione di pallide creature. Tutte prive di occhi e perfettamente adattate a vivere nel buio eterno, principalmente appartenenti alla classe degli aracnidi, benché non manchino isopodi, coleotteri, vermi nematodi e gasteropodi. Lumache scivolano sulle pareti, dunque, mentre i ragni costruiscono sottili tele, mirate non a catturare mosche inesistenti bensì collemboli saltatori, insetti noti con il nome anglofono di springtails. Altrove sanguisughe dall’aspetto alieno si affollano presso le poche sacche d’aria sotto il soffitto a volta della caverna, dove cacciano i vulnerabili vermi di terra, finiti erroneamente in questo inferno dalle circostanze tenebrose. Mentre l’uomo, inconsapevole, s’interroga sulle ragioni della loro esistenza…

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