L’appel du vide, o richiamo del vuoto è un termine impiegato in campo psicologico, per definire l’insensata e immotivata pulsione umana a compiere un balzo da un’altezza significativa, possibilmente all’origine di un’alta percentuale di suicidi. Il che costituisce in un certo senso un’astrazione poiché il “vuoto”, sia in natura che altrove, semplicemente non esiste in questo vasto Universo. Così studi contemporanei hanno dimostrato con alta probabilità, nel corso degli ultimi anni, come persino gli ampi spazi tra i distanti ammassi stellari, che noi siamo soliti chiamare galassie, contengano stralci di materia espulsa, micrometeoriti ed altre particelle invisibili all’occhio scrutatore dei telescopi. E secondo la legge del micro che riprende il macro, lo stesso può avvenire su un pianeta vivente, come la Terra, dove non è tutto visibile tutto ciò che parla o mostra un anelito procedurale alla prosperità o prosecuzione della propria dinastia. Replicando se stesso finché ne ha la forza. Oppure, in base ai crismi di un diverso regno, raggiungendo il sito idoneo ad affondare finalmente sospirate radici. Nella costituzione del più effimero ma pervasivo dei biomi, affine per molteplici punti di vista al tipo di creatura responsabile di una stragrande maggioranza della biomassa oceanica; proprio per questo, siamo giunti a definirlo aeroplankton. Il primo strato non è nulla di eccessivamente preoccupante: particelle dai 100 ai 5 micron, principalmente composte di pollini di origine vegetale, cadono a terra rapidamente, percorrendo al massimo qualche metro dai rami che si sono dimostrati in grado di generarle. Ma è sollevandosi di qualche metro ancora, che le cose iniziano a farsi davvero interessanti, con artropodi e nematodi trasportati via dal vento grazie al proprio specifico intento. I primi, come nel caso dei ragni, grazie alla costituzione di paracadute per la tecnica del balooning, utile a favorire la dispersione animale. Mentre i secondi, principalmente vermi in grado di costituire il phylum di animali più diffuso al mondo, sfruttando una superficie proporzionalmente superiore al proprio peso, come piccoli alianti costruiti dalla natura. Proseguendo dunque il nostro viaggio ideale verso l’elevata stratosfera, andiamo incontro a quello strato di leggiadri batteri, che percorrono le invisibili autostrade del sopra-suolo, colonizzando in questo modo i luoghi più remoti della Terra. Ed ancor più la stessa cosa si palesa, nell’iperboreo maggiormente estremo, dove i virus che sussistono tra vita e morte volano in paziente attesa del calmarsi delle correnti, per tornare nuovamente a portata dei loro ospiti elettivi da colonizzare con efferato trasporto. Ed è stato proprio quest’ultimo aspetto, negli anni appena antecedenti all’epoca del Covid, a suscitare un tardivo interesse scientifico nei confronti della vita che ci sovrasta, attraverso una serie di studi culminanti con quello di scienziati delle università di Granada e San Diego (Isabel Reche et al. – 2018) ripreso da schiere di testate divulgative e non, con titoli ad effetto quali: “Milioni di virus cadono continuamente dai cieli”. Un’allusione al problema, piuttosto che l’offerta programmatica di un potenziale rimedio. D’altra parte, siamo organismi che si sono lungamente evoluti nel presente contesto. Dunque come mai potrebbe, quest’ultimo, riuscire ad anticipare l’estremo attimo della nostra materiale esistenza?
Un più invitante stralcio di speranza, di suo conto, sembra offrirlo l’approccio accademico di David J. Smith, biologo della NASA all’Ames Research Center, che a partire dal 2011 ha pubblicato una serie di resoconti sulle colonie viventi da lui individuate in vari spazi superni. Come quella composta da una varietà straordinaria di entità, da lui individuata nelle polveri raccolte sulla sommità di un vulcano dormiente in Oregon, rivelatosi composta da un buon 27% di batteri e 47% di spore, ancora egualmente e perfettamente appartenenti senza ombra di dubbio alla schiera delle creature viventi. E molti di essi, è importante sottolinearlo, verificabili come provenienti da territori distanti come l’Asia, costituendo l’effettiva risultanza di quello che egli giunse a definire, con piglio metaforico, come il risultato di uno “starnuto della Terra stessa”. È già nel 2013 a questo punto, che lo scienziato in questione avrebbe iniziato a dare adito alla necessità di costituire una rete di osservazione globale, al fine di categorizzare questa schiera sconosciuta di esseri, potenzialmente nocivi e con eguale probabilità potenzialmente utili, poiché connessi all’ineccepibile biodiversità delle imprescindibili presenze fluttuanti.
