L’intero canone buddhista nelle statue policrome del tempio dell’Acqua e della Terra

In una delle scene maggiormente memorabili del recente videogioco cinese Black Myth: Wukong, il protagonista liberamente ispirato al personaggio letterario del Re Scimmia combatte contro Ciglio Giallo, entità demoniaca che ha trovato il modo di assumere l’aspetto del Buddha. Il difficile incontro, che richiede una conoscenza approfondita dei comandi ed i poteri del protagonista, si svolge all’interno di un tempio titanico, finemente ornato di maestose statue sovrapposte l’una all’altra, come un attento e immoto pubblico di personaggi senza una voce. Come molte altre sequenze e momenti dell’opera interattiva, l’ispirazione artistica è particolarmente precisa e fa riferimento ad un luogo specifico del grande Regno di Mezzo. Il tempio di Shuilu (水陆庵 – letteralmente: dell’Acqua e della terra) costruito per prima volta nella tarda epoca delle Sei Dinastie (V sec. d.C.) ma che avrebbe trovato principalmente nelle successive epoche dei Tang e Ming le ragioni più valide della sua imperitura magnificenza. Particolarmente dopo l’intervento diretto del principe Zhu Huaijuan che attorno all’anno Mille qui nello Shaanxi ebbe la sovrintendenza del regno vassallo di Qin, da lui sfruttata per accumulare meriti religiosi per se stesso e la sua intera famiglia. Tramite la costruzione di un santuario le cui proporzioni artistiche, semplicemente, esulavano da cognizioni pregresse all’interno dell’intero vasto Impero cinese. Sua fu dunque l’idea di riprendere per lo Shuilu situato 60 Km ad est di Xi’an, da lui ribattezzato in Shuilu’an, il tema iniziato dal celebre scultore di due secoli prima Yang Huizi, che aveva ornato la grande sala centrale con molteplici sculture vivaci ed animate del Buddha, mediante il coinvolgimento di numerosi artigiani provenienti da ogni angolo della nazione. Ciascuno incaricato, mediante l’applicazione di un piano preciso, nel curare un diverso angolo di una composizione di centinaia, poi un migliaio e infine 3.700 statue differenti, disposte in una pletora di affascinanti composizioni e differenti modalità espositive. Principalmente realizzate in terracotta dipinta, come si usava fare all’epoca, i loro soggetti includono santi e saggi, divinità, uomini e donne impegnati nella raffigurazione d’importanti episodi nella vita di Sakyamuni, ma anche favole o novelle di derivazione popolare, in quella che costituisce una vera e propria enciclopedia visuale di tutto quanto fosse mai stato detto a beneficio della consapevolezza individuale e la salvezza esistenziale dei fedeli. Un letterale viaggio ritroso, ma anche di lato e verso il punto di fuga prospettico, nel caratteristico e stratificato mondo della religione cinese…

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Zimoun e l’indeterminazione acustica di una sinfonia di oggetti del quotidiano

