Il pesce ribelle che ha volutamente dimenticato i confini del mare

Un piccolo passo per un pesce, un balzo da giganti per la collettività pinnuta. Nella mia classe presso l’istituto della Scogliera, sono sempre stato considerato un ribelle, perché non credevo nell’evoluzione. Mentre tutti continuavano ad insistere, dicendo che i nostri antenati si erano diretti verso riva, mettendo zampe al posto delle pinne ed imparando a respirare l’aria, io continuavo a mantenere molti dubbi, frutto della semplice evidenza della situazione. “Piedi, polmoni?” Ripetevo spalancando la mia bocca ornata da una serie d’affilate zanne da carnivoro: “E a chi mai dovrebbero servire? Inoltre, non ha senso continuare a dire che una strada sia migliore o in qualsivoglia modo superiore all’altra.” Io potevo scegliere, io potevo fare quello che volevo se soltanto avessi scelto di seguire i mei sogni fangosi. Ma nessuno aveva voglia di ascoltarmi, questo diventò ben presto palese! Neanche un pesce mi avrebbe creduto, finché non avessi fatto l’impensabile, contrapposto i gesti all’implacabile evidenza dello status quo. Così un giorno in apparenza come gli altri, decisi di recarmi presso il punto divisorio tra i due mondi. E con un assoluto sprezzo delle convenzioni, smisi totalmente di nuotare. Iniziando soavemente a fare quello che alcun personaggio degli abissi, per lo meno nella nostra storia registrata, aveva mai avuto il coraggio di tentare: emersi e continuai ad emergere, spingendomi diversi metri verso le propaggini del bagnasciuga.
Impossibile? Improbabile? Questo avrebbero potuto dire, forse, i benpensanti di un piccolo stagno d’acqua dolce. Diversamente dai vecchi lupi di mare, che attraverso le loro lunghe e complicate peregrinazioni, ebbero il modo di conoscere e apprezzare in precedenza il vero significato della parola Oxudercidae alias più semplicemente mudskippers (let. “saltafango”). Il nome di un’intera famiglia di specie dalla vasta diffusione, 32 classificate all’attivo, che attraverso i secoli pregressi impararono i vantaggi nascosti per chi dovesse scegliere di non stare più al suo posto. Creando nuove nicchie ecologiche, piuttosto di limitarsi ad occupare quelle pre-esistenti. Ed è perciò una vista nota agli abitanti del Giappone come dimostrato anche in questo documentario della BBC, soprattutto nelle due località delle piane tidali di Ariake e Yatsushiro presso l’isola meridionale del Kyushu, quella di una grande quantità di forme ittiche non più lunghe di 15-19 centimetri chiaramente riconducibili al gruppo degli attinopterigi noto come gobies e dotato di pinne sostenute da un insieme di raggi acuminati disposti in maniera analoga alle stecche di un ventaglio. Sebbene l’aderenza morfologica ai propri più prossimi parenti si esaurisca nei fattori esterni, viste le profonde differenze a livello di capacità, comportamento e funzionamento biologico dell’organismo. A partire delle loro capacità respiratorie, che li rendono capaci di utilizzare una speciale membrana nella pelle del dorso e della gola, in grado di assorbire l’aria comune e veicolarla in camere interne per la metabolizzazione, in maniera non dissimile da quanto avviene con i polmoni umani. Sebbene una minore efficienza, tale da richiedere per l’utilizzatore l’uso contemporaneo delle proprie branchie, capaci di mantenersi rigide e non collassare anche in assenza d’acqua, permettendogli in tal modo di prolungare il proprio soggiorno in superficie grazie all’acqua che è solito portarsi dietro all’interno delle guance, nella maniera di un criceto che abbia fatto incetta di semi di girasole. Una sorta di superpotere, a conti fatti, capace di aprire tutto un mondo precedentemente insospettato di brillanti possibilità…

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Gli affollati abissi delle anguille dal moto ondulatorio indefesso

