Se c’è una costante assoluta di ogni tipico processo naturale, esso è il cambiamento progressivo nel tempo. Niente resta identico a se stesso e già che deve mutare, tanto vale assecondare un potenziale margine di miglioramento. Così il classico elicottero, apparecchio sgangherato e difficile da pilotare, verrà un giorno soppiantato da taxi volanti con quattro, otto o sedici rotori. Droni sovradimensionati, ed altrettanto facili da pilotare. Grazie ai punti multipli di appoggio, rispetto all’intangibile mancanza di un sostegno, che agiscono fornendo gradi successivi di ridondanza. Ma come si dice, la meta finale di qualcuno è il punto intermedio di altri, e così tra gli animali ciò che rappresenta l’espressione più efficiente del volo autonomo sono semplicemente un paio d’ali. Mentre quattro agili zampe, dotate d’altrettante membranose superfici aerodinamiche, non sono altro che un approccio imperfetto alla realizzazione di quel desiderio. Volare, planare, sia pur sempre allontanarsi dalle rigide limitazioni del suolo! Verso un ottimo domani, o via da un problematico presente. Come quello della rana che ha raggiunto il punto più estremo del suo albero da 15-20 metri di altezza. E che ora, voltandosi verso il punto da cui era provenuta, scorge solamente spire, scaglie ed una lingua che saetta minacciosamente: il chiaro segno della propria nemesi, il serpente. Ed allora tutto ciò che gli resta, nonostante i dubbi alquanto comprensibili, è saltare. Conservando almeno una remota possibilità di aver salva la pelle.
È il sistema di caduta controllata del batrace. L’auspicabile planata dell’anuro. Un metodo forgiato in mezzo al fuoco del bisogno, ancorché temprato con il fluido della sopravvivenza. Per cui dev’essere successo, attraverso i molti secoli trascorsi, che innumerevoli membri di una specie simile si siano autodistrutti nel momento dell’impatto. Finché alcuni, dai piedi palmati sufficientemente ampi, non riuscirono ad aver salva la vita. Malamente. Poi in maniere molto più soddisfacente. Ed in fine, con tutta l’efficienza tipica di un pilota preparato sulle traiettorie newtoniane dei corpi. Un “volo”, se vogliamo essere formali, che in effetti corrisponde a un angolo di poco minore dei 45 gradi rispetto ad una semplice caduta verso il suolo. Come quello di un parapendio, se vogliamo.
Questo è ciò che può (e deve) fare la Rhacophorus nigropalmatus, rana arboricola originaria della Malesia, il Borneo e l’isola di Sumatra, studiata e descritta per la prima volta dal biologo belga Boulenger nel 1895. Il quale decise di dedicare il nome della piccola creatura, in considerazione della prima cattura di un esemplare, alla figura del suo esimio collega e contemporaneo Alfred Russel Wallace, che aveva elaborato contemporaneamente a Charles Darwin una propria personale teoria dell’evoluzione. Lunga attorno agli 8-10 cm, comunque sufficienti a renderla la più imponente del suo intero genere Rhacophorus, questa abitatrice gracidante della canopia è in realtà un agguerrito predatore, d’insetti, rane più piccole e persino qualche occasionale uccello, grazie alla capacità di piombargli addosso non vista dall’alto. Per le doti di direzionamento dei propri balzi offerte non soltanto dai grossi piedi ma anche il corpo stesso, piatto ed allargato nonché in grado di assecondare il movimento naturale del vento. Così da muoversi in maniera pienamente controllata, dall’inizio alla fine del proprio arco discendente. Ed è una vista senza dubbio accattivante, quella di una simile presenza volatile, dalla colorazione verde sopra e gialla nella parte inferiore, i piedi colorati, come preannunciato dal nome latino, di evidenti e appariscenti macchie di colore nero. Quasi a sottolineare l’evidente provenienza anatomica della sua forza…
