L’anguilla col becco d’anatra che ha più vertebre di una balena

Orribile è l’aspetto della tipica creatura che riemerge, quando i pescatori con la rete a strascico sbagliando le misure, prendono di mira quegli abissi inesplorati che precorrono in maniera biodinamica, nell’ideale progressione dell’oceano, gli affollati e più desiderati branchi dei visitatori della superficie. Sotto il pelo e dietro il muro, metaforico, d’oscurità che interferisce con la percezione sensoriali delle cose, almeno fino a quando tali esseri non compaiono sul ponte della nave, innanzi all’occhio spalancato, e inorridito, degli esseri umani. Ma sono a presentarvi pure il caso, statisticamente alquanto raro, che quei pesci si presentino con un profilo differente: strano, certo, ma capace di suscitare quell’innato senso di curiosità che è per certi versi l’antidoto, e portale contrapposto, alle visioni dell’inferno in Terra che appartengono alle rane pescatrici con la faccia gonfia e zannuta. Puoi toccarla, accarezzarla, giungere persino a parlargli (e lei sembrerà rispondere, con le fauci lievemente aperte che completano il profilo ultramondnano) Nemichthys larseni, o scolopaceus, queste le varianti più spesso incontrate, dell’anguilla che in gergo marinaresco prende il nome di “becco” “d’anatra” o per gli anglofoni di “snipe” il genere d’uccello che in Italia siamo soliti identificare con la scolopacide, anche detta beccaccia comune. Placido e armonioso essere, particolarmente quando danza per attrarre il verme con il battere dei grossi piedi tridattili, le cui somiglianze con tale versione sottomarina finiscono piuttosto presto, quando si prende nota dell’estendersi di tale creatura fino a 150-160 cm, con una larghezza comparabile in diversi punti a quella di una matita. Dimostrandosi l’essenza, in altri termini, dell’essere più lungo in proporzione alla larghezza di qualsiasi altro animale terrestre, frutto delle situazioni ambientali piuttosto estreme della zona batipelagica che è solito chiamare casa propria, tra i 300 e 600 metri di profondità. Con fino a 750 ossicini e quasi altrettante spine dorsali (record assoluto nel regno animale) ad ulteriore chiarimento di quel record anatomico assolutamente privo di concorrenti. Per un pesce che, spostandosi in modo passivo grazie alle correnti oceaniche, lascia soltanto la sua lunga bocca semi-aperta contando sulle centinaia di minuscoli denti, sottili come capelli, per far impigliare in quantità sufficiente gli invisibili microrganismi di quel grande brodo vivente che è l’oceano, di cui entusiasticamente si nutre. Senza dover fare troppo affidamento predatorio sui suoi occhi sovradimensionati, comunque ragionevolmente inutili alle oscure profondità ove mette in pratica la sua particolare scuola di sopravvivenza. Finché l’incidente involontario di un pescatore, teso a guadagnarsi un ragionevole profitto, non finisce per portarla in superficie dove in breve tempo, inevitabilmente, muore.
É l’effetto del massiccio differenziale di pressione, questo, che impedisce all’ideale sirenetta dell’oceano di fare ritorno ai palazzi della propria gioventù, una volta che ha sperimentato sia pur attraverso un velo d’acqua lo sguardo indagatore della scienza. Così abbandona la scintilla che riusciva a farne ciò che era; nella riconferma del processo, tristemente oceanico, che tutt’ora c’impedisce di conoscere realmente a fondo le abitudini di simili misteriose creature…

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L’apparente idillio del pastore mongolo che pesca da un lago ghiacciato

