L’impervia esistenza di un abominevole granchio delle nevi

Sostanziale prodotto evolutivo del suo ambiente di provenienza, ogni creatura rappresenta il culmine di una lunga sequenza di fattori, portati a combinarsi per l’effetto di una serie di pulsioni: fame, capacità di proteggersi dai predatori e dagli elementi, desiderio di riprodursi. Vi sono tuttavia casistiche, considerate particolarmente irraggiungibili ed estreme, in cui lo stesso tratto fisico può provenire da realtà del tutto differenti, ovvero punti posti dinamicamente all’estremo dell’ideale spettro tra il probabile e l’assurdo. Deambulando con passo pesante tra le nevi del Circolo Polare Artico, l’essere criptico che il mondo ha sempre definito essere “lo yeti” fonda la sua immagine su un grande numero di avvistamenti brevi e accidentali. Tutti concordanti, ad ogni modo, nell’attribuirgli una pelliccia candida e folta sull’intera forma del proprio corpo, essenzialmente non dissimile dall’ideale barba di Babbo Natale.
Che cos’altro avrebbero potuto scegliere di utilizzare, come nome scelto per associazione metaforica, gli scienziati dell’Istituto dell’Acquario di Monterey a bordo della nave di ricerca R/V Atlantis nel marzo del 2006, quando il sottomarino a controllo remoto facente parte dell’equipaggiamento del battello ed inviato a perlustrare la dorsale Antartica situata a largo dell’Isola di Pasqua scorse, per la prima volta nella storia, la biancastra forma di una massa brulicante di creature? Crostacei decapodi non più grandi di 15 cm ciascuno, come apparivano essere oltre ogni ragionevole dubbio. Benché sembrassero possedere alcuni tratti distintivi tali da distinguersi rispetto a qualsivoglia comparabile creatura; vedi per esempio, la folta e spessa peluria in grado di coprire completamente le loro lunghe chele, che agitavano con fare supponente all’indirizzo della sorgente idrotermale sottomarina, fonte di acqua riscaldata fino alla temperatura di un distante mare tropicale, situata al centro esatto della loro surreale aggregazione sulle sabbie situate a ben 2.220 metri di profondità…
Quale altro appellativo, s’intende, oltre a quello del dio polinesiano Kiwa, usato per la definizione scientifica di quello che doveva costituire chiaramente un nuovo gruppo tassonomico, protettore e guardiano dei mari scelto più che altro per la brevità e l’apprezzabile concordanza fonetica col resto del nome latino. E se non può fare a meno di stupirci, d’altra parte, che una creatura significativa come questi artropodi alieni possa essere stata scoperta solamente nel corso del primo decennio del corrente secolo, nonostante la loro occorrenza e distribuzione giudicate in linea di principio significative, ancor più eccezionale potrà risultarvi fare la diretta conoscenza delle svariate specie cognate scoperte da quel giorno fino all’ora ed il momento storico presente, ciascuna depositaria dello stesso, inusitato ramo dell’albero della vita, e in quanto tale ricoperta di una comparabile peluria candida come le vaste distese della neve siberiana. Un tratto certamente degno di approfondimento perché indicativo, come potrete facilmente immaginare, di una specifica funzione ecologica mirata a garantire, oltre il volgere di epoche remote, la continuativa sopravvivenza dell’animale.

Migliaia e migliaia di granchi, candidi come fantasmi, che si affollano attorno a una singola fonte di calore ed energia. E se questi sono i misteri, rimasti inaccessibili fino all’ultima decade, del nostro affollatissimo pianeta Terra, chissà cosa ci aspetta sotto la superficie ghiacciata del satellite gioviano di Europa…

