Il bersaglio preferito di una frusta da 25 metri

“Har, har, har!” Esclamo estatico Categnaccio, mentre un’altro dannato stramazzava a terra, raggiunto alla schiena dalle tre punte del suo forcone. Una sottile pioggia di lapilli cadeva dal cielo grigio cenere, mentre un fiume di lava andava a perdersi tra le colline all’orizzonte, scorrendo impossibilmente all’incontrario. “Ben trovato…” Iniziò a dire Barbauncinata, mentre estraeva la mazza attaccata a una lunga catena “…amico…” con un sibilo nel vento, il pesante sferoide borchiato raggiunse i malleoli di uno sparuto gruppo di malfattori “…mio!” La pallida scusa per una stella a neutroni per metà già spenta, ciò che passava per Sole a questi profondi recessi dell’Inferno, gettava una luce violacea sulla scena priva di un briciolo di speranza. Dagli alberi morti scorrevano rivoli di resina color del sangue. “Come ti va questa bella giornata?” Categnaccio ritrasse il forcone, fermandosi per assumere una rara posa neutrale: “Ebbene! Che dovrei dirti. Quaggiù è la solita noia. Non puoi neppure infilzare un cuore umano, che il suo possessore stramazza a terra stecchito e devi firmare il modulo affinché l’Angelo della Morte venga a resuscitarlo. Quando ho fatto richiesta di lavorare in questo posto, non pensavo di essere IO la vittima del tormento Eterno.” Al che, Barbauncinata assunse un’espressione tristemente solidale: “Oh, ti capisco, so bene cosa vuol dire. Da quando prendo di mira le ossa, questo problema l’ho superato. Ma per ogni cliente soddisfatto, ce n’è uno che si rifiuta di trascinarsi con la sola forza delle braccia nel fango pieno di sanguisughe, mentre tenta di fare ritorno al monte del Purgatorio. Se soltanto…Se soltanto ci fosse un MODO migliore!” Al che, un occhio di fiamme si aprì al centro della pianura, trapassando con le sue ciglia d’acciaio un paio di corpi umani momentaneamente abbandonati dai loro spiriti, condannati all’eterno tormento. Dall’oscuro varco della pupilla, iniziarono a palesarsi un paio di corna, quindi una lunga coda, seguìta dal volto più orribile che mente diabolica potesse mai concepire. Era Dragobardo, il vice-direttore incravattato di codesta orripilante Bolgia. “Buongiorno e buonasera, miei stimati dipendenti. Ero intento a dare una strigliata ai due vecchi padiglioni auricolari, quando non ho potuto fare a meno di appuntarmi sul libro Nero il vostro breve e vietato scambio d’opinioni. Lasciate che ve lo dica, oggi è il vostro giorno fortunato!” Mentre parlava i dannati dell’intera valle parevano come immobilizzati, colpiti dall’ipnotismo della sua voce suadente: “Poiché non sono qui oggi per punire, ma per ricompensare. Con la… Conoscenza. Vedete…. Il vostro problema è l’approccio, non certo l’impegno. Perché mai sfruttate, non senza un certo encomiabile grado di zelo devo certamente ammetterlo, due armi fatte per mutilare ed uccidere? Dovreste ben sapere che non è questo il vostro dovere.” Pronunciando ogni parola con enfasi perversa, l’oscuro signore della XXII si chinò lievemente in avanti. Portò le mani artigliate dietro la schiena, per presentarle di nuovo dinnanzi a se, ben stretti nella sua presa, due oggetti simili a gigantesche liquirizie marroni. “Vi presento…” Così dicendo, srotolò quanto descritto: “Il signore e la signora frusta.” Con uno schiocco poderoso, la lunga striscia di cuoio nella sua mano destra sembrò animarsi di volontà propria, raggiungendo alla schiena il più vicino del gruppo dei procuratori legali corrotti. Uno schiocco terribile fece eco all’invisibile movimento, mentre la frusta sinistra parve allungarsi d’un tratto, avvolgendosi attorno al collo di uno spacciatore di coca tagliata male. “Ecco, vedete. La potenza di un’arma fraintesa. Contrariamente al concetto che ne avete voi diavoli di prima linea, la frusta non è fatta per ferire o causare dolore.” Mentre pronunciava questo, un gemito congiunto delle sue vittime parve esprimere un’opinione di acuto dissenso: “Si tratta di un’arma che causa lo stato più terribile immaginabile per questi due malfattori. La cosiddetta…Paura.” A questo punto Barbauncinata guardò Categnaccio, quindi fu il primo a inchinarsi di fronte al suo superiore. Gli artigli protesi all’altezza del naso a teschio, chinò lo sguardo e attese di ricevere l’inaspettato, quanto utile dono. Il suo collega, dal canto suo, parve momentaneamente esitare, quindi comprese la gravità della situazione. Con un grugnito, ricevette controvoglia il dovuto.