Non è particolarmente insolito decidere di mantenere al centro dei propri pensieri condizioni o circostanze memorabili della propria infanzia. Incluso il soprannome scelto, in questo caso dai coetanei con cui trascorreva liete giornate a Berna, Svizzera, per colui che in seguito sarebbe diventato il più encomiabile, citato demiurgo delle sinfonie corali prodotte dalla chincaglieria del mondo. Non possiamo dire di conoscere d’altronde quale sia il significato di quel termine, Zimoun, mentre molto più condivisibile risulta essere l’altro residuo di quell’epoca, così frequentemente citato da costui in occasione delle plurime interviste rilasciate nel corso degli ultimi vent’anni: la grande stufa che lo affascinò all’interno della casa dei suoi genitori. Oggetto oblungo di metallo lucido, il cui rombo sostenuto, ed il ticchettio prodotto al cambio di temperatura, diventarono per lui l’equivalenza di un potente sentimento, ovvero la profonda risultanza di trovarsi avvolto da uno spazio, la sua musica, l’odore e l’imponenza dei mutamenti. Così che, crescendo, pur senza posizionarsi come il ricevente di un’educazione artistica formale, egli avrebbe elaborato nella propria mente un metodo per scorporare e interpretare il mondo. Forse il più difficile tra i molti, questa costruzione di complesse installazioni artistiche, destinate a diventare benvolute dalle mostre, gallerie e spazi museali di ben oltre la metà del mondo. Attraverso l’evoluzione progressiva di una tale tecnica, difficile da ricostruire nonostante la pesante complessità delle disquisizioni pseudo-biografiche che lui stesso, o altri, si sono preoccupati d’inserire su Wikipedia, tali opere si sarebbero così guadagnate alcuni fattori estetici ricorrenti: l’utilizzo privilegiato di materiali di recupero o similari, la modularità ripetuta in grado di portare solamente in apparenza alla monotonia, la produzione auditiva di un chiacchiericcio di suoni stocastici, inerentemente difficili da prevedere. Ancorché lo stesso Zimoun ami ripetere che la sua arte non produce meramente musica, costituendo più che altro l’effettiva comunione delle percezioni sensoriali sovrapposte, perciò quello che si sente, assieme a quelle immagini tracciate dalle luci ed ombre, costituiscono elementi a pari merito importanti di un processo la cui complessità trascende il singolo momento. Evolvendosi attraverso profusioni caotiche soltanto in apparenza…

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Le alte croci ove riposano i quattro re di Persia, scolpite nella nuda roccia della montagna

“Un grande dio è Ahuramazda, che ha creato questa Terra, che ha creato il cielo soprastante, che ha creato l’uomo, che ha creato la felicità per l’uomo, che ha fatto Dario re, un re di molti, un signore di molti”. Così recita l’invocazione cuneiforme d’apertura in una delle più importanti iscrizioni dell’archeologia persiana, chiaramente databile al 490 a.C. Quattro anni prima della morte di uno dei sovrani più importanti che quel vasto impero abbia potuto vantare, per cui vengono citate a seguire le sue plurime conquiste militari in Assiria, Grecia, Babilonia, Egitto, Armenia… Situata innanzi alla caratteristica struttura del suo sepolcro, pochi chilometri a nord-ovest dall’antica capitale politica e religiosa di Persepoli, tale fondamentale elemento sarebbe stato l’unico, per nostra sfortuna, a non essere imitato dai suoi successori. Lasciando le tre tombe simili e adiacenti, facilmente attribuibili ad altri re Achemenidi, come di attribuzione meramente ipotizzata, sulla base di fattori contestuali non del tutto immuni alla confutazione. Una scelta stranamente anonima, per i supremi governanti di un territorio tanto vasto e potente, utile a comprendere il profondo scopo rituale, piuttosto che meramente celebrativo, attribuito al possesso e l’impiego postumo di tali imponenti strutture. Questa è Naqsh-e Rostam, il “Murale” dell’eponimo eroe mitologico, collegato in modo meramente folkloristico all’importante sito fin da tempi antecedenti all’arrivo degli studiosi; chiamata dai cristiani, lungamente affascinati dai personaggi biblici qui sepolti, il cimitero delle croci, causa la forma osservabile dell’ingresso delle quattro tombe, capaci di presentarsi come aperture verticalmente ed orizzontalmente simmetriche nella roccia monolitica che si erge in mezzo al deserto di Fars. Ciascuna dominata dall’ingresso monumentale sopraelevato, decorato con un sofisticato e identico bassorilievo concepito per assomigliare all’ingresso di un grande tempio o residenza reale. Il cui falso architrave sostiene una vasta e identica raffigurazione del re visto di profilo, intento a ricevere il sacro mandato da un’entità divina dello zoroastrismo, possibilmente Ahuramazda in persona. Sito usato in precedenza dalle popolazioni locali degli elamiti, poi sconfitti e sottomessi dai persiani, questo importante spazio sacro sarebbe stato quindi a secoli di distanza utilizzato dalla successiva dinastia Sassanide, che pur senza introdurre elementi di pari imponenza, avrebbe fatto intagliare nello spazio sottostante alle tombe figure guerresche intente a sconfiggere i nemici del regno, inclusi gli imperatori romani Valeriano, mentre viene preso in ostaggio da Shapur I nel 361 a.C. e Filippo l’Arabo che implora la pace nel 241 a.C. Un momento di gloria imperitura, per il discendenti di coloro che costituirono una potenza tanto significativa da imporre la lingua franca dell’Aramaico in tutto il Medio Oriente, venendo anche citati a tal proposito tra le immortali pagine del Vecchio Testamento…

