Scoscesi obruk, le impressionanti vie segrete verso il sottosuolo dell’Anatolia

Le proporzioni sono tutto quando si sta tentando di osservare un fenomeno, nella speranza di comprenderne la portata ed il significato all’interno di un contesto sufficientemente vasto da fornire uno spunto d’analisi ulteriore. Prendi ad esempio, la realtà osservabile di un foro circolare, in quella che può essere soltanto definita come una superficie di colore marrone chiaro. Che vista da lontano, può ricordare facilmente la parate di una casa o il pavimento del bagno, in corrispondenza dei quali qualcuno, per ragioni non del tutto chiare, ha scelto di praticare un’apertura passante da parte a parte mediante l’uso di un trapano o altro simile implemento. Ciò almeno, finché l’inquadratura non si avvicina progressivamente, mostrando le forme chiaramente riconoscibili di quelle che possono essere soltanto piccolissime automobili, ed alcuni microbi variopinti intenti ad industriarsi nel calare giù una cima per andare a controllare cosa c’è suo fondo. Microbi che sono, neanche a dirlo, persone. Ed è allora che la descrizione funzionale della scena tende ad allargarsi, per includere all’interno del capitolo non più una mera stanza, ma l’intero territorio circostante di uno spazio coltivato, all’interno della ricca pianura di Karapınar nella regione turca di Konya. La cui caratteristica climatica maggiormente determinante è la caduta di pochi centimetri di pioggia ogni anno, certamente insufficienti per poter riuscire a sfruttare in maniera valida la fertile terra che caratterizza questo particolare altopiano circondato da altissime montagne. Ostacolo soltanto in parte insormontabile, quando si considera la fortunata presenza di un’estesa falda acquifera 50, 100 metri sotto il terreno battuto dal Sole, sufficiente all’implementazione sistematica di un vasto e funzionale sistema d’irrigazione. Ma l’industria umana, questa è cosa risaputa, riesce ad essere maggiormente abile nel risolvere i problemi immediati, piuttosto che studiare le conseguenze a lungo termine delle proprie scelte collettivamente determinate. Ed ogni soluzione apparente di un problema in essere, specie quando fatta materializzare dalla pura ed intangibile aria del mattino, tende ad avere un costo non sempre subito evidente. Così che, prendendo in esame un periodo di 33 anni tra il 1977 ed il 2009, 19 di questi fori smisurati, chiamati in lingua turca obruk (“fori” o “caverne”) si erano aperti nella zona rilevante, di cui 13 soltanto negli ultimi 4 anni del periodo. Mentre allo stato attuale dei fatti, canoni meno stringenti di conteggio arrivano a citarne fino a 600, dalle dimensioni più o meno estese disseminati nell’intero estendersi di questa zona d’importanza agricola senz’altro significativa. Un’ambiente di lavoro, per coloro che si trovano all’interno, nel quale sopravvivere significa imparare a gestire l’ansia, nella faticosa consapevolezza che in qualsiasi momento, senza nessun tipo di preavviso, il nulla possa spalancarsi per accogliere il proprio terreno, se stessi o la casa dei pregressi sacrifici, in cui risiede un’intera famiglia che non ancora non può, o non vuole entrare nell’idea di trasferirsi altrove.
La ragione pratica di un tale senso d’instabilità latente, dunque, è stato al centro di numerose ricerche scientifiche pregresse nel corso dell’ultimo secolo, finalizzate all’individuazione di possibili ragioni e a seguito di ciò, approcci che possano dimostrarsi in qualche modo risolutivi. Per un novero di cause giunto ad includere il collasso di antichi maar (laghi sotterranei d’origine vulcanica) piuttosto che la dissoluzione del sostrato iniziata durante il periodo maggiormente umido del Pleistocene. Altri in epoca più recente (Canik e Corekcioglu, 1986) hanno ipotizzato l’esistenza di un complesso meccanismo di emanazione di gas magmatici, capaci di contribuire alla liquefazione del sottosuolo mediante una reazione chimica dell’acqua ricca di anidride carbonica recuperata in alcuni sondaggi in profondità, una situazione classica in situazioni di tipo carsico come l’altopiano di Karapınar. Ma ogni personalità coinvolta nel corso degli ultimi anni, assieme agli stessi proprietari delle terre affette dal problema in questione, non ha potuto fare a meno di venire a patti con l’implicazione maggiormente problematica di questa intera concatenazione di cause ed effetti: il fatto che sia stata la mano dell’uomo e null’altro, guidata dalla solita ambizione che la caratterizza, ad aver contribuito all’attuale stato dei fatti…

L’aspetto maggiormente distintivo delle doline di Konya è la loro forma grossomodo circolare, risultante dal raggiungimento del momento critico in uno specifico punto d’origine. Da cui il crollo tende a verificarsi con precisione geometrica, nella definizione di un perimetro equidistante.