Nel settore galattico Beta-Coriolis Gamma-201, la reattività dei protocolli d’emergenza indicava chi poteva sopravvivere e chi invece, avrebbe dovuto soccombere all’attacco dei pirati spaziali. Ancora una volta gli abitanti dei vasti recessi ricoperti di sabbia stellare, rivolsero i propri apparati di rilevamento verso le correnti galattiche e solari, nella costante ricerca del riconoscibile profilo di un possibile aggressore. Finché qualcuno, verso i margini della colonia, operò vistosamente per ritrarre il proprio corpo longilineo all’interno dell’abitazione sotterranea. “Allarme, allarme, squalo in avvicinamento” serpeggiò l’avviso implicito determinato dal ritmo e i movimenti della collettività in pericolo incostante… Ed uno dopo l’altro, gli abitanti in quel fatidico momento fecero quello per cui tanto a lungo si erano preparati. Immersione! Così che a partire da un campo florido di quelle rapide e flessuose forme di vita, restò in apparenza una distesa priva di alcun movimento, ciascun individuo al sicuro nella sua personale ed invisibile camera di muco. Il pirata nel suo affusolato vascello, dopo qualche attimo, spalancò leggermente le gigantesche fauci dai molti denti simili a coltelli. Ma non poté far altro che proseguire oltre il suo pattugliamento, conservando solamente un vago senso di perplessità immanente. “Dannate, dove siete?” Rivolse gli occhi piccoli alla distante superficie dell’oceano senza posa. “Anguille pronte a tutto per aver salva la vita, persino rinunciare alla capacità di… Nuotare.”
Come un campo d’alghe, come un’aiuola, come un frutteto e come una fioriera: ogni tipo di metafora è calzante, purché provenga in via diretta dal mondo delle piante, sia subacqueo che in superficie. Poiché di sicuro, la maggior distinzione tra coloro che biologicamente ci assomigliano e i più verdi ornamenti dei nostri giardini, è la capacità di muoversi da un punto all’altro ogni qualvolta l’occasione si presenta assieme alla necessità di farlo. Mentre il comportamento di un’anguilla appartenente alla famiglia delle Congridae, come queste Gorgasia hawaiiensis dell’eponimo arcipelago, assomiglia piuttosto a quello di una Mimosa pudica o sensitiva, la pianta che protegge le sue foglie richiudendole per l’avvenuta sollecitazione di un possibile divoratore. Ed è concettualmente molto simile questa particolare strategia sommersa, che vede il pesce senza scaglie non più lungo di 60 cm e con un diametro di circa 10-16 mm raggiungere un preciso punto dei legittimi fondali d’appartenenza. In cui provvedere a seppellir se stesso senza alcun particolare grado di preparazione psicologica o possibile sentiero alternativo; nell’abitazione che costituirà l’unico rifugio possibile per l’intera parte rimanente della sua vita.
Il che non impedisce, d’altra parte, all’anguilla di provvedere efficientemente a nutrirsi, primariamente di cobepodi e altre forme di vita planktoniche trasportate dalle correnti marine, ma nel caso specifico dell’anguilla hawaiana soprattutto di minuscole uova di pesce, catturate in orario diurno, quando si può fare affidamento sulla capacità di osservazione per percepire in tempo ogni possibile aggressore. Il che conduce essenzialmente a questa scena chiamata “il giardino”, con le molte dozzine di creature poste l’una a ridosso dell’altra che oscillano insistentemente da una parte all’altra, assecondando per quanto possibile i naturali influssi delle masse d’acqua sottoposte a continuo rimescolamento. Casistica in merito alla quale, nel 2018 è stato redatto uno studio (Khrizman et al.) capace di evidenziare la posizione assunta nel corso di tale prassi ininterrotta dalla prima osservazione mai fatta di questi animali: rigida e verticale, nel caso di situazione sottomarine calme. O con la flessuosa posizione di un punto interrogativo, nel caso in cui si rendesse necessario resistere a spinte trasversali fino a 40 volte più intense…

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Le australi migrazioni dell’uccello dal becco più grande al mondo