Nel frattempo, molti chilometri sopra la volta del sottosuolo, un giovane volenteroso si apprestava a mettere alla prova l’ultimo prodotto della sua famosa officina. Bryan Ropar, il suo nome, ma molti l’avrebbero conosciuto prima o poi come patrimonio di Internet, ovvero genio fantastico dell’intrattenimento spontaneo e il sovvertimento delle altrui aspettative. Titolare di oltre 15 canali, che spaziano da argomenti come la fisica, la storia dell’aviazione, l’elettricità, le armi costruite in casa, fino a quelli dedicato alle sfide della sua vita di persona affetta da una forma lieve di autismo e un’importante passione, collezionare sedie bianche di plastica da giardino. Il cui tratto più personale, se vogliamo, è una tendenza a non andare generalmente fino in fondo in ciascun esperimento proposto, lasciando spesso gli spettatori perplessi ma per qualche strana ragione, più divertiti di quanto riescano a fare molti dei suoi colleghi del Web. Come la volta in cui aveva costruito un cannone ad aria compressa, senza mai mostrarlo sparare per “Non rischiare di danneggiare le sedie” Oppure la misteriosa questione dell’automobile a razzo (all’apparenza un sedile con alcuni tubi in PVC) cui tutt’ora, sei mesi dopo, mancano le ruote, il volante e…Svariate altre cose. Ma udite udite, non stavolta. Non questa dannata volta. In cui egli sembrava disposto a tutto, pur di dare un senso all’ultimo prodotto della sua grande creatività.

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Premi qui per essere rapito da un drone

Molti di voi probabilmente non se lo ricorderanno, oppure non l’avranno mai visto. In fondo, ormai il problema è stato risolto. Ma quando Twitter era un sito in rapida crescita che non riusciva a far fronte all’alto numero di accessi, era solito mostrare un caratteristico messaggio di errore: “Mr. T è sovraccarico!” Diceva in inglese, con sotto l’immagine della prototipica balena fiabesca (sembrava quella di Pinocchio) faticosamente sollevata in aria, mediante delle funi strette nei becchi di una certa quantità di uccellini arancioni. La metafora, se vogliamo, era piuttosto chiara. E si trattava anche di una figura accattivante, sopratutto per la sua capacità di appellarsi al nostro spirito d’empatia: chi è che non ha mai desiderato di volare? Come un mammifero marino, oppure un sito web?! Sopratutto e nel caso specifico, tutt’altro che infrequente ai ritmi assurdi dell’attuale quotidianità, di trovarsi in ritardo per un importante appuntamento, trovandosi a tirare fuori il cellulare per chiamare l’altro…Quando all’improvviso… Prende forma un impossibile pensiero… “Se soltanto potessi superare il traffico, trovandomi a destinazione in un minuto.” Attenzione. Una rivelazione. La realtà che appare fra le pieghe dello spazio tempo: se vogliamo, possiamo avere un’anteprima del futuro. Basterà installare le giuste App sul cellulare. Dal che deriva quindi, la questione fondamentale: affidereste la vostra vita a Firefox, a Google Chrome? A Facebook? A Clash of Clans? Beh! “Se soltanto ciò potesse portarmi un minimo vantaggio personale, semplificando la seconda parte della faticosa settimana…” Sembra aver pensato quest’uomo dalla barba straordinaria, pienamente disposto a far da cavia per le nuove generazioni. Sopratutto visto il ruolo interpretato nel video di presentazione dell’Ehang 184 (una persona, 8 rotori, quattro piloni) il dron-one dell’omonima compagnia cinese di Pechino, destinato a spiccare il volo entro quest’estate nei già affollatissimi cieli di Dubai.
