In Argentina, la visione galleggiante di una perfetta isola discoidale

Nel vorticante incedere dei giorni, la ruota delle illusioni prosegue la sua corsa senza nessun tipo di controllo. Un altro giro, un altro sogno e così via fino alla fine, mentre il grande pubblico, pazientemente, accetta ogni possibile ed alternativa deviazione. Così che può anche capitare, allora, è che osservando la “normale” progressione cronologica di una serie di foto satellitari, a un personaggio come il documentarista Sergio Neuspillerm capiti di scorgere qualcosa d’inusitato; come uno spicchio di luna nascente (o calante) sopra il delta preferito dal suo ultimo progetto creativo, ovvero il segno sopra il suolo di un colore blu cupo, inciso delicatamente nella vegetazione palustre presso la foce del Rio Paraná. Come grazie all’opera di una mano d’artista, il che sarebbe già abbastanza strano visto il diametro di 118 metri, laddove l’effettiva portata della situazione riesce ad essere in effetti ancor più eccezionale. Quando l’uomo, innanzi al suo PC, comincia a muovere il cursore lungo l’asse temporale. Per scoprire, in tale modo, l’effettiva e innaturale progressione degli eventi: poiché non siamo qui a parlare di un singolo disco, ovvero quello che compare in parte sotto l’occhio che lo scruta dallo spazio, bensì due, uno fatto d’acqua e l’altro di erba e terra, che vi ruota dentro come fosse il componente centrale di un astrolabio. Strano, vero? Strano ma vero. In quanto incontenibile pilastro di una nuova fissazione virale per l’intera comunità. E fu così che nel 2016, con telecamera, armi e bagagli, fece quello che già aveva precedentemente progettato: visitando e raccogliendo immagini, da ogni possibile ed immaginabile inquadratura, di una simile località visibilmente… Aliena. Dando inizio al mito, la leggenda, e un nuovo capitolo del popolare sport internazionale di produrre ipotesi, in tutte quelle aree in non si possiede il benché minimo grado di competenza. Chiamato ben presto dal suo scopritore digitale “El Ojo” (l’Occhio) il piccolo lago è stato quindi analizzato nella più ampia pletora immaginabile di articoli cospirazionisti, ufologici e di presunta disanima dei molti misteri della Terra, utilizzando la solita chiave interpretativa secondo cui costituiva un qualcosa di semplicemente TROPPO regolare per essere la mera risultanza di fattori accidentali. Il che può risultare filosoficamente profondo nelle proprie implicazioni, quanto essenzialmente non del tutto trasformativo, mentre disegna coerentemente possibili nascondigli per dischi volanti, o gli opercoli di grandi labirinti sotterranei. Poiché non è forse vero, che nell’universo osservabile vige il predominio di una somma regola delle passate, presenti e future circostanze? Per cui una chiocciola produce ripetutamente la spirale di Fibonacci, mentre il reticolo cristallino di una pietra mineralogica è persino più preciso della strade che attraversano New York. E questo senza neanche avventurarsi nell’imprescindibile perfezione geometrica di un alveare. Eppure resta ancora oggi il caso, come in quello delle proverbiali lacrime della pioggia, che porta allo scivolamento ed immediata liquefazione di ogni spunto d’analisi razionale. Portando all’effettiva profusione di una larga serie di pensieri divergenti, almeno in parte generati dal bisogno di massimizzare la visibilità del proprio nome.
E non è del tutto chiaro se lo stesso Neuspillerm sia rimasto colpito da una simile afflizione, sebbene a giudicare dalle sue azioni successive, dev’essere almeno in parte caduto nella trappola della celebrità internettiana. Se è vero che verso la fine di quell’anno, procurandosi le competenze comunicative dell’ingegnere idraulico argentino Ricardo Petroni ha ceduto alla comprensibile tentazione d’istituire una raccolta di fondi sul portale Kickstarter, al fine di organizzare una seconda spedizione con al seguito equipaggiamento scientifico e sommozzatori professionisti, al fine di dirimere finalmente i molti dubbi residui sull’intera questione. Operazione destinata purtroppo (o meno male?) a naufragare sugli appena 8.474 dollari statunitensi raccolti, sui 50.000 ritenuti necessari, vedendo irrimediabilmente scemare l’effettiva realizzabilità dell’idea. Per lo meno nello stile e con i grandi mezzi originariamente ipotizzati, se è vero che un simile personaggio poco incline ad arrendersi lo ritroviamo nuovamente presso El Ojo nell’anno 2017 con una troupe dell’emittente televisiva Science Channel, dove gira nuove ed approfondite immagini sull’argomento. Permettendo, paradossalmente, di giungere quasi a toccare con mano l’effettiva e non così inimmaginabile verità…

