Ipertempo: il potere degli elicotteri sulla realtà

Rotor Panorama

Di questi tempi in cui tornano di moda macchine del tempo ed astronavi stellari dei ruggenti anni della cellulosa, è facile tornare coi ricordi a quella scena magica e fondamentale, l’attimo in cui i protagonisti, saldamente assicurati sul sedile, decidono che si è palesata la necessità di fare quella “cosa”. Si spinge la leva, si preme il bottone. In un lampo di luce, l’energia repressa che trova l’attimo di sfogo attentamente definito, la liberazione di una forza incredibile ed impressionate. Ma non puoi rappresentare coerentemente, se non attraverso ciò che ne risulta, il concetto vago ed aleatorio del teletrasporto. Non senza una conoscenza approfondita del funzionamento di questo processo che effettivamente, non esiste. Così, su pellicola, si disegnano una serie di linee convergenti, verso un punto di fuga che costituisce l’obiettivo. Ed a questo, fino ad oggi, si era dato un solo nome: l’iper(sopra)spazio. Quello che non sapevamo tuttavia, perché oggettivamente non era possibile immaginarlo, è che un semplice elicottero radiocomandato, come questo dell’hobbista Marcel Guwang, potesse generare i presupposti di una simile apoteosi visuale. Dimostrando davvero, finalmente, quanto fossimo distanti dalla verità. Perché per spostare la propria esistenza da un luogo all’altro del sensibile, a quanto pare, il metodo più rapido non è percorrere una linea retta. Ma piuttosto un’onda sinusoidale spiraleggiante… Immaginate una corda di chitarra, colpita con il plettro nel punto centrale della sua estensione, poi sfiorata con il pollice di quella stessa mano. Ciò che normalmente avrebbe oscillato da una parte all’altra, producendo una nota limpida e perfetta, a questo punto è stato suddiviso in due segmenti, diventando l’equivalente di altrettante corde poste in serie. La tonalità è la stessa, eppure le frequenze sono differenti e parallele; un effetto che viene chiamato, niente affatto casualmente, dell’iper(sopra)tono. Ordunque, qual’è il suono “reale”? Quale, invece, la sua riflessione armonica, corrispondente a un multiplo della fondamentale? Distinguere tra le due voci è in effetti altrettanto facile per un orecchio esperto, quanto inutile ai fini di acquisire una profonda comprensione musicale. Come avviene per la particella subatomica media, la cui posizione è per definizione inesatta e inconoscibile, la vibrazione di un corpo acustico è uno stato continuativo, che presuppone un inizio e una fine della sua corsa, ma non tanto definiti nello spazio. Bensì, nel tempo.
Il fatto è largamente noto, persino accettato dai più: siamo pulviscolo sperduto in mezzo ai venti dell’Esistenza, puntini insignificanti tra innumerevoli universi paralleli. Ciascun minimo evento della nostra giornata, col suo verificarsi passibile di alternative, genera innumerevoli continuum, talvolta inimmaginabili, altri del tutto simili alle situazioni che viviamo quotidianamente. Tranne che per qualche piccolo, inquietante dettaglio. E tutte le realtà sono imprescindibilmente collegate, ma non sempre si influenzano a vicenda. Si potrebbe anzi dire che ai fini di una presa di coscienza della nostra reale condizione umana, di universi dobbiamo considerarne solamente due: ciò che palesemente siamo, quello che si trova dritto innanzi a noi. Ovvero il suo opposto speculare, geometricamente ribaltato, come un’immagine allo specchio della nostra stessa vita. Ora, naturalmente, poter acquisire una simile visione non è semplice, né viene naturale neanche allo strumento illimitato della mente. Sull’apertura del terzo Occhio, nella storia del mondo, sono state spese innumerevoli parole: chi giurerebbe che il modo migliore e dormire, per sognare, passando la vita in posizione orizzontale. Altri assumono sostanze, più o meno psicotropiche, al fine di strappare con violenza quel pesante velo che nasconde la suprema verità. Mentre gli estremi ottimisti, dal canto loro, altro non fanno che vivere la propria vita, certi che la comprensione un giorno arriverà. Se pure, deve farlo. Ma l’approccio più diretto eppure bistrattato, per quanto naturalmente chiaro ai bambini e molte anime innocenti, è un altro: girare vorticosamente su se stessi. Piazzatevi a gambe incrociate nella posizione del mezzo loto, sopra una solida sedia da ufficio. Fate il vuoto intorno a voi, nella stanza. Quindi, con un braccio puntellato saldamente sul bracciolo, allungate l’altro fino alla parete, datevi una spinta. Cosa sta succedendo? Al primo, secondo, terzo giro, sapete ancora cosa siete? Dove andate? Da dove…