È una trovata, in effetti, tutt’altro che insignificante. Molti ormai hanno sperimentato la semplicità d’impiego e l’affidabilità superiore alle aspettative del diretto erede degli antichi modellini radiocomandati, un micro-velivolo che è al tempo stesso un hobby, un importante strumento video e qualche volta, ancora adesso, la tremenda arma militare che era stato da principio. Nel cui immediato domani, come continua enfaticamente ad illustrarci Amazon, potrebbe trovar posto il ruolo dell’autonomo corriere che consegna i nostri pacchi direttamente nel cortile di casa, in corrispondenza di un enorme QR Code. Vicini col cannone spara-rete permettendo, per non parlare di falchi, aquile, cani, gatti e i molti altri pericoli del mondo urbano trans-oceanico e trans-continentale. Però ecco, a ben pensarci, quale potrà mai essere la differenza, dal punto di vista dell’oggetto in se, tra il trasportare cose inanimate o esseri viventi? Umani, persino? Beh, tanto per cominciare, la scala dell’oggetto. Sollevare fino a 100 chili con una configurazione multi-rotore, e l’alimentazione solamente elettrica per contenere il peso, non è esattamente un qualcosa che il mercato consumer fosse preparato a fare, almeno fino gennaio dello scorso 2016. Quando si è iniziato a parlare, presso le fiere tecnologiche e i vicini ambienti di settore, del sogno finalmente realizzato col prototipo di Huazhi Hu, CEO della Ehang, che aveva perso in rapida sequenza un caro amico in un incidente con l’ultraleggero, subito seguìto dal suo insegnante di volo con l’elicottero. Portandolo a giurare che entro breve, grazie all’esperienza maturata tramite l’immissione sul mercato del suo drone radiocomandato di successo Ghost, egli avrebbe prodotto il metodo più sicuro, e moderno, per staccarsi da terra nell’assoluta e più totale serenità. Il che voleva dire, in parole povere, rinunciare del tutto ai comandi di volo. No, davvero! Aspettate a dire “È una follia!” Tutto nasce da un preciso calcolo dei rischi e dei possibili imprevisti. Giacché lo studio delle statistiche, su scala pressoché globale, ci dimostra come la prima causa di incidenti aerei sia l’errore degli umani. Perché non fare il possibile, dunque, per eliminarli dall’equazione…Così.
La cravatta omessa per ovvie ragioni di sicurezza relative all’imbarco su un velivolo con i rotori all’altezza delle caviglie, il fascinoso uomo d’affari carica quindi la sua valigetta nel portabagagli. Con un sorriso che denuncia grande sicurezza, apre lo sportello e si accomoda sul sedile di volo con mega-tablet incorporato. Meditando per pochi secondi, preme un paio d’icone, guarda dritto verso l’orizzonte e preme GO. Se doveste avere il coraggio di seguirlo, scoprirete molte cose…

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Il ponte inclinabile che sembra fare l’occhiolino

Fu un momento memorabile, in grado di attrarre decine di migliaia di abitanti provenienti dalla città e le campagne circostanti. Sua Maestà la Regina che, durante le celebrazioni per il Giubileo d’Oro, giungeva in visita presso uno dei centri abitati principali del Northumberland assieme al marito, per assolvere a svariati compiti istituzionali: l’inaugurazione della statua di un cardinale cattolico nato da queste parti, nel primo caso di un simile onore reso da parte della guida spirituale della Chiesa anglicana dall’epoca della Riforma protestante; assistere al passaggio del solito benché imprevisto uomo nudo, prontamente (brutalmente) arrestato dalla polizia locale; effettuare la pressione di un grosso pulsante rosso, posto su un piedistallo giustamente ornato di fiori. Il quale, collegato attraverso un lungo cavo ad una scatola d’acciaio ad alto tasso tecnologico, a sua volta incastonata in un parallelepipedo di cemento, avrebbe dato il “La” ad un’evento totalmente senza precedenti nella storia DEL MONDO (se si escludono le molte prove effettuate in-situ poco prima di questo storico momento). Un’imbarcazione posizionata ad arte suonò la sirena, il Principe Filippo si lasciò sfuggire un sorriso, il vento agitò lievemente il fiore di stoffa sull’amabile cappellino d’ordinanza. Un agglomerato di 800 tonnellate di acciaio, cemento e vetro prese quindi a roteare su se stesso senza un suono, ricreando il movimento di un’ala di gabbiano. Ma se voi foste stati sospesi sopra l’onde, in mezzo all’incresparsi delle acque ancora fresche in pieno maggio, non sarebbe stata questa la metafora destinata a colpirvi. Bensì un’altra ancor più calzante: l’occhio senza palpebra di Sauron, sommo signore dell’oscurità, trascinato dalla cime della torre al fondo della via transitabile con nave. *Meno le fiamme infernali e il suono d’organo vibrato tendente all’acuto finale.