Elegante perché semplice, semplice perché naturale, naturale e proprio per questo, bellissimo. C’è molto da commentare benché i dettagli si nascondano nelle vaste steppe asiatiche, nella scena diventata istantaneamente popolare su Twitter dell’uomo in abito tradizionale, sereno e sicuro di se, che poggiando saldamente gli stivali sulla superficie relativamente spessa di uno specchio d’acqua senza nome, colpisce con la zappa la biancastra superficie, realizzando un foro dalla forma grossomodo circolare entro cui getta delle esche in quantità evidente, attirando pesci dalle tenebre sommerse. Per poi infiggervi, alla percezione inusitata di un remoto movimento, il fulmine letale della forca per il fieno, mentre due amichevoli caprette testimoniano ammirate il sapiente gesto. Poco prima che, con un sorriso grande come il mare che potrebbe non aver mai visto, il cavaliere dell’oceano d’erba estragga l’argentato premio di cotale inconfondibile frangente: tre grosse carpe asiatiche, disposte attentamente in fila parallela, quindi caricate sulla spalla destra, facendo un uso non meno creativo del bucolico strumento di cattura ed ittica uccisione. Segue uno stacco di regia, a seguito del quale ritroviamo l’abitante a prelevare legna e sterpaglia dalla sua catasta, per poi immergere il pescato in salamoia, direttamente condita con i colpi di machete su una roccia non dissimile dalla rinomata lampada di sale tibetano. Conclude la sequenza, lui che cuoce i tre pasti completi, infissi in lunghi stecchi sopra il fuoco precedentemente preparato.
Cosa abbiamo visto, esattamente? Chi è costui? Dove siamo? Abbiamo veramente assistito ad una “Tecnica di pesca vecchia di 10.000 anni!” come enfaticamente titolato sui diversi social e presso gli arcani recessi della blogosfera, o si trattava piuttosto di un semplice individuo dalle plurime risorse, intento a fare ciò che gli riesce meglio: sopravvivere facendo affidamento sulle proprie sole forze, nella sostanziale solitudine di una regione grande due volte la Germania, ma con densità di popolazione persino inferiore all’entroterra australiano… Il primo strumento che abbiamo a disposizione per interpretare il video, comparso per la prima volta sul profilo del russo di origini kazake Gabit Rahimberlin, alias Starshina73, è il fatto che si tratti, per l’appunto, di una testimonianza registrata in digitale. Da un telefonino chiaramente messo in verticale, niente meno, dotato di una risoluzione sufficientemente elevata per garantire una qualità delle immagini perfettamente al passo coi tempi. L’assenza di turisti o terzi d’altro tipo, o in alternativa l’attenzione registica con cui essi vengono tenuti fuori dall’inquadratura, lascia quindi trasparire una certa esperienza nell’uso del mezzo tecnologico, da parte di qualcuno che non è poi così distante dalla civiltà moderna, quanto in apparenza saremmo forse portati a credere, come molti dei commentatori all’affascinante ed ormai celebre contingenza. Il che ci porta al secondo strumento interpretativo, ovvero l’abbigliamento del nostro eroe, chiaramente derivante da una discendenza culturale ragionevolmente precisa, non tanto per la veste lunga e legata in vita, il tipico deel diffuso nell’intero areale culturale mongolo, quanto per l’iconico e riconoscibile copricapo…

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A proposito del pesce che ha colpito il mondo col suo sorriso

Potete crederci che mentre guardavamo dall’altra parte, distratti da economia, politica e complicazioni della condizione umana, sia capitato un’altra volta? Il sottile velo che divide la nostra realtà di superficie dalle misteriose tenebre abissali è stato sollevato, per una mera contingenza del destino, mostrando al mondo una realtà difficile da conciliare con le pregresse conoscenze della collettività. “Le sue labbra sono più calde delle mie” scrive nella didascalia semiseria RaffNasir, utente di Twitter e Instagram dalla Malesia, in abbinamento alla sua foto della bizzarra creatura che definire stupefacente sarebbe, sotto la stragrande maggioranza dei punti di vista, assolutamente riduttivo. Visto da davanti, il pesce si presenta come un essere oblungo in senso longitudinale, grigiastro e privo di occhi visibili da davanti, compensati dalla grande bocca con labbra rosa semiaperta ed esattamente 12 denti perfetti, di un colore comparabile a quello dei tasti di un pianoforte. E quando dico perfetti, intendo appena usciti dalla pulizia effettuata in uno studio dentistico, tanto umani paiono per forma ed apparenza, così poco attesi per l’idrodinamico soggetto delle circostanze. Il che ha del resto comprensibilmente suscitato il collettivo grido al “Photoshop”, moderno sinonimo dell’incredulità di San Tommaso benché non sia facile toccar con mano tutto quello che riemerge, per una ragione oppure l’altra, dall’increspato mare del Web. Eppure c’è del vero ed anche un po’ di fantasia come spesso avviene, nell’alone di leggenda nato quasi subito attorno a queste foto social, che in maniera piuttosto evidente riproducono la specie ittica nei fatti reale del Rhinecanthus verrucosus, esponente indo-pacifico del genere Balistidae, normalmente noto con i termini di moderni di pesce balestra o triggerfish. In riferimento al suo “grilletto” di una corta spina sulla testa, che una volta sollevata per autodifesa causa il dispiegamento di una caratteristica cresta triangolare, presente in tutte e 40 le diverse varietà presenti in molti mari e zone tropicali della Terra. Nonché un’implicita allusione, o se riferimento metaforico, al noto comportamento bellicoso e quasi marziale dei nostri mordaci amici, talvolta paragonabile a quello di un pitbull che ringhia per difendere l’abitazione dei suoi padroni. E che come quest’ultimo, non si fa certo troppe remore nell’aggredire con mordace lena, tutti coloro sufficientemente lenti nel reagire ai primi segni di pericolo prodotti a suo beneficio. Il che risulta indubbiamente problematico poiché mentre noi esseri terrigeni possediamo l’istinto ed il timore nei confronti di mammiferi e carnivori del nostro stesso ambiente, al di là della tetra fama di particolari famiglie ittiche come lo squalo, non associamo certo nulla d’automatico all’aspetto buffo, divertente e spesso variopinto di una simile creatura, che può in determinati casi raggiungere il metro abbondante di lunghezza. Ed ha la dote innata di distruggere qualsiasi cosa capiti, per sua sfortuna, in mezzo all’articolazione della sua mandibola possente…