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Quando le mucche voleranno: non è un’iperbole, ma la fedele descrizione dello Hoatzin

Ogni essere dotato di quattro arti, una testa ed una coda, può essere oggettivamente inserito nell’insieme dei terapodi ed a seguito di questo, manifestare un potenziale persistente. Quello di tornare, per le vie traverse dell’evoluzione, allo stato primigenio di un quadrupede, inteso come la creatura che deambula mediane l’uso di ciascuno dei suoi arti, usati di concerto come ruote della stessa locomotiva. Tutto quello che gli serve, per riuscirci, è avere il giusto tipo di pressione evolutiva, per un tempo sufficientemente lungo tra le strade serpeggianti della Storia. Così siamo soliti affermare che gli uccelli “discendono” dai dinosauri, poiché mantengono talune caratteristiche che corrispondono all’antica stirpe dei giganti ormai scomparsi. Il che si applica nel 99% dei casi, ovvero 9.999.999 su un milione, escluso quello di un particolare uccello sudamericano. Che potremmo definire, per l’unione di questi due princìpi, figlio dell’archaeopteryx e di Lola, il candido bovino che faceva la pubblicità in Tv. Opisthocomus hoazin il suo nome ufficiale, e non chiamatelo un “fossile vivente” (a quanto pare, lo fanno tutti) vista la sua confermata appartenenza al clade dei Neoaves, uccelli che si sono sviluppati in epoca relativamente recente. Sebbene sia ragionevole affermare (di nuovo, è piuttosto comune) che la sua divergenza dal tronco principale di una simile categoria sia avvenuta in epoca remota, vista l’univoca corrispondenza di questa singola specie, genere e famiglia, senza dirette corrispondenza a genìe più prossime, avendo lasciato gli scienziati a discuterne per generazioni. Fin all’epoca della sua prima scoperta e descrizione ad opera del tedesco Statius Müller nel 1776, che fu il primo ad annotare lo strano aspetto, comportamento, dieta e abitudini riproduttive di questo volatile venuta da una potenziale dimensione parallela. Letterale punk dell’Orinoco e delle Amazzoni, il cui nome latino significa per l’appunto “cresta eretta all’indietro” mentre la rimanente parte è assai probabilmente la trascrizione spagnola dell’onomatopea in lingua dei Nahuatl “uatzin“, idealmente corrispondente al suono del suo riconoscibile verso. Un’attribuzione tra le più superficiali nei confronti di una creatura che, per caso o l’effettiva legge di natura, esiste in questo mondo senza un’evidente soluzione di continuità. Vedi la sua notevole prerogativa più effettivamente e propriamente bovina, di poter mettere in atto il piano nutrizionale tipico dei ruminanti.
Già, è piuttosto facile individuarlo, in particolare aree del Brasile, Perù e Guyana, dove lo hoatzin risulta essere abbastanza comune da comparire in folte schiere volatili, con un comportamento gregario che ricorda vagamente quello del nostro comunissimo piccione. Pur essendo sensibilmente più grande, di color marrone fatta eccezione per la testa glabra e blu, dotata di occhi rossi e tondi. E con una lunghezza di 65 cm che lo pone a metà tra un pollo ed un fagiano, nonché una morfologia vagamente corrispondente al secondo, soprattutto in funzione della grande coda apribile a ventaglio. Mentre mastica con enfasi e concentrazione, grandi quantità di foglie e teneri virgulti, per un periodo che potremmo individuare come un buon 90% della sua intera giornata. Di nuovo alla maniera del più grande e familiare degli animali della fattoria, e mediante l’impiego di un artificio biologico che ad esso corrisponde: il possesso, nel proprio organismo, di una formidabile famiglia di batteri, capaci di distruggere la parete cellulare delle piante. Incrementando nettamente la quantità di calorie e l’apporto energetico guadagnabile dalla suddetta materia, se non la gradevolezza del suo particolare e ben riconoscibile odore…

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I dentisti lo detestano: ammirate il ghigno rigenerativo dell’ofiodonte