Molte delle cose che diamo per scontate nascono da una diretta applicazione del principio di convenienza: ogni curva nella strada è motivata dalla forma del paesaggio, la presenza di edifici oppure il bisogno di correggere una deviazione precedente. E le città che sorgono sulle due sponde di un corso d’acqua, senza troppo cogitare, fanno affidamento su metodi collaudati per far di ciò che era diviso, un solido tutt’uno. Sistemi di collegamento come i molti ponti sul Tyne, parola che in lingua celtica voleva ipoteticamente dire “il fiume”, a riconferma di quanto fosse determinante una simile barriera geografica nei loro viaggi, spostamenti e commerci. Come molto chiaramente, lo è tutt’ora. Tanto da aver fatto del vecchio e omonimo arco di metallo, il beneamato Tyne Bridge del 1928, il soggetto d’innumerevoli fotografie e un personaggio ricorrente sullo sfondo di serie Tv e film. Pari, nella mente degli abitanti locali, a un punto di riferimento come il Golden Gate. E sembrava che nessuna struttura simile costruita nei pressi, passata, presente o ancora da venire, dovesse superare il suo fascino senza tempo: non il Redheugh, né il King Edward o lo Scotswood. E neppure le alternative dall’estetica più marcata e particolare, quali l’antico High Bridge (1989) riaperto nel 2008 dopo una lunga serie di restauri, dal succedersi di arcate dall’estetica monumentale, oppure lo Swing Bridge, montato su un perno centrale e in grado di spostarsi in senso longitudinale, al fine di lasciar scorrere le navi; finché nel 2001, tramite lo stesso progetto responsabile di tanti nuovi simboli della città di Londra, ovvero la Millennium Commission finanziata con i soldi della Lotteria Nazionale, non venne deciso di donare alla città un qualcosa di radicalmente innovativo e mai visto prima. Furono quindi chiamati, tra gli altri, i rinomati architetti dello studio WilkinsonEyre, che con la collaborazione della ditta ingegneristica Gifford, seppero fare una proposta in grado di stravincere sopra la concorrenza: niente di cui stupirsi. Si trattava, dopo tutto, di un’interpretazione completamente nuova del concetto stesso di ponte. Destinato ad essere inserito nei libri di architettura come primo esempio esistente della classe, tutt’ora piuttosto rara, dei cosiddetti tilt bridge: i ponti che si inclinano, per lasciar passare i natanti. Ma non sarebbe stato tanto facile, questo è certo, superare la semplice bellezza estetica di una simile creazione…

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L’inumana precisione del cannone meridiana

Scorrono le nubi, si agitano i rami. Squittiscono tra i passeri le ali di cicala. Siamo all’interno del giardino formale alla francese, un prodotto dell’ingegneria e dell’arte, dove tutto avviene per una specifica ragione. Tra siepi esatte come una scacchiera, statue, monumenti e un piedistallo di granito. Sopra cui sfolgora, colpito dalla luce che proviene perpendicolare, un qualcosa di metallico, stranamente in attesa. Quando una sorta di segnale senza volto, assolutamente limpido nel mezzo di cotanta precisione, non avvia il processo chiaramente definito e un COLPO dall’estrema e roboante POTENZA non riecheggia tra il silenzio delle circostanze. Uno sbuffo di fumo di dirada dall’oggetto minaccioso, portando via con se ogni margine residuo d’incertezza. Provate pure a ricercare chi ha sparato, con il piccolo cannone. Qui nei pressi, non c’è un’anima smarrita. Son già tutti avviati verso il tavolo del mezzogiorno, consapevoli dell’ora di pranzo.
