Shipai, alveare urbano ai margini della maggiore megalopoli della Cina meridionale

L’aspetto principale da considerare in merito allo stereotipo immaginifico dell’agglomerato abitativo futuribile, così strettamente associato all’iconografia del sotto-genere fantascientifico e distopico del cyberpunk, è la maniera in cui esso deriva in modo indiretto da un preciso attimo nel corso della storia, effettivamente sopraggiunto e già da lungo tempo trascorso nei suoi luoghi d’origine. Nel parlò candidamente William Gibson, stabilendo i canoni di quello che sarebbe diventato, nel suo ambito di pertinenza, uno stilema irrinunciabile dei suoi molti discepoli ed imitatori. Eppure la “città murata”, così come viene chiamata per analogia con l’insediamento post-socialista, post-nazionalista di Kowloon subito fuori i confini hongkongesi, ha per la mentalità di molti luoghi d’Asia un suo gusto vagamente nostalgico centrato in quella fine anni ’80, in cui opere come Neuromante e Count Zero venivano per l’appunto pubblicate in Occidente. E poco prima che, tra il 1993 e ’94, tale impressionante, totalmente abusiva concentrazione d’edifici venisse sottoposta alla demolizione imposta dalle autorità di Stato. Lasciando il posto a più canonici e prestigiosi grattacieli, babelismi la cui pendente incombenza non spostava di suo conto in secondo piano alcune caratteristiche tipiche dello stile abitativo cinese. Tra cui la propensione a vivere in spazi ristretti e claustrofobici, dove il concetto di spazio vitale è fortemente fluido e di per se subordinato a una tendenza tipica di tale cultura: effettuare le proprie esperienze di vita sociale non tra quattro mura, bensì in strada, tra la gente, nei luoghi di raccolta e condivisione culturale. Non tutti, d’altro canto, potevano permettersi di vivere all’interno dei gremiti appartamenti tra le nubi, il che ha donato ad un particolare aspetto dell’urbanistica locale un ruolo fondamentale nella stratificazione ed adozione sistematica degli ambienti abitativi a disposizione. Sto parlando dei cosiddetti chéngzhōngcūn (城中村) o “villaggi urbani” ambienti ove persiste al giorno d’oggi, con modalità e crismi esistenziali differenti, l’iconica visione del iper-conglomerato a strati sovrapposti. Con letterali centinaia di esempi per ciascun centro metropolitano sopra il milione di abitanti, tra cui oltre 250 nella sola Dongguan e la cifra record di 867 nella capitale, Pechino. Ma forse gli esempi prototipici, più frequentemente visitati e noto ai turisti, si trovano concentrati proprio in quell’ambiente meridionale in cui sorgevano i palazzi accatastati di Kowloon, nella complessa megalopoli giunta a sussistere presso la baia di Guangdong, entro cui si trova a stretto contatto con gli altri il centro cittadino di Guangzhou, agglomerato dalla lunga storia imperiale. E più volte incline ad espandersi nei suoi trascorsi, fino ad inglobare gradualmente i piccoli comuni delle campagne antistanti. Così da creare l’agile dualismo, destinato di suo conto a preservare l’esistenza di qualcosa che il resto del mondo può dire veramente di conoscere soltanto grazie all’opera di alcuni scaltri divulgatori. Poiché profondamente ed intrinsecamente, più di ogni possibile arbitraria connotazione, Cinese…