Considerando un dente, il suo candido smalto, le profonde radici, la morbida gengiva che lo circonda, è difficile negare che si tratti uno dei tesori più importanti dell’umanità. Ricevuto in dono come potenziale non ancora manifesto a momento della nascita, assieme a trentuno dei suoi compagni, il resto delle membra, gli organi e le sinapsi cerebrali che costituiscono una “persona” esso costituisce uno strumento niente meno che primario, finalizzato all’acquisizione di nutrimento, lo sminuzzamento del cibo, persino, in condizioni particolarmente estreme, masticar se stesso mentre si resiste alle ansie ed i problemi della vita. Eppure infastiditi dal bisogno di pulirlo, lavarlo e proteggerlo con tutto ciò che abbiamo, lo lasciamo decadere verso il passo inarrestabile dell’entropia; carie, pulpiti, infiammazioni e infine… L’estrazione. Addio, fedele milite d’avorio. E chi non ha desiderato, una volta oltrepassata una determinata età su questa Terra, di poter tornare a quel perfetto stato primordiale. In cui le zanne dell’umanità, se così vogliamo definirle, possono tornare a palesarsi per un’ulteriore e salvifica occasione. Al principiar di quello stato che siamo soliti chiamare… Maturità individuale. Esiste dunque un detto, o se vogliamo una similitudine, che nasce da un’associazione con solide basi di realtà: “Hai più denti di uno squalo”. Poiché il tipico Selachimorpha cartilagineo che terrorizza occasionalmente le spiagge della California, per non parlare di Sudafrica, Australia e molti altri paesi che guardano all’oceano, ha la caratteristica di contrastare ogni effettivo tipo di sollecitazione da parte della vita, grazie allo scudo biologico di una letterale pletora di acuminati orpelli funzionali alla morsicazione. Costruiti e ricostruiti più volte, nel corso della vita, al punto che si stima esistano esemplari di particolari specie che riescono a produrne fino a 30.000 prima del giorno della loro dipartita dal mondo dei viventi. E se ora vi dicessi che c’è un pesce, nelle acque del Pacifico, che può riuscire a replicare un tale risultato nel giro di appena un mese o due della propria vorace quotidianità, così come altro singolo appartenente alla sua stessa specie? Una creatura tanto incredibile, sotto un simile punto di vista, da veder cadere per l’usura una media di fino a 20-25 denti nel corso di un singolo giorno. E vederne crescere nello stesso periodo, all’interno della bocca grande e laboriosa, almeno altrettanti.
Una creatura per il resto non così incredibile, tanto da essere conosciuta principalmente per la rinomata bontà delle sue carni, mentre dal punto di vista ecologico e comportamentale potrebbe risultare più che altro simile a una grande varietà di altri pinnuti dei sette mari. Tanto che il suo stesso nome comune in lingua inglese è semplicemente lingcod, da una congiunzione tra ling o molva e cod, merluzzo; mentre quello italiano deriva direttamente dalla denominazione scientifica Ophiodon elongatus, direttamente traducibile come “denti di serpente” allungato. Laddove l’essere in questione non risulta effettivamente imparentato con alcuna delle creature sin qui citate, rappresentando piuttosto l’unico appartenente ad un genere della vasta famiglia degli Scorpaeniformes, assieme a letterali centinaia di altri esseri tra cui il familiare scorfano del Mar Mediterraneo. Al quale potrebbe anche assomigliare superficialmente, per gli occhi sporgenti sulla sommità della testa, la bocca rivolta verso l’alto di un tipico predatore dei fondali e la caratterizzante estensione retrograda delle ossa suborbitali, se non fosse per le dimensioni sensibilmente superiori: stiamo parlando di un essere della lunghezza massima di fino a 152 cm, ed un peso di 59 Kg. Abbastanza imponente da incutere un certo livello di timore nei confronti degli umani soprattutto durante la stagione successiva agli accoppiamenti, quando i maschi proteggono assai aggressivamente il nido, arrivando ad attaccare ogni potenziale fonte di minaccia, indipendentemente dalle dimensioni e l’apparente natura formidabile delle sue armi. Non che ci siano molti predatori, nel suo particolare ambiente d’appartenenza che si estende dalle coste dell’Alaska fino alla Baja California, ad essere abbastanza imponenti da riuscire a disturbarlo, fatta eccezione per le foche ed i leoni marini. Mentre spostandoci verso le scale più basse della catena alimentare, sarà difficile trovare qualcosa che non possa diventare il bersaglio prediletto delle sue fameliche scorribande: pesci, crostacei, cobepodi, persino membri della sua stessa specie, fagocitati senza il benché minimo preconcetto in relazione alla misura spesso problematica del cannibalismo. Giungendo a giustificare largamente la necessità evolutiva di poter creare denti a profusione, quasi letteralmente infiniti sulla base del bisogno che proviene dall’impiego particolarmente enfatico dei suddetti…