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Catarsi nel Caucaso: la tragedia del maestro che precipitò dal tetto del monastero

La conoscenza approfondita della storia di un luogo nel corso del Medioevo è frequentemente la diretta risultanza del lavoro di un cronista, personalità istruita che a vantaggio dei contemporanei e la posterità ulteriore, fece impiego delle proprie conoscenze per tradurre in una cronaca la dettagliata memoria dei trascorsi di un popolo, un paese, una famiglia. Lavoro che fu compiuto, per quanto riguarda l’Armenia dall’XI al XIII secolo d.C, dal vescovo metropolitano ortodosso Stepanos Orbelian, discendente dell’omonima e prestigiosa famiglia di feudatari della provincia di caucasica di Syunik. Che si misero al servizio, nel 1177, del nipote del re della Georgia, il principe Denma, durante la ribellione contro il sovrano usurpatore Giorgio III Bagration. Destinata a naufragare nel sangue e la severa punizione di quest’ultimo, nonché l’esilio dei suoi più fedeli sostenitori. Ma i signori di Syunik sarebbero tornati in patria la generazione successiva, per assistere la figlia del re Tamar e il suo successore nonché nipote, Giorgio IV Lasha contro l’invasione del Turchi Selgiuchidi, il che valse a Liparit III Orbelian la qualifica di viceré di Georgia e tutti i suoi domini. Seguì un’epoca di ricchezza e prosperità nella provincia, capace di riflettersi in quell’epoca dal forte sentimento religioso nella costruzione di splendidi edifici ecclesiastici, svettanti chiese e notevoli monasteri. Il più celebre dei quali, senza ombra di dubbio, sarebbe rimasto nel millennio successivo quello di Noravank, situato a 122 Km dalla città di Yerevan dentro un angusto canyon scavato nell’arenaria dal fiume Amaghu, vicino al villaggio di Yeghegnadzor. Un complesso architettonico indicativo delle tecniche costruttive dell’epoca, usato anche come residenza e mausoleo della famiglia a partire dal completamento della chiesa cruciforme di Surb Karapet, dedicata alla figura di Giovanni Battista.  Ma le cui vette più elevate, in più di un senso, sarebbero state raggiunte nel 1339 con l’adiacente santuario dedicato ad Astvatsatsin (la “Santa Madre di Dio”) struttura alta 26 metri costituita da due piani, dalla forma di un rettangolo sormontato da una croce greca. Dietro le cui svettanti mura, aguzzando la vista, un osservatore ideale di quel panorama potrà scorgere una piccola khachkar, la tipica croce decorata con bassorilievi dei luoghi sacri e cimiteri Armeni, così istantaneamente diversa dalle altre contenute entro il perimetro del monastero, proprio perché umile nell’aspetto e semplice nel progetto artistico di colui che dovette crearla. Si tratta, molto chiaramente di una tomba, dedicata a niente meno che Momik, il leggendario scultore, architetto e illustratore di manoscritti del XIII secolo, la cui ultima creazione fu proprio la chiesa di Astvatsatsin. Ed il cui completamento, secondo una leggenda collegata all’ultimo periodo della sua vita, non avrebbe mai avuto l’occasione di vedere. Causa il tradimento supremo, subìto proprio per il tramite di colui che gli doveva maggiore riconoscenza…

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