Il più grande dono, e dispetto al tempo stesso, che l’uomo ha fatto a se stesso è stato lo scorrere delle 24 ore. Uno strumento logico per la scansione delle giornate, in se stesse entità soggette al solipsismo e per questo diseguali. È forse la stessa cosa, svegliarsi una mattina e andare a scuola, o a lavorare, piuttosto che doversi preoccupare solamente, la domenica, di praticare a fondo l’arte del riposo? Mi sembra ovvio che nel primo caso, lo spazio che intercorre tra l’alba e il tramonto dovrebbe durare appena un attimo. Mentre nel secondo, una generazione intera! Eppure, poiché c’è sempre questo Eppure, la scienza matematica si è fatta sua premura di mostrarci come, se vogliamo aver sempre lo stesso numero di giorni in una settimana, settimane in una decade, secoli all’interno di un millennio (e lo vogliamo, chissà poi perché) la nostra unica speranza è far di conto col trascorrere dei singoli momenti, una sequenza inenarrabile e del tutto priva di un appiglio. Come potevano mai fare i nostri antenati, dunque, per non scivolare immersi nei granelli di una simile clessidra continuamente rigirata, privi di cristalli liquidi o le oscillazioni atomiche sul meridiano zero… È presto detto. Fino al XV secolo, almeno, c’era un solo metodo affidabile per misurare la distanza dagli alti muri messicani posti al termine e all’inizio delle ore diurne: un palo nel terreno, oppure orizzontale a gettito da una parete, che potesse gettare la sua ombra sopra un qualche tipo di riferimento. Il che, in effetti, aveva una sua chiara utilità. Presentando nel contempo un’ampia serie di problemi. In primo luogo, le impercettibili variazioni della rotazione e dell’asse terrestre, discontinue come qualsivoglia processo naturale, generavano un’imprecisione di circa 15 minuti, come esemplificato dalla cosiddetta equazione del tempo (Edt=tempo solare medio – tempo solare vero). Inoltre, l’avrete certamente notato, un dì d’inverno non ha la stessa durata che in primavera o piena estate. E questo, inevitabilmente, rendeva alquanto problematico impiegare uno schema di calcolo invariabile annualmente, benché esistessero diverse soluzioni, come quadranti multipli o gnomoni (le asticelle) che potevano essere spostati tra i diversi buchi. Ma sempre e comunque, questo qui è il nesso principale, dalla mano imperfetta dell’uomo.
C’era, tuttavia, ci tengo a farvelo notare, un singolo concetto uguale in ogni giorno di un singolo anno, e quello a venire verso all’indomani, fin dall’epoca della civiltà Egizia, quando i primi scribi presero a impiegare la bottiglia con la sabbia dentro, con il probabile scopo di farsi pagare a ore. Quel momento straordinariamente significativo, in cui l’ora del sorgere della luce (per inferenza, del risveglio) e quella della sua scomparsa (ovvero l’ora di andare a dormire) sono esattamente equidistanti. Il fondamentale mezzogiorno, tanto spesso scandito, nei porti e presso le caserme, dallo sparo a salve di un’utile arma, che sincronizzasse in qualche modo il trascorrere delle giornate soggettive. E che a partire dall’invenzione dei primi, inesatti orologi, avrebbe permesso di creare la concordia tra le moltitudini del ticchettante caos. C’era quindi quel momento, nella vita assai noiosa di un qualcuno, in cui l’ora esatta della meridiana raggiungeva il punto culmine, giungendo all’attimo di prendere la polvere, lo scovolino, caricare il tutto e accendere la miccia. Ma sapete che vi dico? L’errore è umanamente imprescindibile. Noi non siamo degli automi. A chiunque dovesse pensare che quell’uomo, giorno dopo giorno, possa compiere la sua missione con la cadenza semi-esatta concessagli dallo strumento già piuttosto inadeguato… Direi, beh: non avete mai provato la perfetta alternativa. Lasciate che vi parli del cannone/meridiana…

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