La forma ampia e digradante come il cappello di un Dio addormentato. La sommità piatta, candida e coperta da nubi nebbiose; la più alta montagna dell’Africa, grazie al maggiore dei tre picchi che misura 5895 metri, costituisce uno dei punti più particolari dal punto di vista ecologico del suo intero continente. Suddivisa su diversi “strati” corrispondenti a biosfere chiaramente distinti, ciascuno dei quali può essere paragonato a scalini successivi di un sentiero che conduce al Paradiso. Tra i 1.800 e i 2.700 metri, la foresta pluviale “a galleria” con specie ad alto fusto affiancate da variopinte fioriture d’orchidee ed Impatiens, frequentata occasionalmente da specie animali della savana, anche piuttosto imponenti come i leoni. Sopra i 4.000, per lo più muschi e licheni, seguiti a 1.000 metri distanza dal più totale ed assoluto deserto alpino. Ma c’è una zona interstiziale, tra i 2.700 e i 4.000 dove le condizioni risultano da una tempesta perfetta tale da creare la ragionevole approssimazione di ciò che potremmo definire, volendo, un differente pianeta vegetale. É la zona della cosiddetta brughiera d’alta quota, un luogo in cui le temperature possono variare tra i 10 gradi diurni e scendere sensibilmente sotto lo zero dopo l’ora del tramonto, creando ciò che viene definito una sorta di ciclo stagionale a cadenza oraria: estate la mattina, inverno la sera. Per cui sarebbe lecito aspettarsi, coerentemente al tipo di vegetazione normalmente nota all’uomo, un’ambiente privo di arbusti degni di nota o altre entità vegetative degne di nota, il che in un primo momento di un’eventuale visita, potrebbe anche trovare l’apparente conferma visuale. Almeno finché, tra la densa foschia, non si scorgessero quegli alti coni verticali, vagamente simili a kebab svettanti per l’altezza di 10 metri, sormontati da una piccola corona di foglie verdastre. Pienamente degne di un’illustrazione per un libro di Isaac Asimov o Arthur C. Clarke, se non fosse per un piccolo dettaglio assolutamente degno di nota: la loro piena e assai tangibile esistenza.
Avete presente, a tal proposito, la comune erba da giardino del cosiddetto senecione? Un intero genere, collettivamente associato al cosiddetto vecchio-d’estate (S. vulgaris) per i fiori dai piccoli petali bianchi, la cui forma si avvicina per il resto alle più celebri appartenenti della sua famiglia delle Asteracee: le beneamate margherite primaverili. Se non che stravolto da una simile convergenza di fattori, il pacato fiorellino sembrerebbe aver subito la più insolita e inimmaginabile tra le mutazioni, assumendo una forma e proporzioni tali da riuscire a incutere un certo ed innegabile grado di soggezione. Ponendoci di fronte, con reazione alquanto impressionata, alla specie unica al mondo nota per l’appunto come Dendrosenecio kilimanjari, o senecio gigante tipico di questo monte, in cui il prefisso greco alla prima delle due parole allude per l’appunto ad un aspetto degno di essere notato: la presenza, contorta e nodosa, di un tronco. Non che tale parte vegetale, fatta eccezione nei casi più svettanti per la parte bassa, risulti eccessivamente visibile da lontano. Perché ricoperta da una fitta coltre di foglie morte di colore marrone scuro, usate dalla paianta come fossero una sorta di cappotto, al fine di proteggersi dal gelo. Una caratteristica che ritroviamo, in un notevole caso di convergenza evolutiva, nel grande numero di specie simili che si affollano, ciascuna in modo totalmente indipendente, sugli alti picchi montani disseminati attorno al grande specchio d’acqua del lago Kilimangiaro. E non tutte appartenenti, per inciso, alla stessa e già piuttosto variegata famiglia dei dendroseneci….
