Cinghiali non eguaglierebbero l’impatto paesaggistico dei pècari sui golf club dell’Arizona

Come l’astronomico frangente di un eclissi planetaria, in cui un corpo celeste attraversa la traiettoria del Sole portando a variazioni inaspettate del tranquillizzante ciclo diurno-notturno, l’invasione di campo da parte di qualcuno può essere sostanzialmente una questione di punti di vista. Chi ha mai detto, in tale ambito, che la coltivazione di significative quantità d’erba all’interno di un clima arido, con conseguente dispendio di quantità d’acqua sproporzionate all’opportunità di far rotolare meglio un certo tipo di palline, dovesse essere un sacrosanto diritto dei cittadini di un particolare stato americano? Ogni cosa, o umano intento di plasmare il mondo a propria immagine, è la derivazione inevitabile del suo contesto. E non è inaudito che fattori trasversali possano riuscire a rovinare la giornata di coloro che si trovano a gestirne l’amministrazione nel quotidiano. Risveglio del presidente del country club Seven Canyons, non lontano da Flagstaff, a nord di Phoenix: una tranquillissima giornata di bel tempo ed ottime speranze per il futuro. Finché non giunge voce, dai primi addetti alla manutenzione, che l’impensabile è riuscito a verificarsi. Dozzine d’entità luciferine, riconoscibili dall’impronta dello zoccolo fesso degli inferi sepolti, hanno oltrepassato le staccionate. E grufolando come belve dell’Apocalisse, hanno rimestato, sollevato, ribaltato le preziose zolle che costituiscono il sangue pulsante dei links. Mentre il timido suggerimento, praticamente automatico da queste parti, di puntare le armi dei fucili all’indirizzo degli intrusi, già si scontra con la problematica realtà dei fatti normativi e vigenti. Poiché i presunti cinghiali o razorbacks (maiali ferali) erano, in realtà, qualcosa di ben diverso. Ovvero gli appartenenti a quella serie di specie a rischio protette da estensive norme contro chiunque abbia l’intento di restringerne il passaggio oppure, Dio non voglia, farne fuori gli esemplari problematici dal proprio soggettivo punto di vista. Non si spara contro il pécari altrimenti detto skunk-pig. Una creatura proveniente dal meridione oltre il muro che sa bene come mettersi a marcare il territorio, conoscendo in modo approfondito l’intero codice delle leggi della foresta. Tranne quella, molto più recente, della proprietà privata ed il rispetto per le attività di giardinaggio e pratica sportiva di eleganti passatempi all’aria aperta. Una mancanza senz’altro comune ad altri tipi di creature dalle dimensioni medio-grandi, che grugniscono alla luna la canzone inconfondibile del proprio popolo necessariamente invadente. Per tutti coloro che credevano, proprio malgrado, di aver posseduto il sacrosanto mandato dell’irrigazione divina. Per poi affrettarsi a rivendicare, come spesso capita, l’accesso e proprietà esclusiva di quanto avevano ri-tinteggiato di verde, dietro il pagamento di tasse opportunamente commisurate al Guadagno…

Il pecari con il collare, meno minacciata tra le specie non ancora estinte, ha visto nondimeno ridursi il proprio habitat in modo esponenziale nel corso delle ultime decadi. Potendo fare affidamento, se non altro, sulle sporadiche aree protette ed i programmi di riproduzione all’interno degli zoo ed altre istituzioni contemporanee.