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Il suono di un computer che riordina le cose

Sound Sorting

Musica dai numeri, per una volta, invece che il contrario. E tutto quanto perché Timo Bingmann, studente PhD dell’Istituto di Informatica e Algoritmica di Karlsruhe, in terra di Germania, ha messo assieme una delle più inutili, ed al contempo suggestive, applicazioni dell’ambito open source: una demo musicata, fondata sull’incontro ben riuscito tra immagini elaborate al computer e suoni sintetici disposti sul raggio dei 120 Hz – 1,212 Hz, che non avrebbero di certo sfigurato in Space Invaders, Pac-Man, o la prima genesi di Mario Bros; ma le fondamenta del progetto, e c’era da aspettarselo visto il livello dell’autore, non si limitano al solo àmbito del puro svago. Ma trovano piuttosto l’origine da un bisogno assoluto e primordiale della matematica, il gesto encomiabile che ha il nome di divulgazione. Sfido chiunque, posto di fronte ad un simile sequenza di animazioni, soltanto una minima dimostrazione sequenziale di quello che può fare l’app The Sound of Sorting, a non porsi momentaneamente la questione del che cosa ha appena visto, quale sia l’origine di un tale susseguirsi di linee ubriache, suoni e spostamenti finalizzati alla risoluzione del problema. Ottimo! Perché per approfondire, tutto ciò che risulta in effetti necessario fare è visitare il sito dell’autore, dove codice sorgente e software precompilato sono liberamente disponibili a vantaggio dei curiosi. Per instaurare anche noi, grazie a un paio di lievi passaggi con il mouse, un rapporto più diretto con quello che può fare un moderno computer, e comprendere davvero quanto siamo fortunati a vivere nell’epoca dei processori da un milione di transistor, interconnessi grazie a fili spessi appena un decimo di micron (quando un capello ne misura 100 di spessore).
Tutto inizia, come sempre capitò, nel caos: un istrogramma di linee bianche, disposte alla rinfusa sopra un fondo scuro. Questa sequenza non ha un compito difficile alla comprensione, perché rappresenterebbe, nella prassi geometrica acclarata, una serie di numeri, progressivamente sempre più grandi ma disposti alla rinfusa. Un dataset. Che in termini informatici, altro non sarebbe che una serie di entità con una vaga relazione tra di loro, generalmente incasellati all’interno di una singola tabella di database. Pensate, ad esempio, ad un foglio Excel contenente l’anagrafica di un’intera azienda da 2.000 dipendenti, indicante per ciascuno nome, cognome e data di nascita. Ora, per ordinare un simile marasma secondo crismi differenti, come quello alfabetico oppure l’età, tutto quello che dobbiamo fare è premere metaforicamente un pulsante, o per meglio dire tirar giù un menù a tendina, poco prima di selezionar l’ipotesi corretta. Ma se soltanto…Prima di farlo appoggiassimo un orecchio, molte volte più piccolo, preciso e percettivo del nostro di semplici umani, sulla superficie di silicio della prima làmina di un chip, forse ci renderemmo conto del folle movimento che richiede un tale calcolo automatico, del turbine di elettroni posseduti, la micro-energia che trova sfogo con un’enfasi nei fatti impossibile, fino a un paio di generazioni fà. Forse, per intraveder l’immagine di una figura: Monna Lisa Cyberpunk, come fu tradotto l’Overdrive di William Gibson, terzo romanzo di una serie, pubblicato sul finire degli anni ’80, quando finalmente, il pensiero digitale terminava un processo di fuoriuscita dall’àmbito specialistico dei matematici teorici, per passare a quello delle forme ad incastro e degli idraulici fungini, alla ricerca di una strada di mattoni gialli per il prossimo futuro. Era come se la donna leonardesca, raffigurata sullo sfondo di un selvaggio bosco di addizioni, d’un tratto aprisse gli occhi, pronunciando questa frase: “Io sono lo Zero. E tu, sai contare fino a Uno?” Bene, perché al resto penso io.

