Succede a volte che l’aspettativa nei confronti di un evento particolarmente spiacevole si prolunghi tanto a lungo da diventare, per un meccanismo perverso, parte dell’evento stesso. Casi come la possibile estinzione di una specie animale, importante per la nostra cognizione del mondo e della natura e attorno alla quale ruotano infinite iniziative di comunicazione, associazioni ecologiche e proteste popolari, che contrariamente a quello che “dovrebbe” fare, può talvolta continuare a moltiplicarsi. Il che finisce per portare, in modo pressoché diretto, verso uno dei problemi maggiormente orribili a vedersi: la sovrappopolazione all’interno di un habitat ridotto. Che conduce gli animali a precipitare dentro una serie di profondi baratri, come quello degli orsi polari che frugano nella spazzatura, finendo a stretto contatto con gli insediamenti umani e costituendo un pericolo per chi ci vive, finché qualcuno comprensibilmente non decide d’impugnare il fucile. Oppure, se possibile ancor peggio, gli stessi candidi e famelici predatori che irrompono in gruppo, eventualità già contro natura, presso uno degli ultimi tratti di costa rimasti a disposizione per il riposo stagionale dei trichechi. Portando questi ultimi ad assembrarsi verso il margine della scogliera, finché uno di loro, per lo meno agli occhi dalla vista corta dei suoi simili, non sembra aver trovato il modo di fuggire: un ultimo sforzo, sulle forti pinne, per tornare istantaneamente verso il mare. Un balzo in avanti, e poi giù, verso il trionfante baratro della liberazione. O almeno, così sembra…
Ora parlandoci chiaro, nessuno è certo di quale sia stato l’effettiva ragione che ha portato un intero branco di queste enormi e magnifiche creature, durante le riprese del documentario con la voce del grande naturalista televisivo Attenborough prodotto per Netflix “Our Planet” a compiere l’orrido e sconsiderato gesto. Benché il programma stesso, per affinità tematica e sentita associazione comunicativa, abbia deciso di associarlo alla questione quanto mai ad ampio spettro del riscaldamento terrestre. Connessione alquanto logica questa, sebbene indiretta, che sembrerebbe procedere nel seguente modo: lo scioglimento dei ghiacci riduce il territorio disponibile per il riposo dei trichechi, il che li porta ad affollarsi presso spiagge troppo anguste per la quantità in cui si presentano a visitarle. Il che, in funzione della nota territorialità dei maschi dominanti, costringe alcuni di loro a spingersi faticosamente verso l’entroterra e per una crudele casualità del destino, la sommità della scogliera. Peccato che a seguito di quel momento, del tutto incapaci di comprendere la precarietà della propria posizione, subiscano il richiamo della fame che li porta a ritornare verso le onde agitate dell’accogliente mare. Percorrendo proprio la via più breve ed in funzione di ciò, letale…
Questa specifica interpretazione, che almeno personalmente non trovo mutualmente esclusiva e inconciliabile con quella ursina, è quindi stata ferocemente difesa dalla filmmaker e volto del documentario Sophie Lanfear, dopo l’attacco inaspettato da parte dalla celebre naturalista canadese Susan J. Crockford, autrice del libro “La catastrofe degli orsi polari che non è mai avvenuta” (marzo 2019, The Global Warming Policy Foundation) la quale attraverso i più recenti anni di una lunga e stimata carriera accademica, ha dedicato il proprio prezioso tempo a una puntuale raccolta d’informazioni statistiche ed esperienze dei nativi, per dimostrare come la situazione di conservazione della specie Ursus maritimus non sia poi così drammatica come certe iniziative, tra cui la famosa diffusione della foto con l’esemplare emaciato dell’anno scorso, vorrebbero portarci a credere. Il che risulta certamente opinabile per il tipo di reazioni che potrebbe portare nel pubblico (meno indignazione nei confronti dell’industria inquinante, minor supporto agli accordi internazionali di natura ecologica…) Ma per quanto ne sappiamo potrebbe, cionondimeno, corrispondere a verità. Come esemplificato da casistiche simili a quella ampiamente sottolineata dalla Cockford e in qualche modo associata alla sequenza delle riprese, avvenuta proprio nel periodo in cui la troupe di Netflix stava girando il documentario, della terribile battaglia di Ryrkaypiy, nella regione siberiana orientale di Chukotka. La quale contrariamente a tanti altri conflitti combattuti nella storia della Russia, non ha coinvolto gruppi sociali umani bensì un’intera colonia di trichechi, attaccati durante il proprio riposo tra un tuffo e l’altro proprio da un gruppo di 20 plantigradi del colore preferito dalla Coca-Cola, finendo quindi per “fuggire” nella maniera sopra descritta e precipitando rovinosamente giù dalla scogliera. Al che ha fatto seguito, come titolò in maniera memorabile il Siberian Times, a un lungo e terrificante assedio delle persone all’interno delle loro case, circondate per giorni dal gruppo di famelici carnivori privati del loro ponderoso pasto.