strano
La fiabesca torre della birra, edificio più surreale della Baviera
La cittadina tedesca di Arlensberg, situata a circa 30 Km da Regensburg, ha molte attrattive storiche e culturali: lo splendente monastero carmelita di Klosterkirche, con l’altare riccamente dipinto e ricoperto d’ornamenti dorati; il centro cittadino simile al modello perfetto di un centro abitato nello stile tradizionale mitteleuropeo, con casette dipinte di tenui color pastello e punteggiate d’ordinate finestrelle quadrate; l’imponente Magazzino del Duca (Herzogskasten) titano premoderno candido e perfettamente logico, quanto i calcoli del grande filosofo Gottfried Wilhelm von Leibniz; la torre sconclusionata alta 35 metri, situata esteriormente alla convergenza delle Mille e una Notte, Gaudì ed un Luna Park americano, costituita da tre segmenti l’uno più imprevedibile dell’altro: un primo “stadio” fatto di mattoni, sormontato da effettivi alberi viventi, una parete cilindrica azzurra con la scala a chiocciola punteggiata da aperture panoramiche e sezioni esterne vagamente simili a boccali di cristallo bavarese e infine, l’empirea sala di una letterale cipolla d’oro, che si avvicina con la sua imponenza alla versione trasformata di un minareto mediorientale. Voglio dire, difficilmente il committente Leonhard Salleck, uno dei due padroni e direttori della rinomata azienda produttrice di birra Kuchlbauer che si trova oggi all’ombra dell’improbabile edificio, avrebbe potuto aspettarsi un risultato granché diverso, nel momento in cui convinse a disegnare l’opera l’artista austriaco ed architetto noto al mondo come “Reame Pacifico delle Cento Acque” ovvero Hundertwasser, una delle personalità più eclettiche, imprevedibili e ammirate del Novecento. Colui che, del suo rifiuto del razionalismo modernista era giunto a fare una bandiera e una dichiarazione programmatica, all’ingresso nel campo della progettazione di spazi abitativi a partire dall’inizio degli anni ’50, quando era già un celebre pittore surrealista, psicologico ed ecologista (o nella sua personale terminologia, transautomatista) all’età di soli 22 anni. “La linea retta era un tempo l’agognato simbolo della Casata Reale” scriveva Friedrich, al secolo Stowasser, nel suo Manifesto della Muffa del 1958 “Mentre oggi, qualsiasi idiota ne possiede centinaia anche soltanto negli oggetti che occupano le sue tasche, come un umile rasoio per fare la barba.”
Che ovviamente lui portava lunga e selvaggia, come ribelle era il rapporto con il mondo accademico e critici d’arte, che spesso lo criticavano per l’evidente intento di rottura con i canoni espressivi ed estetici dei suoi insigni predecessori. Puro genio ed altrettanto assoluta sregolatezza, furono così le linee guida operative, di un autore che credeva fortemente nel principio di autodeterminazione e libertà espressiva in ogni circostanza, contro le nozioni imposte dell’alto di quello che doveva essere Giusto e Responsabile nei crismi progettuali di un edificio. E bisogna ammettere che in questa sua creazione portata a termine soltanto 9 anni dopo il suo decesso sopravvenuto nell’anno 2000, l’architetto che ne ha ereditato il mandato Peter Pelikan si è dimostrato capace di dar piena soddisfazione ai crismi operativi del maestro, realizzando per quanto possibile la sua inimmaginabile visione originaria. Nonostante gli adattamenti e le limitazioni imposte dall’ente per i Beni Culturali bavarese, che ha chiesto ed ottenuto una significativa riduzione delle dimensioni per un tale punto di riferimento, originariamente concepito per raggiungere gli ancor più notevoli 70 metri. Eppure nonostante questo, altrettanto magnifico e del tutto degno di essere visitato…
La ferrovia che taglia un lago rosso e verde come una bandiera