Scartata quindi l’ipotesi del mimetismo per quanto concerne la fitta peluria di un qualsivoglia appartenente alla famiglia dei Kiwaidae, data l’assenza effettiva di carnivori particolarmente temibili alle remotissime profondità abitate dai pallidi granchi delle nevi, tutto quello che resta come direbbe il caro vecchio Sherlock “è l’impossibile” ovvero la nozione tutt’altro che intuitiva che i suddetti esseri chelati usino i loro peli per lo scopo eclettico ed inusitato di coltivare letteralmente al loro interno la sostanza primaria del loro sostentamento quotidiano. In altri termini batteri estremofili, del raro tipo in grado di sopravvivere in totale assenza di luce prosperando grazie alla diretta sintetizzazione di sostanze minerali, quelle presenti per l’appunto nel getto ascendente della sorgente idrotermale ove si assembrano, aggrappandosi ad essa come letterale macchina irrinunciabile per la loro stessa continuativa esistenza. Ecco spiegato dunque lo strano comportamento di quei primi membri della specie K. hirsuta scoperta nel 2005, intenti a estendere a turno l’una e l’altra chela perfettamente simmetriche nel getto nutriente, poco prima di avvicinarle con movimenti precisi fino ai massillipedi posti in corrispondenza della propria bocca, gli arti usati per raschiare e trangugiare tanti minuscoli e altrettanto nutrienti microrganismi. Così come quello comparabile dei K. tyleri capaci d’unirsi al grande convegno della classificazione scientifica soltanto nel 2010, grazie all’opera dei ricercatori inglesi della RRS James Cook, che ne scovarono una gremita popolazione presso una sorgente sottomarina sui fondali della placca oceanica di Scotia, situata tra la punta dell’America Meridionale e il continente del Polo Sud. Ancora una volta i mari posti al confine stesso dell’esistenza e una notevole profondità di oltre 2.000 metri, per granchi chiaramente imparentati con quelli dell 2005 ma il cui fitto pelo risultava concentrato, invece che sulle chele, unicamente sopra il petto della piccola creatura, con un effetto complessivo tale da giustificare l’adozione dell’appellativo informale di granchi “Hoff” dal cognome attore del vecchio telefilm Baywatch, David “Mitch” Hasselhoff, famoso per l’irsuto aspetto del suo fisico prestante messo in mostra durante gli eroici salvataggi dei bagnini della città di Los Angeles. Caratteristiche comparabili ma collocazione pilifera decisamente meno suggestiva, avrebbero vantato quindi i successivamente scoperti K. puravida (Pacifico orientale tra le isole polinesiane) il K. araone (a sud dell’Australia) e le ulteriori due specie, ancora prive di un nome scientifico, identificate rispettivamente presso le Galapagos e la parte meridionale dell’Oceano Indiano.
Volendo approfondire ulteriormente le poche nozioni di natura ecologica che possediamo su questa notevole genìa di granchi, possiamo quindi limitarci ad osservare come gli esemplari maschi, più grandi, abbiano l’abitudine di posizionarsi il più vicino possibile alle acque calde che fuoriescono dalla sorgente idrotermale, mentre le femmine siano solite tenersene a rispettosa distanza, fino al momento in cui devono deporre le proprie uova, quando si spingono ancora più lontano nelle gelide acque del Circolo Polare Antartico, per andarle a deporre dove la temperatura sembrerebbe dimostrarsi più opportuna a favorire la loro schiusa in condizioni ideali. Nel compiersi di un pericoloso viaggio per l’esemplare adulto dal quale, molto spesso, la madre non riesce più a fare ritorno. Ancora misteriosa risulta essere, di contro, la presenza di una superficie seghettata nella parte inferiore di ciascuna delle due chele possedute dai Kiwaidae, potenzialmente usata per ghermire e fare a pezzi prede dalle dimensioni assai più significative di un comune batterio, benché l’interazione con altre specie artropodi non sia stata ancora osservata da alcuna telecamera inviata fin laggiù.

Interessante come i nomi scientifici delle specie scoperte recentemente sembrino slegarsi enfaticamente dalle regole dell’Accademia, mescolando spesso termini provenienti da diversi idiomi (Pura vida è per l’appunto, spagnolo) pur tentando di rassomigliare, per quanto possibile, alla riconoscibile fonetica della lingua latina.

Che le percezioni date per assunte in merito alla natura siano fatte per essere sfidate, ad ogni successiva occasione di rivalutare tali cognizioni, è perciò una valida e pur sempre pregna osservazione in ogni campo della scienza biologica applicata. La semplice esistenza di esseri come i kiwaidi sembrerebbe sfidare il concetto stesso, tra l’altro, secondo cui decapodi più lunghi che larghi dovrebbero essere delle aragoste, e non dei granchi come scelto in via ufficiosa dai loro eterogenei scopritori attraverso il trascorrere degli ultimi 14 anni. Ma avete mai sentito di altre creature marine ricoperte dalla fitta peluria dello yeti? Chiarendo come nel caso specifico, in effetti, probabilmente non si tratti dell’una o né l’altra cosa. Lasciando la via libera alle più fervide macchinazioni dell’immaginazione umana. Già fonti estremamente valide, in tanti casi disposti attraverso l’incedere della storia, di creature ibride altrettanto eccezionali. Cinghiali-drago, ragni-gallina, orsi-gufo; ed ora vorreste dirmi, al concludersi di questa breve trattazione, che al mondo non c’è posto per un altro avvistamento sotto i flutti dell’abominevole creatura per definizione…

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