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Lo strano mondo tecnologico dei veicoli pensati per rafforzare i puledri

Un diverso tipo di montagna russa. Tanto per cominciare, non c’è neanche l’ombra di un soave giro della morte. Nessun ripido declivio, manca anche l’accenno di una curva parabolica. Eppure, nessuno potrebbe mettere in dubbio l’esperienza emozionante di chi appoggia la sua schiena su quei sedili! Nel mezzo del verdeggiante scenario del Kingwood Stud di Lambourn, Inghilterra, tra gli alberi di uno di quei maneggi tanto vasti ed attrezzati da riuscire a far impallidire persino l’idea prototipica di una simile istituzione, per come viene descritta nei romanzi e libri di storia. Al punto da poter disporre di un lunghissimo e serpeggiante colonnato, facente funzioni di un impeccabile circuito coperto. O che tale potrebbe essere, se non fosse anche la casa di un letterale millepiedi gigante. Non del tipo dotato di piedi, s’intende, e neanche ruote di alcun convenzionale tipo. Bensì fluttuante a circa mezzo metro da terra, senza testa e senza coda, ma una serie di segmenti appesi a una monorotaia sovrastante. E nel centro di ciascun segmento, naturalmente, ci sono i cavalli. Ciò è del tutto prevedibile: altrimenti, perché mai costruire le montagne russe, il maneggio e l’irragionevole approssimazione di un insetto gigante? Ogni cosa si conforma e contribuisce a realizzare una mansione straordinariamente caratterizzante: quella di massimizzare il “vapore”. Inteso come forza primordiale, ovvero l’energetica produzione della muscolatura equina, soprattutto quando frutto di una linea di sangue particolarmente costosa e pregiata. L’intero marchingegno vagamente steampunk rientra infatti a pieno titolo nella categoria informale delle innumerevoli costose follie, che ruotano costantemente attorno al mondo variegato dell’ippica, non tanto inteso come “darsi” all’ippica, quanto effettivamente “dominare” l’ippica; raggiungere uno stato di supremo appagamento e ragionevole soddisfazione, in cui i propri animali siano caratterizzati dal possesso di una marcia ulteriore. Capace di sfidare, soverchiandoli, ogni altro quadrupede con zoccoli ferrati fin dall’addomesticazione del secondo o terzo miglior amico dell’uomo. Il che comporta, in modo niente meno che oggettivo, l’addestramento fin da piccoli delle suddette cavalcature, per eliminare nei loro cervelli empatici ma testardi (non lo sono, forse, un po’ tutti gli erbivori?) la formazione di cattive abitudini, favorendo la creazione di un perfetto impiegato dell’industria dei ferri, briglie e selle da competizione. Così come era solito far fare anche Mehmet Kurt, l’industriale e imprenditore turco, con base operativa nella regione portuale di Ceyhan, che è sempre stato caratterizzato da una passione estremamente significativa per i cavalli, almeno fin da quando assunse il controllo dell’azienda paterna all’età di soli 21 anni. E che nel 2011 assurse all’onore delle cronache britanniche, proprio per l’acquisto del suddetto maneggio situato nel West Berkshire, con l’obiettivo collaterale di costruirvi all’interno la più imponente macchina trasformativa che abbia mai potuto caratterizzare l’evoluzione il suo preferito ambito d’interessi e di svago.
Chiamato molto prevedibilmente il Kurtsystem, l’oggetto principale della nostra analisi è perciò un approccio funzionale ed omni-comprensivo all’addestramento. Ma forse sarebbe ancor più corretto affermare, il pre-addestramento, poiché concepito per l’impiego da parte di esemplari ancora molto giovani, talmente lontani dall’essere formati da non risultare ancora pronti a trasportare la figura a pieno titolo di un fantino umano. Ed inclini per nascita ad affrontare, dunque, quella parte del loro curriculum che consiste nel compiere molti ripetuti giri di un tragitto uguale a se stesso, finché l’idea di completarlo nel più breve tempo possibile sia bene impressa al centro dei propri pensieri. Il che finisce per costituire nella maggior parte dei casi, sia ben chiaro, un passaggio delicato e potenzialmente lesìvo per la salute dell’animale, soprattutto nel caso di operatori del settore meno esperti e che finiscono per compiere errori in corso di procedura che potrebbero risultare poco apparenti, ma non per questo meno devastanti nella formazione e la preparazione del cavallo. Laddove idealmente, superati i comprensibili preconcetti, l’alternativa tecnologica ed automatizzata può riuscire totalmente incapace di commettere alcun tipo di passo falso…

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