Non è possibile raggiungere uno stato di preminenza culturale, in un paese e un’epoca, senza prima essere riusciti a sviluppare un assoluto rapporto di predominio con il puro mondo della forma. E per quanto riguarda l’imponente Ed “Big Daddy” Roth, fabbricante di fantasiose automobili (e molto più di quelle) nei ruggenti anni ’60 e ’70, all’apice della cosiddetta Kustom Kulture californiana, potremmo affermare che con le sue opere gli sia riuscito non soltanto di approcciarsi all’assoluta essenza di una simile questione, ma averla addirittura capovolta, implosa e risaldata tramite la lente di un’osservazione informata. Dei modelli, le correnti e quella regola assoluta del cool in quanto tale, intesa come la capacità di impressionare chiunque fosse in grado di mantenere la mente sufficientemente aperta; senza il peso, ultimo e gravoso, di una logica apparente nei suoi gesti e tutto quello che ne consegue. Prendete ad esempio la sua Rothar del 1965, risalente al suo periodo motociclistico in cui frequentò per circa una decade le cerchie della vasta organizzazione degli Hell’s Angels. Surreale triciclo costruito a partire da una Triumph da 650 cc, con un abitacolo a bolla direttamente prelevato da un episodio del cartoon dei Jetsons (i Pronipoti) mentre la forma della carrozzeria in colori patriottici pare precorrere l’hovercraft magnetizzato Blue Falcon, uno dei protagonisti del videogame di corse degli anni ’90, F-Zero. Nient’altro che il frutto di un approccio estremamente personale al processo creativo delle hot rods, vetture fortemente personalizzate particolarmente rappresentativa di circa della metà del secolo scorso, quando la creazione di un’estetica “aggressiva” o in qualche modo memorabile era considerato molto più importante che massimizzare prestazioni o funzionalità. Fino al caso estremo delle rat rods, veri e propri mezzi derelitti che sembravano direttamente fuoriusciti da uno sfasciacarrozze, tanto erano malridotti, arrugginiti e fuori dagli schemi di un mondo che potesse dirsi, a tutti gli effetti, civilizzato. E per quanto un tale approccio possa dirsi assai lontano dallo stile allegro e stravagante delle auto più famose di questo autore, resta chiaro come le sue origini risultino legate strettamente a quel mondo ed una simile visione estetica, particolarmente grazie al suo personaggio più famoso, Rat Fink: una malefica caricatura di Mickey Mouse, verde, occhi rossi, con grandi orecchie pelose, denti sporgenti e la lingua che fuoriesce talvolta dalla bocca famelica, soprattutto mentre si trova alla guida di automobili sproporzionatamente piccole e spesso mostruosamente malridotte. Nato come illustrazione per una serie di popolarissime magliette, vendute e pubblicizzate a partire dal 1958 nel contesto della rivista per appassionati d’auto Car Craft, il minaccioso roditore si trovò in tal modo all’origine di un’intero nuovo genere d’illustrazioni, destinate a diventare un punto fermo per oltre due decadi di controcultura motoristica. Particolarmente quando i suoi veicoli immaginifici, assieme a quelli di un cast di assurdi comprimari tra cui Drag Nut, Mother’s Worry e Mr. Gasser, iniziarono incredibilmente a prendere una forma perfettamente tangibile grazie al secondo hobby del loro creatore…
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Il cubo in maglia metallica creato per proteggere un capolavoro dell’architettura scozzese
Personaggio d’importanza mondiale all’inizio del 1900, per la sua capacità d’anticipare e dare forma a molti aspetti estetici del Modernismo, il grande architetto di Glasgow, Charles Rennie Mackintosh fu un geniale maestro nella definizione degli spazi e l’integrazione di correnti provenienti dall’antichità con considerazioni dell’ergonomia e utilitarismo che iniziava a prendere una forma verso la fine della sua Era. Interessato alle nuove soluzioni e l’evoluzione tecnologica delle metodologie di costruzione, tuttavia, commise almeno un significativo errore a un punto di svolta nella sua carriera. Come chiaramente esemplificato dalla maniera in cui, già nel primo anno dopo il suo completamento nel 1904, la servitù della casa sulla collina di Helensburgh, nell’area costiera di Argyll and Bute, avevano iniziato a collocare secchi in punti strategici nel sottotetto, dovendo fare i conti con significative infiltrazioni d’acqua. Questo a causa dell’utilizzo al posto della calce tradizionale in quel clima, come copertura impermeabilizzante delle pareti domestiche, l’innovativo e “avveniristico” cemento di Portland, tutt’altro che perfettamente resistente alle intemperie senza l’utilizzo di trattamenti e vernici che sarebbero state create verso la metà del secolo successivo. Il che, attraverso gli anni, avrebbe portato l’edificio a fessurarsi ed impregnarsi fino al punto di esser prossimo ad un solo secolo di distanza, in una similitudine particolarmente calzante, a dissolversi “come un’aspirina effervescente in un bicchier d’acqua”. Soluzione possibile numero uno: coprirlo per 10 anni con un’impalcatura protettiva nei confronti della pioggia, prima di procedere a ricoprirne completamente l’esterno con soluzioni di natura più efficace. Soluzione numero due…