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L’inaccessibile lago corrosivo nell’Africa dei fenicotteri rosa

Lo spirito della sopravvivenza ecologica è la risultanza di una serie di parametri ambientali, posti in relazione con le caratteristiche biologiche degli animali, da cui derivano percentuali di sopravvivenza rilevanti per determinare l’andamento dell’evoluzione. Immaginate ora di essere in possesso, come specie, di una serie di caratteristiche capaci d’influenzare l’inerente correlazione di tali parametri, determinando possibilità d’accesso a luoghi totalmente inaccessibili alla maggior parte dei più pericolosi nemici o concorrenti. Luoghi come un antico e vasto bacino idrico, all’ombra di un vulcano, tanto alcalino e salato per il contenuto delle precipitazioni in essere da risultare corrosivo per la pelle, gli occhi ed ogni altra parte anatomica di ogni possibile visitatore. Fatta eccezione per gli uccelli che al di sotto di quei flutti pescano, col becco nero e ricurvo, generose quantità di alghe cianobatteriche dal vermiglio pigmento. Così come rossa è l’acqua del lago Natron in Tasmania, che ne è colmo fino ai limiti, e rosa i suo principali abitanti, tutti rigorosamente occasionali, che qui giungono regolarmente durante la stagione secca per deporre il singolo grande uovo bianco, sopra le isole sicure degli agglomerati d’evaporite salina. Quale miglior modo di assicurarne la schiusa d’altra parte, nelle possibilità a disposizione del tipico fenicottero minore (Phoeniconaias m.) che un fossato invalicabile per iene, licaoni ed altri carnivori di terra, ove coltivare, in vasti assembramenti, la realizzazione della propria discendenza futura. E non è un incidente del destino se alla stima più probabile, è stato determinato come circa il 75% dei nuovi nati di questa specie non particolarmente comune, allo stato attuale, possano far risalire i propri natali a questo particolare paesaggio alieno, unico persino nel variegato e vastissimo paesaggio africano.
Una possibilità massimizzata come dicevamo, piuttosto che inficiata, dalla limitata biodiversità di questo ambiente, dove l’assenza quasi totale di pesci fatta eccezione per tre appartenenti al genere Tilapia ha favorito la proliferazione nutritiva dei batteri estremofili, tra cui il prevalente Arthrospira platensis noto all’industria dei cosmetici col nome non del tutto corretto di alga spirulina, trattandosi di un procariota del tutto privo di struttura fogliaria. Per cui l’alta quantità della sostanza corrosiva che da il nome al lago, quel natron composto in parti equivalenti di carbonato e bicarbonato di sodio, costituisce una fonte d’energia potenziale tutt’altro che indifferente, capace di permetterne la proliferazione a oltranza, ulteriormente favorita dalla posizione geograficamente remota di questo luogo, distante (per ora) da ogni possibile fonte d’inquinamento o alterazione dei delicati equilibri chimici da parte della mano umana. Mentre con il progressivo aumento delle temperature e conseguente ridursi del livello delle acque, soprattutto durante i mesi estivi, la sopravvivenza dei fenicotteri viene garantita in questo luogo più che in altri, data l’emersione di un maggior numero di siti adatti a nidificare e una concentrazione superiore del brodo vivente che costituisce la parte maggiore della propria dieta. Un idillio il cui futuro, nelle decadi a venire, appare ormai tutt’altro che sicuro, ahimé…

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