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Pesa di più Goldrake o un buco nero?

Mecha size

In un giorno della calda primavera del 1972 e senza che ci fosse una ragione attesa, il giovane in età scolare Kohei Kuji sentì suonare il campanello della porta all’improvviso. Messo da parte il volumetto del suo manga in corso di lettura, forma d’intrattenimento preferita dagli adolescenti della sua generazione, balza in piedi e corre verso l’uscio, lo spalanca per trovare: nulla, nessuno, niente d’importante. Tranne un pacco messo da una parte, ricoperto di una carta marroncina e privo di alcun tipo di etichetta che identifichi il mittente. Ora, in tempi come i nostri, in cui Internet ci ha insegnato a fidarci ben poco delle situazioni inaspettate, ma soprattutto a costruire trappole a molla, veicoli virali, ogni sorta di crudele scherzo contro i nostri simili più amati-odiati, forse un attimo di esitazione ci sarebbe pure stato. Ma quella era un’epoca caratterizzata da un benessere ed un ottimismo diffuso, soprattutto in un Giappone all’apice della sua bolla, della crescita economica e della fiducia nel tuo prossimo, persino quando sconosciuto. Così il bimbetto si reca fino alla cucina, appoggia il pacco sopra il tavolo da pranzo, prende un coltello per il pesce di suo padre. Delicatamente, con estrema cautela, inizia a incidere l’incarto, finché non sente all’improvviso: “Ow!” Per l’effetto dello shock, lascia cadere il suo strumento. Dannazione! Come avrebbe potuto mai saperlo? Nel pacco non c’erano dei semplici pupazzi, ma Arthur, Edison, Izam, Odin e Walt, cinque piccoli alieni provenienti dal pianeta Micro Earth, inviati fin dall’altro capo dell’universo con il preciso scopo di osteggiare il nascituro potere del principe di Acroyer, malefico conquistatore di ogni civiltà.  Per i protagonisti umani di un franchise moderno giapponese, sia questo fondato sul mondo tecnologico e tradizionale, cinematico oppure disegnato, c’è ben poco da fare tranne arrendersi a seguire il flusso. Fare da momento comico, se necessario, e offrire il proprio punto di vista soggettivo e interno al racconto come tramite per il coinvolgimento degli spettatori. Quando iniziano a sfolgorare i laser, si rincorrono le astronavi, le spade cozzano con orribile e squillante persistenza, non saranno mai loro a combattere direttamente, ma il Pokémon, lo spirito del samurai venuto dal passato, lo shikigami spirituale consacrato al sacro compito da un vecchio e saggio stregone. Tranne che in un caso: il genere mecha, sarebbe a dire quel vasto catalogo di ‘Cunti, nato a partire da Tetsujin 28 di Mitsuteru Yokoyama (1956) in cui il protettore sovrannaturale della Terra era, per la prima volta, un essere non biologico e (quasi del tutto) privo di una volontà. Così di nuovo c’era quel bambino ante-litteram, questa volta armato di telecomando e in grado di fornire gli input al suo beniamino alto due metri, creato a partire da un’analogia con Astroboy di Osamu Tezuka (1952) sostanzialmente il piccolo pinocchio giapponese. Ma si può ancora parlare di androidi, quando simili creature spesso antropomorfe esistono soltanto per servire il bene