Un’associazione secondo alcuni estremamente appropriata, al punto che esiste una teoria secondo cui l’evento mostrato in video, il cui luogo di svolgimento è stato per qualche ragione mantenuto segreto, possa essere proprio quello avvenuto in quel frangente presso il villaggio da circa 700 anime di Ryrkaypiy, successivamente manipolata e montata ad arte per indurre una reazione di tipo emotivo nel vasto pubblico di Netflix. Come del resto esiste un’ulteriore ipotesi, ancor più accusatoria, che vedrebbe la disastrosa fuga dei grandi mammiferi marini come dovuta al rumore prodotto dai droni impiegati per girare il documentario stesso, il che risulta comunque improbabile dato lo scarso udito ed ancor minore capacità visiva (sulla terraferma) dello zannuto Odobenus rosmarus, vittima inconsapevole delle circostanze. Ciò detto e considerata la posta in gioco, i toni della conversazione hanno iniziato ha farsi fin da subito piuttosto accesi.
Così ha più volte affermato la sconvolta ed enfatica documentarista Lanfear , dinnanzi ai giornali e nelle numerose interviste rilasciate da quel momento, che un membro della produzione posto di vedetta per avvisarli nel caso in cui gli orsi polari avessero minacciato la loro posizione che neanche l’ombra di tali animali si fosse profilata al di sopra o dietro l’alta scogliera senza nome. Il che, volendogli attribuire la più assoluta sincerità (e non vedo perché non farlo) potrebbe anche non essere del tutto risolutivo: dopo tutto esistono, a questo mondo, le sviste. Ed in ogni caso, vorrei reiterare, cambia davvero qualcosa? Nessuno ormai sembra più pensare che il tipico documentario sulla natura sia il frutto di scoperte momentanee ed accidentali, con le telecamere sempre posizionate nel punto “accidentalmente” migliore per riprendere il predatore in caccia, illustrandone perfettamente i comportamenti. Il che, purché non siano state le persone stesse ad indurre la contingenza (il che nel presente caso, come dicevamo, risulta estremamente improbabile) non ha davvero la benché minima importanza. Il riscaldamento terrestre porta i trichechi a lanciarsi dalle scogliere? Pessima cosa. Ci sono troppi orsi polari in proporzione allo spazio rimasto a loro disposizione, piuttosto che pochi e moribondi, come comunicato dai media internazionali? Anche peggio. Una società responsabile, a questo punto, dovrebbe comunque intervenire e se possibile, nello stesso identico modo. Peccato che l’enorme conglomerato del consorzio umano non sia condotto da un’unica mente propensa a cambiare idea, bensì dalle ragioni spesso conflittuali d’infinite opportunità di guadagno. Il che si applica, allo stesso tempo, alle grandi e malefiche aziende produttrici di gas pesanti, come a tutti coloro che “proteggendo” un qualcosa grazie al collettivo sdegno, intendono soprattutto prolungare l’estendersi dell’angosciante Evento.