Quel ramo del lago avìto, che volge al vespro, rosa e maleodorante, tra le propaggini di deserto raramente attraversato dai veicoli della moderna civilizzazione; e il ponte che ivi congiunge le distanti rive, dividendo in lembi contrapposti ciò che un giorno era stato unito. Salato, più del mare stesso. Ma non perciò privo di vita, piuttosto che ristoro per gli uccelli che qui sostano, nutrendosi dello strato quasi solido costituito dalle mosche del sale, le ronzanti efidre. Mentre nelle sue profondità, si aggirano miliardi di piccoli gamberi, nati da generazioni successive di uova dormienti. Eppure ciò che maggiormente riesce a caratterizzare nella percezione popolare il bioma del Grande Lago Salato, maggiore dello Utah e ventunesimo nei vasti Stati Uniti, non è questa sua popolazione interconnessa bensì l’effetto che il sostrato basico di essa riesce a indurre nel fondamentale cromatismo della situazione, suddiviso in due metà distinte: intenso e sanguigno da una parte, scolorito e verdeggiante in quella contrapposta, all’altro lato della diga involontaria, ma non per questo meno necessaria alle macchinazioni di coloro che qui vivono, attraverso le generazioni, sin dall’epoca della prima colonia stabilita dai mormoni. Che poi crebbe, in modo esponenziale, fino all’ottenimento dello status di città costiera e capitale dello stato con il nome di Salt Lake City. E si arricchì di un utile viale d’accesso, con la costruzione tra il 1902 e il 1904 di un lungo viadotto ferroviario, la linea di Lucin, costituito da esattamente 19 Km a partire dalla riva di Promontory Point. Un ponte in legno che poggiava sul fondale non troppo profondo, destinato ad essere mantenuto e sostituito per un periodo di quasi 50 anni, quando in considerazione del suo utilizzo piuttosto intenso, con fino a sette treni giornalieri per il trasporto di merci e persone, la compagnia Southern Pacific non decise di affiancargli un diverso tipo di passerella. Ovvero un terrapieno, costruito con gabbioni, detriti e ingombranti pietre, che andasse da una riva all’altra del Grande Lago, suddividendolo essenzialmente in due entità distinte fatta eccezione per un paio di piccole condotte equidistanti dalle contrapposte rive. Dopo tutto, quale poteva essere il problema? Per uno specchio d’acqua per lo più endoreico, privo di fattori d’affluenza fatta eccezione per la pioggia stessa, e già soggetto a significative fluttuazioni della sua estensione attraverso il ciclo prevedibile delle stagioni. Che continuò a procedere, senza immediati cambiamenti apprezzabili dall’uomo.
Finché un giorno, qualcuno non si volse verso levante per notare qualcosa d’insolito e altrettanto inaspettato: “Sto sognando, gente, o le acque hanno cambiato colore?” O per lo meno la metà settentrionale oltre quella muraglia percorribile, dove l’assenza dei fiumiciattoli e torrenti della metà sud, utili a disperdere l’innata salinità di un tale specchio, aveva causato la progressiva modificazione delle condizioni chimiche vigenti. Fino all’eutrofizzazione ad opera dell’alga estremofila rimasta senza concorrenti, quella Dunaliella salina che tanti altri laghi salati, in giro per il mondo, è responsabile di aver tinto di rosa. Ma la scena qui presente, essenzialmente, era del tutto priva di corrispondenze altrove. Perché nel frattempo, all’altra parte dello stretto terrapieno le acque erano rimaste comparativamente incolori, benché tendenti al verde causa la copiosa presenza di Dunaliella viridis e colleghe. Il lago, in altri termini, si era trasformato nel vessillo di un’alta bandiera ed a nessuno sembrava importare particolarmente, apprezzandone anzi gli ottimi presupposti turistici sugli abitanti degli stati vicini. Almeno finché verso il principio degli anni ’80, lo squilibrio tra i livelli delle due metà non causò una serie d’inondazioni durante un periodo di piogge particolarmente intense, con conseguente danneggiamento delle attività industriali e agricole nate nel frattempo all’altro lato della città di oltre 200.000 abitanti. Essendo stati colpiti dove fa più male (il flusso ristorativo dei denari) venne deciso in tutta fretta, a quel punto, d’intervenire!
Chi ha clonato l’esercito di gamberi che ha invaso questo cimitero in Belgio?