Il che sembrò rientrare fin da subito, d’altra parte, all’interno di un’ideale categoria cui appartenevano anche diverse altre specie di rane asiatiche (R. dennysii, R. maximus…) tra Cina, Laos e Tailandia, inizialmente considerate tutte sottospecie dello stesso gruppo di saltatrici. Finché lo studio dei caratteri principali, unitamente alla composizione genetica dei caratteri di distinzione, non portò all’acquisizione di un concetto pienamente determinante: che il semplice fatto di approcciarsi allo spostamento aereo, per una rana, non è poi una cosa tanto insolita o impensabile. Così da permetterne l’effettiva replica evolutiva, attraverso il verificarsi di una serie di prevedibili circostanze. Tra cui la stessa occupazione di una nicchia ecologica così distante da varie potenziali vie di fuga; e che le rane, per loro implicita natura, ben conoscono dall’ora della nascita e persino prima di quel momento. Determinante, a tal proposito, la menzione del particolare sistema riproduttivo impiegato da queste (e molte altre simili) creature. Che prevede la costituzione nel momento cardine di un vero e proprio nido di bolle, tra i rami più bassi dell’arbusto di residenza, rigorosamente estesi sopra un’accogliente pozza o corso d’acqua trasparente. Ovvero trattasi nello specifico, di un agglomerato attentamente calibrato di saliva, muco ed alte secrezioni, assieme a potenziali ma non necessari pezzettini di pianta. Costruito da ella stessa ed accresciuto qualche volta da multipli esemplari maschi intenti a batterlo con le lunghe zampe, affinché le uova deposte all’interno possano godere della massima protezione, risultando nel contempo pronte ad essere fecondato. Il che apre al concepimento e progressivo sviluppo di un certo numero di girini, che lentamente cresceranno fino all’acquisizione di un grado d’indipendenza superiore alla media. Questo perché nel caso della R. nigropalmatus, tali figli non ancora dotati di zampe vantano un tempo di sviluppo particolarmente lungo e dimensione alla fuoriuscita dalla capsula di fino a 5 cm, ovvero circa la metà o più di un esemplare adulto. Niente male davvero, per futuri piccoli piloti della giungla tropicale! Tutto questo, a meno che una possibile minaccia predatoria si avvicini alla loro culla schiumosa, eventualità al verificarsi della quale, i girini soltanto parzialmente maturi potranno comunque anticipare il grande balzo, verso il limpido e accogliente specchio d’acqua sottostante. In modo tale da esemplificare in anticipo tale irreprensibile fiducia nei confronti della gravità. Ed ancor prima di acquisire quel sistema che potrà riuscire in seguito a fornire più controllo, che poi sarebbero le superfici aerodinamiche più interessanti e atipiche del proprio ambito di provenienza. Osservando le zampe della rana di Wallace riesce particolarmente facile, d’altronde, individuare mentalmente la loro collocazione intermedia tra strumenti perfezionati per il nuoto e dei veri e propri paracadute, forniti di quello stesso tipo di polpastrelli tondeggianti, con parti rigide ed altre più cedevoli, capaci di garantire la capacità d’adesione ai gechi. Per questo al momento dell’atterraggio, il verde volatore potrà fare affidamento sulla presa rapida a contatto con qualsiasi superficie, inclusa quella straordinariamente scivolosa di una foglia bagnata. All’impatto con la quale, l’urto verrà facilmente assorbito dal suo scheletro flessibile, mentre articolazioni particolarmente allenate premono il suo corpo contro tale improvvisata pista d’atterraggio, e non un centimetro al di là di essa. Ogni possibile alternativa, in tal senso, sarebbe in effetti assai sconveniente. Nonché particolarmente indesiderabile dal punto di vista della rana.
Scaltra e funzionale, risulta dunque essere quella saggia e potente mente, che in qualche maniera inconoscibile parrebbe aver determinato la maniera esatta in cui ogni metodo poteva realizzarsi, ciascun possibile sistema raggiungere le più remote conseguenze. Chi avrebbe mai pensato, d’altra parte, che uccelli e rane potessero assomigliarsi ancor di più di quanto fosse concesso dall’occasionale somiglianza dei loro richiami? In un tripudio di elementi tali da tendere a farne, per ragioni simili ma diverse, soggetti altrettanto utili nel mondo internazionale della poesia. Vedi il caso del grande componitore di haiku Matsuo Bashō (1644-1694) che scrisse famosamente, durante una competizione letteraria coi suoi colleghi: “furu ike ya | kawazu tobi komu | mizu no oto” Più volte e in molti modi tradotto, nel tentativo pressoché impossibile di trasferire tale senso di concisione a lingue differenti dal giapponese. Fino a quel magnifico riassunto, assolutamente Zen per stile e metodo espressivo: “Vecchio stagno | rana che si tuffa | Plonk.
E se invece continuasse per un tempo incalcolabile, a trovarsi in bilico nell’interludio volante del suo particolare approccio alla vita? Quali versi leggiadri potrebbero raccontare una simile storia sul finir dell’autunno? Risposte che giacciono, forse, tra il canto del vento. Nel mare e nei campi. Di un cielo terso.