Shipai nel distretto di Tianhe (Fiume Celeste) a Guangzhou trova dunque una collocazione che ricorda in modo stranamente pregno il celebre rettangolo vegetativo di Central Park. Circondato da elevate torri, al cui cospetto invece che un ambiente aperto al cielo trova una concentrazione persino maggiore, sebbene assai più bassa, di edifici asserragliati l’uno all’altro. Sono le celebri wòshǒu lóu (握手楼) ovvero “case che si stringono la mano” così chiamate proprio perché, in base allo stereotipo, i rispettivi abitanti potrebbero idealmente sporgersi dalle rispettive finestre, per familiarizzare tramite il contatto diretto senza la necessità di sporgersi più di tanto. Ragion per cui l’ingresso di automobili all’interno dei villaggi urbani è in genere impossibile, il che porta ad una soverchiante densità di motocicli di ogni foggia e tipologia, che tendono a sfrecciare a velocità non sempre ragionevole nelle principali arterie perpendicolari del chéngzhōngcūn. La stessa luce del sole, in questi luoghi, penetra a fatica da spiragli appena visibili sopra la testa dei passanti, mentre la sera questi luoghi si trasformano in fantasmagorici ambienti illuminati primariamente dalla luce delle insegne al neon. Eppure lo stereotipo, che vorrebbe tali condizioni abitative strettamente collegate ad un elevato tasso di criminalità ed ambienti poco raccomandabili, si applica soltanto in parte a luoghi come Shipai, principalmente abitati da una classe lavoratrice che partecipa in maniera marginale, sebbene non riesca a trarne un significativo profitto, dal benessere e dall’abbondanza del nuovo boom economico cinese. E poi ci sono, chiaramente, i loro proprietari di casa.
Tutto va inquadrato, in tal senso, nella storia condivisa dalla stragrande maggioranza di questi quartieri ed il modo in cui questa fu influenzata successivamente all’inizio della Rivoluzione Culturale, in quel catartico 1966. Quando la ridistribuzione dei terreni e proprietà a beneficio del proletariato andò presto incontro a quello stesso problema amministrativo incontrato dai dinasti delle dinastie trascorse: l’impossibilità pratica di fornire lo stesso grado di servizi e tutela a tutti gli abitanti di un paese vasto come la Cina, con particolare (mancanza) di riguardo per i plurimi abitanti che vivevano fuori dai confini delle città propriamente dette. Il che avrebbe portato alla creazione e mantenimento del sistema hukou (户口) di registrazione delle famiglie ed individui cui veniva consentito, fuori dall’egida del potente stato centrale, di mantenere il controllo completo dei propri asset fondiari e immobiliari. Restando proprietari di casa, essenzialmente, là dove il valore degli spazi era considerevolmente inferiore. Ma le città come sopra menzionato continuarono progressivamente a espandersi, portando in seguito tali villaggi ad essere inglobati, rimanendo totalmente immuni alle comuni dinamiche nazionali d’imposizione di un sostanziale piano regolatore. Il che ha generato il surreale sincretismo, non del tutto privo delle implicazioni problematiche dei tipici bassifondi. Ma soprattutto inviso ai cultori di un particolare tipo di Cina, totalmente instradata alla venerazione del beneamato Progresso.
Eppure luoghi come Shipai (石牌 – “Lastra di Pietra”) che di suo conto vanta una lunga storia risalente all’epoca della dinastia Song, sono giunti a costituire nel corso delle ultime decadi un forte tessuto d’aggregazione sociale, con le proprie iconiche tradizioni comunitarie, i templi e luoghi di culto, modalità ed approcci funzionali alla commemorazione degli ancestrali “cognomi” dei loro celebrati predecessori. Che includono ad esempio, nel caso specifico, i fondatori di diverse scuole private, un Ministro del Lavoro, uno dei fondatori della mega-compagnia tecnologica Net-Ease e niente meno che Chi Yao-Ting (1870–1960) medico celebrato personalmente dall’Imperatore nonché compagno di classe del grande rivoluzionario Sun Yat-sen. Mentre a quanto viene doverosamente commemorato, una lastra di pietra incisa da quest’ultimo nel 1924 era originariamente custodita, oggi riprodotta in un piccolo santuario del villaggio, con l’esortazione alquanto nostalgica di “为国杀贼” – Uccidi il Nemico per il tuo Paese.

D’altro canto e nonostante la pressione a più livelli delle amministrazioni nazionali e cittadine, i villaggi urbani della Cina continuano a resistere talvolta con associazioni di categoria alle iniziative di demolizione intavolate a partire dagli anni Duemila, e questo nonostante lo stanziamento di fondi significativi per la compensazione dei proprietari. Che in seguito allo sgombero ricevono, nella maggior parte dei casi documentati, grosse somme di denaro coadiuvate dal possesso di appartamenti proprio dentro quelle torri che, in precedenza, potevano guardare soltanto dal basso. Diverso il caso, chiaramente, dei loro affittuari, destinati a rimanere vittime di una sorta di sfratto collettivo, cui è semplicemente impossibile resistere né instaurare alcun tipo di protesta organizzata e/o efficace.
Il che costituisce un’ulteriore conseguenza del sistema pratico dell’amministrazione in molti paesi dell’Asia, in cui la collettività dovrebbe (idealmente) essere anteposta alle necessità dell’individuo. A meno che quest’ultimo, s’intende, sia il detentore di una quantità abbastanza significativa di capitali. Che un mutamento in tal senso sia possibile, costituisce il nucleo di un’ampia collezione di letteratura speculativa ove dovrebbe figurare anche il già citato, e spesso frainteso cyberpunk. Il fatto che possa palesarsi come necessario, in un domani più o meno alla deriva, risulta ancora oggi opinabile. Ma non del tutto fuori dall’inquadratura delle possibilità future.

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