Stanotte, che notte! L’interfaccia brulicante tra i due mondi si è fatta sottile, fino al punto di permettere ai visitatori dell’intercapedine di farsi coraggiosi e crescere di numero, ancora e ancora. Una notte che precipita la situazione, in modo progressivo e inarrestabile, verso l’unanime sostituzione dei Viventi. Poiché pace in Terra, ovvero sotto-terra, può essere concessa a chi ha per lungo tempo combattuto contro l’entropia dei giorni, col fucile e con l’elmetto dato in concessione dalla sua esigente patria, ispiratrice di un conflitto che non può essere dimenticato. Ma a proposito di queste ossa, che dire…
Non che il cimitero storico di Schoonselhof della città di Anversa, ultimo luogo di residenza per 1.557 soldati del Commonwealth periti nel corso del secondo conflitto mondiale, risulti essere in modo apprezzabile del tutto abbandonato e/o silenzioso. Per lo meno da quando, come riportato all’inizio della scorsa settimana sulle pagine del Bruxelles Times, un diverso tipo di visitatore è stato rilevato occupare i suoi prati, le sue pozzanghere, i fontanili ed i ruscelli temporanei risultanti dalle piogge di questi strani giorni. Corazzato e attento ad ogni minimo dettaglio, come reso chiaro dalle lunghe antenne, e molto rapido sopra le dieci zampe, proprio come ci si aspetterebbe dal perfetto gambero dei pantani o Procambarus fallax, 15 centimetri di crostaceo dalle origini americane, invasivo ed adattabile a ogni tipo di situazione climatica. Una volta che gli esperti si sono interessati alla questione, tuttavia, la terribile verità è immediatamente apparsa chiara sotto gli occhi di tutti: poiché graziosamente marmorizzata nei colori bianco e nero, con riflessi azzurri, era la livrea dei piccoli animali. Al punto da far sospettare, verso la più rapida conferma, del trattarsi nella realtà dei fatti di una versione assai più problematica di quella stessa creatura: il P. fallax f. virginalis, più comunemente detto in lingua teutonica marmorkrebs. Idioma preferito scelto proprio per la sua esclusiva provenienza, dall’epoca della scoperta e classificazione verso la metà degli anni ’90, dalla terra di Germania ed in particolare gli specchi d’acqua di città e dintorni, dove qualcuno aveva avuto la disattenzione di liberarsene facendo spazio dentro dentro l’acqua del suo acquario casalingo. Una storia classica, se vogliamo, di creature che una volta riprodotte in numero eccessivo nonostante l’assenza di un partner, devono essere smaltite ma nessuno sembra averne il “cuore”. Passo semplice e spontaneo, verso il primo cursus dell’Apocalisse incipiente: poiché forse non tutti sapevano, oppure gli importava più di tanto di considerare, la maniera in cui l’animale in questione fosse in grado di riprodursi. Non tramite lo sperma conservato dai suoi precedenti incontri, come avviene in molte specie simili, bensì vendo appreso, essenzialmente, il metodo per fecondare con successo le sue stesse uova.
Ora esistono diversi approcci biologici per effettuare la partenogenesi, non tutti altrettanto capaci di produrre un perfetto clone del singolo, autonomo genitore. Quello messo a frutto dal marmorkrebs, tuttavia, rientra a pieno titolo in questa ideale categoria, sfruttando l’artificio della partenogenesi apomittica, per cui la cellula-uovo non sviluppa mai la divisione maturativa (meiosi) con conseguente mantenimento del numero di cromosomi fino ai successivi passaggio fino all’età adulta.
Il che dota queste creature tutte di sesso femminile e non più lunghe di 10-15 centimetri di un genoma sensibilmente più lungo e complesso rispetto a quello degli umani; nonché triploide, una condizione affine a quella del banano commerciale, che viene fatto riprodurre tramite l’applicazione del sistema della talea. Ora valutate, per un attimo soltanto, le implicazioni di una simile realtà; ovvero la maniera in cui tutto ciò possa essere inerentemente ricondotto ad una singola, irrimediabile anomalia.