Nell’estate tra il 1974 e il 1975 colpita dalla perturbazione metereologica della Niña, durante un periodo di piogge stranamente intense presso il territorio dell’Australia meridionale, il grande bacino endoreico del lago Eyre, chiamato dagli aborigeni Kati Thanda, si ritrovò nuovamente collegato alla serie di fiumi situati nella sua parte nord-occidentale, incluso il turbinante corso del Warburton. In breve tempo, i suoi confini normalmente aridi vennero nuovamente ricoperti dalle acque, mentre l’altezza di queste ultime cresceva, e cresceva ancora fino ad oltre 10.000 Km quadrati. Questo repentino mutamento delle regole ambientali portò quindi, assieme al vento dei monsoni capaci di attraversare buona parte del Pacifico, un’ingombrante, chiassosa ed affamata presenza: quella di molte migliaia di uccelli. Chi fosse stato indotto ad aspettarsi, in quel contesto, creature piumate affini a storni migratori, anatre o altri visitatori d’occasione dei nostri bacini idrici stagionalmente rinnovati, si sarebbe scontrato con l’effettiva imponenza di questi agili volatori dalle proporzioni di 152-188 cm, di cui circa un terzo occupati dal più eccezionale rostro labiale attualmente osservabile nell’intero regno naturale frutto di millenni d’evoluzione. Una creatura, in altri termini, di chiara e comprovata eleganza con il suo piumaggio candido e le ali nere come la notte, gli occhi grandi, tondi e cerchiati di giallo, al punto che il suo soprannome più diffuso resta quello di pellicano con gli occhiali. Sebbene in ambito scientifico, sia da sempre definito Pelecanus conspicillatus, per apprezzabile scelta del suo primo classificatore e naturalista Coenraad Jacob Temminck, che nel 1824 volle evidenziare il suo aspetto “attento” e la presunta inclinazione ad osservare. Laddove nell’universo mitologico del popolo aborigeno dei Wangkamura, il pennuto visitatore viene direttamente associato al Dio Goolay-Yali, che nei tempi immemori insegnò ai bambini della tribù a procacciarsi il cibo mediante l’invenzione della rete da pesca costruita mediante la corteccia dell’albero noonga (gen. Brachychiton), facendo inoltre dono del fuoco e degli opali all’intera umanità. E non è poi tanto improbabile immaginare un qualche tipo d’associazione, e conseguente ispirazione, tra tale primario strumento della civiltà umana e le tecniche di foraggiamento utilizzate dalle attuali versioni tangibili del nostro amico, la cui vistosa sacca golare, comune agli altri appartenenti della famiglia Pelecanidae serve non tanto a immagazzinare il cibo bensì essere immersa, con estremo pregiudizio e senso d’aspettativa, in luoghi sufficientemente umidi e pescosi, ben sapendo di riuscire a trarne l’auspicata ricompensa in termini di cibo. Una procedura che notoriamente presuppone, per gli esponenti della specie, un’estrema propensione allo spostamento periodico, lungo le coste e presso le regioni dell’entroterra dell’outback, ogni qualvolta la popolazione complessiva di un particolare recesso aumenta eccessivamente, portando all’insufficienza di risorse sfruttabili per il sostentamento dei nuovi nati. Portando perciò all’inaspettata e imprevedibile partenza di veri e propri eserciti dalla limpida uniforme, pronti a sollevarsi e planare anche per periodi di 24 ore di seguito, fino all’arrivo preso un nuovo luogo in grado di ospitare la loro grande e costante fame. Con comprensibile preoccupazione dei pescatori umani locali, che storicamente erano soliti fare il possibile per scacciare o dissuadere i pellicani, almeno fino all’entrata in vigore verso la metà degli anni ’90 dell’attuale regolamento di salvaguardia e protezione naturale. Per non parlare della tardiva ma importante realizzazione, di come le precise preferenze gastronomiche del pellicano lo portino in realtà a nutrirsi primariamente delle specie di pesci introdotte accidentalmente come la carpa europea (Cyprinus carpio) i pesci rossi ferali (Carassius auratus) e il pesce persico o bass (Perca fluviatilis) facendo in realtà un favore alle più preziose specie locali, che tendenzialmente vedono la propria popolazione stabilizzarsi, o persino aumentare, in seguito alla caotica venuta dei pellicani. Il cui intento certamente non risulta essere malevolo, né benevolo, bensì la mera conseguenza di quella necessità di perpetrar se stessi e i propri discendenti, attraverso le complesse tribolazioni di un clima in continuo cambiamento…