collettivo, eseguendo pedissequamente i desideri di uno stereotipico, quanto innocente, eroe della giustizia? Il fallimento dell’analogia appare ancor più pregno successivamente, quando la bussola o coscienza robotica (il ragazzo) iniziò a prendere posizione direttamente nella testa o dentro al petto del suo servitore, trasformandolo così nell’analogia pseudo-sovrannaturale di un possente aereo o carro armato, per quanto in grado di resistere e persistere senza alcun tipo di supporto.
Quel passaggio, tanto significativo, fu intuito inizialmente da un’altra grande personalità del mondo della creatività giapponese, quel Go Nagai che è stato l’ideatore di Mazinga Z (1972) Jeeg Robot d’acciaio (1975) e il Goldrake titolare (in origine UFO Robot Grendizer – 1975). Ma una volta gettato il seme sul terreno fertile dell’altrui fantasia, il passo era segnato: nel giro di pochi anni, i media giapponesi iniziarono a sperimentare l’invasione di ogni sorta di straordinaria macchina da guerra, ciascuna testardamente incline a combattere i pericoli provenienti da lontano. Giammai, in una tale fase storica, ancora in grado di ricordare le fallite aspirazioni imperialiste del paese, il pubblico avrebbe apprezzato situazioni realistiche con delle credibili fazioni contrapposte. Così, mentre negli Stati Uniti spopolavano le scriteriate avventure Lanterna Verde, Flash e Capitan America, all’altro lato dell’Oceano si consumava la passione per un differente tipo di supereroi, alti decine di metri e sempre rigorosamente fatti di metallo, quasi sempre del tutto privi di una mente propria. Ma se c’era un singolo fattore in comune, tra questi due mondi rigorosamente contrapposti, questo era certamente il modo d’interpretare il rapporto di potenza tra i diversi personaggi: attraverso le sperimentazioni ipotetiche dei fan. E non c’è molto da meravigliarsi nel trovare ancora simili tematiche, trattate con profonda serietà, all’interno d’innumerevoli gruppi di discussione internettiane, come in commenti satirici dell’universo nerd e geek, vedi la serie comica The Big Bang Theory. Ma il Giappone, che persino oggi tende a prendersi un po’ più sul serio, di norma non ricorre alla pura e semplice ironia, né al soggettivismo delle ipotesi preferenziali.
Ciascun mecha è “il più forte” perché ciascuno sconfigge il male, come e quando necessario, sarebbe a dire nel contesto operativo che gli è stato posto attorno dal creatore. Ben più meritevole di essere discussa, risulterebbe invece una scala come questa, sul quale sia il vero rapporto tra le dimensioni, posto in una scala crescente, dai giocattoli senzienti di cui sopra fino ai chilometri delle astronavi trasformabili, o i più folli e spropositati mostri chtulhuiani. Per fortuna che l’utente Metroidfan l’ha ripescata, dalle pieghe geroglifiche del portale NicoNico e ce l’ha riproposta tradotta, con tanto di colonna sonora tratta dall’intramontabile Gurren Lagann. L’analogia offerta dai metodi realizzativi del video in questione figura tra le più fantastiche e inquietanti.

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Sculture animate grazie alla progressione matematica di Fibonacci