La situazione è in realtà molto ben conosciuta ed ampiamente acclarata anche nello stato americano della Florida, dove doline carsiche forse di dimensioni meno significative, ma altrettanto problematiche per coloro che devono conviverci, hanno condizionato lo sviluppo e la pianificazione urbana ormai nel corso di una serie di lunghe generazioni pregresse. Ed ha tutto origine dalla necessità, assai rilevante in determinati climi, di procedere all’irrigazione mediante nebulizzazione pressoché costante ad opera di sprinkler o “spruzzatori”, il tipo di dispositivi capaci di umidificare ampi spazi adibiti alla coltivazione di varie tipologie di vegetali. Un approccio tanto funzionale quanto dispendioso, in termini dell’utilizzo di quel prezioso fluido insostituibile, che deriva dalla sostanziale umidità pregressa del nostro pianeta. Così che prelevando acqua dalle profondità di un perduto strato geologico, chiamato formazione lacustre di Insuyu, gli agricoltori dell’Anatolia hanno finito per contribuire al taglio metaforico del sottile ramo su cui sono seduti, accelerando sostanzialmente i processi già iniziati dalla particolare conformazione geologica del sottosuolo. Immaginate, a tal proposito, l’effetto di una serie di pompe che risucchiano, in maniera instancabile ancorché metodica, l’intero sostrato acquatico un tempo sfruttato soltanto mediante l’impiego di pozzi costruiti con metodologie tradizionali. Riuscendo in tale modo a destabilizzare un complicato equilibrio tra materia solida e semi-solida, fino al collasso inevitabile della cosiddetta capstone, uno strato solido capace di svolgere funzioni di solaio per coloro che abitano gli strati soprastanti. Una progressione che finisce per venire massimizzata, ed accelerata al massimo, dalla relativa sottigliezza di quest’ultima, rispetto a territori con caratteristiche simili ma una minore quantità di doline.
Va altresì considerato come questa peggioramento esponenziale della condizione presente sia ancora lungi da aver raggiunto il picco massimo, con proiezioni matematiche come quelle del Prof. Fetullah Arik della Commissione Speciale per le Doline di Konya dimostratasi capaci di dimostrare un probabile raddoppiamento della quantità totale di buchi nel giro di un singolo anno, così come è stato possibile conteggiare un pari aumento numerico al concludersi di quello trascorso. Con molte delle frane abbastanza piccole o lontane dalla civiltà da non poter arrecare danni significativi, laddove alcuni casi eclatanti, capaci di arrecare danni significativi alle proprietà, hanno finito per costituire anche un pericolo davvero significativo per le persone. Vedi non tanto un caso come quello ampio almeno 300 metri e profondo due volte tanto mostrato in apertura, molto probabilmente risalente a svariate migliaia di anni a questa parte, ma obruk più piccoli formatisi nel mezzo dei villaggi e dei campi, con potenziali conseguenze anche troppo terribili da immaginare. Una fotografia piuttosto celebre mostra ad esempio una di queste voragini venuta a spalancarsi proprio nel mezzo della piccola comunità pastorale di Ekmekci, il 3 giugno del 2021, portandosi via una parte della strada e pochi metri dalle abitazioni locali. E non è facile immaginare quanto a lungo una situazione simile possa continuare a gravare sulle teste della popolazione, senza che qualcuno finisca per pagare il prezzo finale.
Con un discorso scientifico maggiormente utile a osservare e studiare il fenomeno, piuttosto che arrestare l’irrimediabile declino (chi può dire, a un agricoltore, “smetti di irrigare?”) l’attuale condizione della piana di Koropinar sembra perciò avviata al progressivo abbandono. Con svariate personalità locali intervistate dalle Tv di mezzo mondo, più che mai pronte a descrivere l’avvenuta emigrazione delle prossime generazioni, mentre i loro genitori e nonni restano ostinatamente legati alle terre dei loro antenati. Non del tutto al di sopra dal tentare il gesto, tanto faticoso quanto superfluo, di provvedere a riempire i fori più piccoli con cumuli di terra veicolati grazie al sudore della propria fronte. Come se la disgregazione della Terra fosse arrestabile, in qualche maniera, dai semplici gesti della collettività umana.

Talune riprese dall’alto, probabilmente realizzate con l’aiuto di un drone, tendono a ricordare gli scenari post-apocalittici della cinematografia di genere, con mostri ed altre orribili creature che riemergono dalle profondità del mondo. Dopo tutto, come si dice, c’è ancora tempo…

Il che in ultima analisi, non è soltanto un semplice puntiglio oppur l’attaccamento a linee guida ormai superate. Quando si considera come l’intera regione di Konya sia responsabile, di fronte alla Turchia ed al mondo, della produzione di circa 2,5 milioni di tonnellate di grano annue, un’importante fonte di cibo all’interno di un mercato globale duramente fiaccato dal mutamento climatico e in epoca più recente, la pandemia stessa.
Mentre il territorio continua insistentemente a mutare, in una fittizia commistione di apparente fertilità ed aridità pregressa, che porta ad un recedere sempre più rapido delle acque nelle viscere occulte di un pianeta necessariamente disinteressato nei confronti delle nostre tribolazioni attuali o ancora meramente teorizzate. Benché sia ormai particolarmente difficile immaginare un futuro in cui tutto possa continuare allo stesso modo, a partire da presupposti che negano la stessa possibile presenza di una soluzione. Perché come si è soliti dire, una volta toccato il fondo resta solamente l’opportunità di scavare. Oppure qualche volta, l’opportunità di osservare il dipanarsi pressoché automatico di un quel processo. Quando è ormai troppo tardi, per protestare.

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