L’aeroplankton, come bioma popolato di esseri viventi, pur essendo stato reso esplicito soltanto in tempi recenti si è dimostrato capace di attirare l’attenzione di menti eminenti fin dal XIX secolo, con i campioni di polvere raccolti dallo stesso Charles Darwin durante il secondo viaggio della Beagle a 1.000 miglia dalla costa, oltre a svariati esperimenti compiuti nella stessa epoca da Louis Pasteur. Ogni tipo di studio seppe rivelarsi d’altra parte inevitabilmente complesso, per la lente limitata di cui possiamo disporre, in funzione della difficoltà inerente di catturare campioni non contaminati ad altezze diverse. Un approccio che vede la partecipazione in epoca odierna di elicotteri ed aerei leggeri, dotati di varie tipologie di aspiratori filtranti, così come quelli disposti strategicamente in luoghi battuti dall’incrocio dei venti. Il che ci ha permesse di dimostrare una concentrazione maggiore di entità minuscole in due luoghi all’opposto spettro delle ecologie possibili conosciute dall’uomo: sopra i luoghi particolarmente aridi, vasti deserti battuti dalla polvere delle occasionali tempeste; e in corrispondenza dell’Oceano la cui vastità non allude ad alcun tipo di confine, ove le stesse forme di vita microscopiche sul pelo dell’acqua, spesso, si sollevano e raggiungono gli spazi speculari del vasto cielo azzurro ed inesplorato. Il che suscita la spontanea quanto inevitabile domanda: se tanti esseri viventi popolano i cieli, è possibile in qualche maniera trarne sostentamento? O in altri termini, mangiarli? Studi di fattibilità in tal senso hanno cominciato timidamente a palesarsi, benché come nel caso delle controparti marine, sia possibile affermare in modo razionale che non siamo ancora al punto di dover cercare approcci tanto alternativi per la sopravvivenza. Non esistono del resto in questo caso dei grandi mammiferi, come balene aerostatiche di un poema surrealista, che agevolmente possano affermare di continuare a sopravvivere grazie al bagaglio dei venti. Ma è del tutto ragionevole immaginare che particolari specie di uccelli poco avvezze a toccare terra con le proprie zampe, come le rondini comuni, abbiano sviluppato la capacità di mantenere aperto il proprio becco per ingoiare intenzionalmente il particolato. Accrescendo, in tal modo, le risorse energetiche di cui possono disporre per il compimento delle proprie lunghe migrazioni celesti.
La vita, in tal modo, si adatta… Ma non può riuscire tutta a farla con gli stessi ritmi. Giacché organismi complessi e dalla durata della vita maggiormente estesa, per loro stessa implicita prerogativa risultano essere maggiormente pesanti. Ed incapaci di costituire nulla più che un vulnerabile bersaglio, per tutti quegli esseri che si sono lasciati permanente il suolo alle spalle. “Lo spazio è il punto di vantaggio strategico definitivo” si soleva a tal proposito affermare, nell’epoca del confronto tra superpotenze capace di corrispondere accidentalmente (ed in modo transitorio) al progresso scientifico della collettività pensante. Un concetto parimenti applicabile alla stratosfera, o troposfera sovrapposte in strati comparativamente ben più permeabili per quanto concerne il prodotto dell’evoluzione e tutto ciò che questa comporta. Poiché la sopravvivenza di nessuno può verificarsi, senza gravare come un peso sulla libertà di altri! E sarà sempre difficile, per chi custodisce le proprie ali innaturali all’interno di un hangar, competere con gli infinitesimali nativi dei cieli.