Zoetrope Sculpture

C’è un solo modo di contare, il che significa che esistono due modi: convenzionale, interessante. Se si parte dal primo numero della sequenza, il solo ed unico, se si procede via da quello e avanti verso l’infinito in assoluta regolarità, si ottiene un cubo, quindi un poliedro, poi cristalli sempre più complessi e sfaccettati. Sarebbe questo il sentiero inanimato, delle cose minerali o dei computer, che dal calcolo poligonale sanno trarre ambienti, mondi fantastici e ogni tipo di realizzazione visuale, anche vivida, se serve. Basta dare luogo a occulte mescolanze, combinare, ricoprire con le texture e il bump mapping rilevante. Mentre il soffio della vita è differente: essa non conosce l’illusione. Il che non significa che sia incapace di nascondersi: guarda il ragno, la farfalla, guarda il paguro nella sua conchiglia. Tutto fanno, per sparire, eppur quel tutto è strutturato e armonico, come il disegno dell’artista nella sua bottega. Come queste, le ultime sculture di John Edmark, professore di Design all’università di Stanford, che prendono l’ispirazione da quel nuovo metodo produttivo, il sistema che, fra tutti, permette la migliore materializzazione dei poligoni virtuali. La stampante tridimensionale. Si tratta sostanzialmente di forme plastiche, animate grazie ad una luce stroboscopica e il semplice meccanismo dello zootropio, dal greco ζωή – vita, e τρόπος – girare, anche se in tale categoria spiccano tra gli altri, perché seguono una strada differente. Le lucubrazioni, guarda caso, di un filosofo del mondo.
Leonardo Pisano, detto il Fibonacci (1170-1240) era un cultore dei numeri quali pochi ne nascevano, a quei tempi e forse ancora adesso, che risulta ancora stranamente trascurato nella riscoperta letteraria di quell’epoca, assai popolare nei nostri romanzi storici fondati sul mistero. Fu lui per primo, nel suo Liber abbaci a proporre all’intera Europa rinascimentale un differente modo di contare, basato sulle nove cifre che lui definiva indiane, ovvero i nostri attuali numeri arabi, unite a quel concetto che contiene tutti gli altri, il vuoto assoluto dello zephirus, lo zero. Da cui tutto viene ed a cui torna, prima o poi? Ecco, non è facile da definire. Tutto dipende dalla concezione di partenza, l’unica possibile disquisizione: ovvero, se ci fosse quella mano immisurabile, una mente e l’intenzione. Che l’universo sia creato, oppure solamente derivato da un qualcosa di automatico ed ineluttabile, come la caduta giù da un’albero, di un pomo rosso e saporito (diceva bene Newton, yum). Osservazione empirica: ciò che avviene è chiaro all’apparenza. Ma i limitati sensi dell’uomo, fin dall’Epoca Classica, ne rendevano impossibile la vera comprensione. Tale metodo di ricerca basato sul sostegno tecnologico, formalizzatosi in Inghilterra nel 1600, grazie all’opera di alcune grandi menti, era già alla base di un metodo pre-esistente, se non proprio scientifico, quanto meno valido a capire. Ciò è chiaro dalla sequenza in questione, detta dal nome del suo creatore per l’appunto, di Fibonacci. La costituzione di un’ipotesi perfetta: si disponga di una coppia di conigli appena nati. Questa coppia, fertile dopo il primo mese, generi una nuova coppia entro 30 giorni dalla sopraggiunta possibilità. La nuova coppia di candidi batuffoli, a sua volta, si comporti nello stesso modo. Passino gli anni ed ora via, tempo di contare (le coppie): una e poi di nuovo una, perché l’altra non è ancora fertile, quindi 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 233, 377 […] tendente all’infinito ed oltre. Dal che si trae la conclusione, oltre che del come i roditori siano destinati a controllare il mondo, di una tendenza all’aumento progressivo delle nascite, a partire dalla relativa ragionevolezza delle prime moltiplicazioni. L’aspetto interessante di questa serie è il rapporto ben preciso che la caratterizza, ovvero un ripetuto phi=1,618. Che si può ritrovare nella crescita di molte cose. È particolarmente facile notare tale numero nelle misure di un carciofo e del broccolo romanesco, come pure in ogni sorta di spirale naturale, come quelle delle conchiglie, in piccolo, o dei cicloni tropicali, nel macroscopico più distruttivo. Ma che sussiste talvolta addirittura nei rapporti tra le sostanze chimiche, negli spettrogrammi degli spazi interstellari e perché no, nelle sculture rotative di John Edmark.

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