Molto a lungo, nel frattempo, questi appartenenti alla famiglia tassonomica dei taiassuidi sudamericani furono tenuti a ragionevole distanza dai nativi così come i primi coloni europei provenienti dall’Europa, che presero a chiamarli javelinas per la somiglianza delle loro zanne a punte di lancia, risultando occasionalmente altrettanto pericolose. Armi rivolte, nel presente caso, rigorosamente verso il basso al contrario di quelle possedute dai cinghiali, nonché perpendicolari alla mandibola potendo scomparire totalmente alla chiusura della grande bocca dell’animale. Provvedendo conseguentemente a produrre lo stridente suono che risulta dallo sfregamento contro il resto della dentatura, come affermazione della propria presenza e intento a difendere il territorio. Non che la persona media potesse mancare, a quel punto, di averli già notati a causa dell’odore pungente, diretta conseguenza della ghiandola situata sul dorso, produttrice di una sostanza che questi animali utilizzano per riconoscersi immediatamente a vicenda. Mentre si aggirano, alla ricerca pressoché costante di cibo, in gruppi di fino a svariate decine di esemplari, identificati tradizionalmente con il termine militaresco di squadrons, probabilmente in considerazione delle ordinate formazioni di marcia che tendono ad implementare. Uno dei tratti di distinzione più evidenti tra le due specie maggiormente diffuse: quella del Tayassu pecari “dalle labbra bianche”, che marcia innanzi disponendosi a ventaglio. Ed il più recentemente scoperto e classificato Dicotyles tajacu “con il collare” che preferisce invece muoversi esclusivamente in fila indiana. Conclude il catalogo la terza specie, anch’essa appartenente a un genere distinto del Catagonus wagneri o tagua, un pècari più piccolo situato esclusivamente nella regione del Gran Chaco del Paraguay, che allo scorgere di un pericolo tende a disporsi in cerchio formando un fronte comune impenetrabile. Nonché particolarmente vulnerabile, purtroppo, ai colpi di fucile dei cacciatori di frodo. Poiché molto prevedibilmente, pur essendo difficili all’allevamento per il contegno aggressivo e una certa problematica tendenza all’infanticidio, i taiassuidi furono da sempre inclusi nella dieta delle popolazioni native, sia umane che predatrici. Fin dalla loro migrazione verso sud successiva alla formazione geologica dell’istmo di Panama, risalente al grande interscambio biologico del tardo periodo Cenozoico. Quando gli opossum e il tapiro, tra gli altri, si ritrovarono a scambiarsi i relativi continenti d’origine, per l’occorrenza di condizioni climatiche maggiormente favorevoli alla propria reciproca proliferazione. Se non che anche loro, molti millenni dopo, si sarebbero trovati a fare i conti con i grandi costruttori di prati sconfinati. Là dove sussistevano, in origine, soltanto vaste distese di terra libera e apprezzabilmente isolata.

I javelinas sono creature tendenzialmente aggressive e miopi, che molto spesso si ritrovano accidentalmente ad avvicinare o scontrarsi con l’uomo. Particolarmente temuti dai proprietari di cani, possono se non altro essere percepiti a distanza per via del loro caratteristico odore. Ma non tutti possiedono il buon senso necessario a cambiare strada.

Nelle proprie abitudini come dicevamo per lo più socievoli, il pécari costituisce d’altra parte ancora oggi un animale con buone capacità di adattamento, sebbene proprio queste tendano a metterlo frequentemente nei guai. Assolutamente onnivoro, proprio come i suini a cui assomiglia, partorisce tuttavia una media di appena 2,5/2,7 piccoli a stagione, molto precoci e pronti fin da subito a badare a loro stessi. Particolarmente con l’aiuto della madre molto protettiva, che accompagnandoli alla ricerca di di cibo dopo il tramonto, può dirgli quando rimanere immobili al rilevamento di un pericolo distante, smettendo pressoché istantaneamente di produrre alcun tipo di rumore. Non che in caso di necessità, ella non possa provvedere a difendere fisicamente la prole, come più di un felino di medie dimensioni o coyote si è ritrovato dolorosamente a scoprire in passato, scontrandosi in modo frontale di una genitrice o gli altri membri del suo squadrone.
Per non parlare di un possibile domani, che ormai potremmo definire incombente, in cui una partita di golf potrebbe trovarsi ad essere interrotta, più o meno violentemente, dal passaggio dei colpevoli del terribile sfacelo vigente a Seven Canyons. Una condizione la cui contromisura continuativa nel tempo, consistente essenzialmente nel sistemare e ripiantare l’erba, potrebbe arrivare secondo la stima più ottimistica al costo di 150.000/300.000 dollari all’arrivo della prossima stagione primaverile. Purché i pecari decidano, molto auspicabilmente, di migrare andando in cerca di cibo altrove. non che siano effettivamente tenuti a farlo!

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