Lo strano edificio metallico sorge dal 2019 inquadrato nella verde campagna delle Isole, con la forma chiaramente riconoscibile di una serra o altro caseggiato di contenimento. Ed in effetti si era pensato, inizialmente, di crearlo completamente in vetro, al fine di favorire la visibilità continuativa della casa prossima al danneggiamento irrecuperabile, finché nel progetto non venne coinvolto lo studio di architettura londinese Carmody Groarke, a sua volta pronto a coinvolgere la compagnia tedesca specializzata proMesh GmbH, produttrice di un particolare tipo di materiali. Quello molto spesso associato, sorprendentemente, alle panoplie da combattimento di epoca medievale, costituito da una lunga serie di anelli strettamente interconnessi e intrecciati saldamente tra loro. Una vera e propria cotta di maglia, in altri termini, o per essere maggiormente precisi il più grande pannello ininterrotto di tale lavorazione mai posto in essere nel corso dell’intera storia dell’uomo, per un totale di 2.700 metri quadri. Soluzione non propriamente economica, visto il costo complessivo di 4,5 milioni di sterline pagati principalmente dal National Trust di Scozia, benché risolutivo sotto diversi punti di vista, poiché capace di fermare fino al 90% di pioggia mentre continua a permettere il passaggio dell’aria e degli insetti impollinatori delle piante situate all’interno. Risultando inoltre molto più resistente di una rete in materiali plastici e molto più semplice da riparare senza che restino segni visibili dell’intervento. Ma soprattutto risultando dotata di una capacità inerente di affascinare ed attirare l’attenzione, che sarebbero senz’altro piaciute all’originale creatore della magione…
Il graffitaro che intagliò la vita nel cartone per imprimerla sul muro più famoso di New York
Era un posto come tanti altri, prima che verso l’inizio degli anni ’80, un “certo artista” di nome Keith Haring passasse da quelle parti. Armato, come spesso capitava in quel periodo, di un intero arsenale di bombolette, respiratore d’ordinanza ed accessori utili a supporto del suo metodo espressivo maggiormente rappresentativo innanzi agli occhi del mondo dell’arte: la pittura d’assalto, la creatività in battaglia, il trasferimento delle proprie idee in corrispondenza dei recessi delle urbane circostanze inconsapevolmente pronte a riceverne un’importante lezione di vita: che ogni cosa può essere stupendamente ed ottimamente variopinta, quando si trasmette in essa un appropriato grado di competenza. In un tripudio di figure antropomorfe che fuoriuscivano dal nucleo sconosciuto della mente. Fast-forward un periodo di circa 40 anni, il muro all’incrocio tra Houston Street e la Bowery (strada che dà il nome all’intero quartiere) è ormai da tempo un’importante istituzione all’interno della Grande Mela, nel suo rappresentare una superficie non soltanto conservata come tavolozza per gli attuali praticanti della professione grafica fuori dalle mura di poco spaziose gallerie d’arte, ma una letterale mostra gratuita ed all’aperto, dove molte migliaia di persone ogni giorno possono venire ad ammirare il notevole risultato conseguito dall’autore di turno. Così che nel 2016, uno dei più recenti partecipanti a questo rituale dinnanzi agli occhi della collettività sarebbe stato il creativo originario della città di Baltimora Logan Hicks, che dopo aver praticato per qualche tempo il mestiere del tipografo a San Diego, ha scelto di traferirsi nel 2007 presso la città d’origine del suo mentore ed amico Eric Haze, dando inizio ad un nuovo capitolo della propria esistenza. Periodo durante il quale, lavorando alacremente alla trasformazione di un intero metodo espressivo, l’avrebbe trasformato in un qualcosa che giammai prima di quel momento, si sarebbe mai potuti giungere a rappresentare sopra l’umile muro di un edificio.