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L’espediente sociolinguistico delle cercopiteche nasobianco per difendersi dai leopardi

Uno sguardo carico di un qualche tipo di saggezza insospettata, espresso da occhi rossastri incorniciati tra vistose sopracciglia nere alla base e gialle in punta, orecchie ursine e un naso bianco e candido come la neve. Quali segreti si nascondono nel tuo vissuto? Quale insegnamento possiamo trarre, dalle particolari esperienze della tua irsuta esistenza?
Molti sono i metodi attraverso cui, nell’ampia varietà di specie che abita la Terra, riesce a esprimersi l’intelligenza. Intuito, costruzione di strumenti, dinamiche d’interazione all’interno del singolo clan scimmiesco, calcolo del quadrato che costituisce l’ipotenusa del triangolo scaleno. Le più notevoli manifestazioni di potere cognitivo, tuttavia, sono quelle che risolvono un problema, riuscendo a trovare la strada per farlo a partire da circostanze storicamente avverse, tramite l’accumulo di metodi creati dalla collettività in gramaglie. Il che può includere, nel caso degli umani, convenzioni sociali create tramite anni o qualche decade. Per gli animali dalla mente più monotematica, secoli o millenni. E nel caso delle scimmie che si trovano in mezzo ai due contrapposti estremi, una quantità di tempo variabile, che può trovare la realizzazione in base a scale cronologiche particolarmente diverse. Come nel caso del sistema utilizzato dal cercopiteco nasobianco dell’Africa Centro-Occidentale (C. nictitans) usato per difendere il suo spazio nell’ambiente in bilico tra giungla e savana, figlio della sua particolare interpretazione in merito allo scopo, e le modalità dell’interazione maschi-femmine con suoni, gesti e iniziative per difendere il territorio.
Trattasi di scimmia arboricola, del peso medio approssimativo di 4,2-6,6 Kg, con un aspetto particolarmente distintivo e non particolarmente studiata, almeno fino all’articolo pubblicato alla fine del mese scorso da studiosi e naturalisti della Wildlife Conservation Society presso il parco naturale Nouabalé-Ndoki, nella Repubblica del Congo, sulla rivista Open Science. Un’interpretazione dell’intera faccenda nata a partire dall’esperienza fatta di travestirsi con finte pelli di leopardo, avvicinandosi di soppiatto ad alcuni gruppi di primati composti come di consueto da 15-20 esemplari e registrando per la prima volta i loro scambi allarmati, finalizzati ad attivare i meccanismi di autodifesa in possesso del branco. Già da tempo sapevamo, in effetti, della complessa serie di vocalizzazioni ragionevolmente simili a un’idioma fatto di grida, trilli e cinguettii, di cui facevano uso queste creature al fine di concordare a distanza un metodo adeguato per risolvere problemi di una simile natura. Linguaggio che prevede suoni come “hack-hack” quando la minaccia avvistata sottintende la presenza di un’aquila coronata (Stephanoaetus coronatus) piuttosto che un predatore di terra, identificato con un caratteristico “pyow!” oppure “kek” a seconda della distanza. Per non parlare della deriva modulata del significato, che può risultare dalle diverse estensioni, combinazioni e modulazioni di tali suoni, capace di esprimere concetti complessi quali “affrettatevi a fuggire” piuttosto che “restate immobili, nessun rumore”. Ciò che mai era stato tuttavia documentato, per mancanza di un approccio sperimentale realmente adeguato, era la maniera in cui tali vocalizzazioni potessero variare anche in modo sensibile tra i singoli esemplari, ed in modo particolare tra quelli di sesso maschile e femminile.
Stiamo parlando, in altri termini, di un complesso sistema di attribuzione dei ruoli, figlio di quel potere che in molte specie possiede la metà di Venere rispetto all’infuocato cielo Marziano: decidere chi è degno di costruirsi una futura eredità biologica, senza ricatti ne alcun tipo di forzatura. Ma escludendo in forza della pura necessità selvatica coloro che, di contro, dovranno aspettare fino alla prossima occasione per riuscire a costruirsi una discendenza…

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