Con un risultato che tutt’ora sopravvive solo nella digitalizzazione di quest’esperienza, purtroppo effimera per sua stessa natura, consistendo di una straordinaria immagine di tipo chiaramente fotografico, un adattamento fantasioso della fotografia di gruppo scattata dall’artista pochi mesi prima, in cui figurava l’intera collettività degli uomini e le donne facenti parte delle proprie conoscenze ed amicizie maggiormente significative strette nella più famosa e popolosa delle città statunitensi. Con una precisione figurativa e ricchezza della composizione capaci di trascendere letteralmente i limiti di quanto possa tracciare un semplice umano, in uno spazio tanto ampio ed informale, proprio per l’insolito artificio usato per conseguire una simile opera d’arte: l’impiego di una serie di stencil sovrapposti fino a 15 volte, sugli strati trasferiti con il rispettivo colore di volta in volta. In una tecnica che pare richiamarsi ad altri tempi, ed epoche ormai lungamente trascorse…
Tre spade inusitate per sancire l’unione millenaria della Norvegia
Una quantità sproporzionata di conflitti assolutamente determinanti per il corso della storia umana furono del tipo in grado di coinvolgere una o più navi, una baia, un golfo, un fiordo marino. Quale miglior modo è possibile immaginare, del resto, per riunire assieme grandi quantità di uomini, potenzialmente armati fino ai denti, in spazi stretti ed agguerriti, sotto l’autorità di un singolo ammiraglio, che issare una bandiera personale sulla tolda di multipli vascelli… Poco prima di orientarne le prue all’indirizzo del nemico, come fossero altrettante punte di lancia pronte a spargerne il prezioso sangue tra l’onde. Sale, fuoco, ferro ed ambizione, furono i principi in grado di guidare tali condottieri e i loro equipaggi, contro moltitudini altrettanto convinte di essere nel giusto. Ma soltanto uno dei rispettivi schieramenti, in ciascun’ora del conflitto, avrebbe avuto l’occasione di lasciare il proprio nome a lettere cubitali nelle cronache indirizzate alla posterità. Figure tanto imponenti, persino colossali, da sfidare l’immaginazione.
Ma non l’arte: vedi l’imponente spada del primo re Harald Bellachioma riconoscibile per l’elsa con l’effige incoronata, piantata saldamente nelle rocce sulla riva dello Hafrsfjord per svettare verso il cielo assieme a quella dei suoi due ultimi e più tenaci nemici, importante baia della penisola di Stavanger, punto d’approdo alla partenza ed al ritorno per innumerevoli spedizioni da parte del temuto popolo dei Vichinghi. Siamo nell’anno del Signore 872, oppure 880, o addirittura 890, in base a quale saga nordica vogliamo usare come fonte ragionevolmente affidabile in materia, quando il suddetto sovrano, figlio del grande capo regionale Halfdan il Nero nonché uno dei possibili scopritori dell’Islanda, essendo giunto a controllare l’intera parte orientale del territorio oggi appartenente alla nazione norvegese, assieme alla parte dell’attuale Svezia chiamata Värmland, potrebbe essersi trovato ad affrontare una coalizione formata da coloro che ancora resistevano al suo potere, guidata dai due capi Eiríkr di Hordaland e Súlki di Rogaland, assieme ad altre figure di primo piano tra cui i fratelli Hróaldr e Haddr di Telemark e re Kjötvi di Agder. La ragione per cui utilizzo il condizionale in merito ad eventi di una simile importanza è che per quanto ci è dato comprendere dalla loro frequente divergenza d’opinioni, non tutti gli autori delle opere letterarie coéve mantenevano un’aderenza pressoché totale alla realtà dei fatti, preferendo favorire nelle proprie narrazioni i rispettivi potenziali mecenati, protettori o semplici possibili ricercatori di soddisfazione per la possibile offesa percepita nelle loro parole. Così la principale cronaca su cui tende a basarsi ogni resoconto possibile della battaglia in questione, la Egils Saga Skallagrímssonar, possibilmente scritta dall’importante figura di Snorri Sturluson (1178-1241) parla di figure spropositate e i loro significativi atti di eroismo, che si muovono accompagnate dalle gesta di una quantità stimabile di fino 250 navi. Corrispondenti, grossomodo, a 10.000 uomini complessivi, il che sarebbe ampiamente bastato a farne uno dei conflitti armati più monumentali della storia nazionale fino a quel momento, se non dell’intero periodo dell’Alto Medioevo, da cui sarebbe emerso un paese forte e indivisibile, capace di resistere per molti secoli a venire. Aggiungete a tutto questo la maniera in cui al concludersi delle ostilità, gli sconfitti sarebbero scappati via per terra e per mare, così da giungere a colonizzare tra gli altri luoghi la più famosa isola vulcanica dell’Atlantico, per comprendere come potremmo trovarci di fronte ad uno dei più importanti punti di svolta nella storia dei paesi del Nord.
Abbastanza da giustificare, e in qualche modo motivare, la costruzione di un così pregno e affascinante monumento. Quello che parrebbe derivare, in maniera tangibile sebbene surreale, dal gesto topico di uno o più giganti, finalmente soddisfatti dei traguardi raggiunti, al punto da potersi liberare del peso significativo delle armi. La famosa metafora della “spada nello scoglio” che non sembra conoscere confini culturali né limiti d’applicazione per l’imprescindibile chiarezza del messaggio contenuto in essa…