L’alveare umano sospeso tra il Kenya e l’Uganda

Ogni economia basata su una singola risorsa è destinata a raggiungere, prima o poi, un punto di rottura. Questo tende a verificarsi la maggior parte delle volte quando tale particolare via d’accesso alla sopravvivenza economica, per una ragione o per l’altra, sembra essere prossima all’esaurimento. Ma c’è un’altro modo in cui la condizione degli umani coinvolti può iniziare la ricerca di un margine di miglioramento: una diffusa condizione di povertà. Quando persino arrivare alla fine del mese, senza patire la fame, appare più difficile che intraprendere una folle avventura, cercando di modificare lo status quo. Secondo una delle versioni della storia, i primi ad agire in tale senso da queste parti furono Dalmas Tembo e George Kibebe, pescatori kenyoti che, stanchi di essere trattati come dei mendicanti dai compratori di pesce sulle coste orientali del lago Victoria, scelsero di trasferirsi con armi, canna da pesca e bagagli, in uno dei più inaspettati, e solitari dei luoghi: l’isolotto roccioso di Migingo, vasto all’incirca 2 Km quadrati e situato in mezzo ad acque dall’appartenenza territoriale incerta.
Fermiamoci per un attimo a considerare questo punto, assolutamente fondamentale per l’analisi dei fatti: è noto che i confini odierni delle diverse nazioni d’Africa, perfettamente perpendicolari l’uno all’altro, furono stabiliti a tavolino dai potentati europei, durante la conferenza di Berlino del 1884, l’evento di politica nazionale che diede i natali tra gli altri, per mano del re Leopoldo II del Belgio, al terribile covo d’iniquità noto come stato “libero” del Congo. Ora coloro che realizzarono una simile suddivisione, piuttosto che essere esperti geografi o studiosi delle faccende antropologiche, erano principalmente capi di stato, diplomatici o sovrani, ai quali interessava soltanto l’equa distribuzione degli spazi per le ambizioni coloniali di questo o quell’altro impero. Molte delle linee di demarcazione, dunque, furono fatte passare attraverso barriere invalicabili del territorio, come catene montuose, o tagliarono il corso dei fiumi noncuranti del loro tracciato serpeggiante. Ed una, in particolare, scelse la via più insensata: poggiare in maniera noncurante sopra le acque del più grande lago tropicale del mondo, rinominato nel 1858 sulla base di niente meno che la regina Victoria, dopo che John Hanning Speke l’aveva “scoperto” durante la sua ardua missione alla ricerca delle leggendarie foci del fiume Nilo. Con il risultato che almeno tre piccole terre emerse, in una simile distesa d’acqua paragonabile per estensione ai Grandi Laghi americani, si trovarono esattamente in bilico sul filo di un così tagliente rasoio. Esse erano, e sono tutt’ora, Migingo, Usingo ed Ugingo, quest’ultima anche nota come “Isola Piramide” a causa della natura scoscesa del suo territorio. Per molti, moltissimi anni, non importò praticamente a nessuno. Finché a partire dal 1991, tutti coloro che erano scontenti delle loro condizioni di vita sulla terraferma, non iniziarono a guardare con interesse a quei due pionieri, che avendo scelto di lasciarsi dietro amici e parenti, erano andati a vivere come eremiti nel mezzo delle acque lacustri internazionali. Così che dopo qualche tempo, attorno alla capanna in lamiera corrugata che si erano costruiti costoro, iniziò a nascere una piccola comunità. I vantaggi per chi viveva su Migingo erano chiari ed immediati: zero spese per l’alloggio, meno controllo da parte delle autorità, più distanza tra se e gli elementi poco raccomandabili della società. Secondo un’altra interpretazione di questa insolita vicenda, del resto, l’isola non iniziò ad essere popolata fino al 2004, quando Joseph Nsubuga, pescatore proveniente dall’Uganda, si stabilì quaggiù, trovando nient’altro che una singola casa abbandonata, oggi trasformata nel principale bar della comunità. Capire chi ha o meno ragione nella specifica debacle storico-coloniale, tuttavia, potrebbe o meno avere rilevanza per la questione, quando una moderna squadra di rilevamenti territoriali, presumibilmente super partes, ha determinato come Miginge si trovi effettivamente ad Est del confine kenyota, risultando quindi una parte inscindibile di questo specifico paese africano. Ecco perché l’importanza di determinarlo, nonostante le apparenze, si è fatta negli anni sempre più pressante: fra tutte le zone in cui è possibile pescare il prezioso pesce persico del Nilo (Lates niloticus) pare che nessuna sia migliore di quella antistante l’isola. I circa 200 pescatori che l’abitano, inoltre, sono stati sufficientemente furbi da crearvi un sistema pseudo-istituzionale di acquisto e rivendita sulla terraferma del pesce, con prezzi imposti che favoriscono, in ultima analisi, la serenità economica dell’intera comunità. Quando si considera tuttavia come le acque in cui si trova l’agognato pinnuto siano per lo più ugandesi, con conseguente risentimento degli abitanti di quelle terre, comprenderete come un’effettiva suddivisione delle compentenze non sia affatto semplice da elaborare. E ciò nonostante l’affermazione dei loro vicini del Kenya, secondo cui “Il pesce persico viene a riprodursi sulla costa orientale, dunque appartiene principalmente a noi.”

La questione territoriale dell’isola di Migingo può essere immediatamente compresa osservando i confini dei due paesi. Cosa avrebbe potuto permettere prima dell’invenzione dei satelliti, sulla superficie di un lago, di determinare quale sia il punto perpendicolare ad una linea di demarcazione nazionale?

Il primo capitolo di questo contenzioso territoriale, probabilmente il più strano del mondo, ebbe luogo a giugno del 2004, quando la polizia marittima ugandese, giunta a sorpresa sull’isola, piantò una tenda sulla spiaggia con la bandiera della propria nazione. Negli anni seguenti, rappresentanti delle autorità del Kenya avrebbero fatto lo stesso a più riprese, benché il loro dispiego di uomini e mezzi fosse destinato a rimanere, in ciascun singolo caso, assai meno impressionate. Con il risultato che, per gli abitanti di Migingo, la vista degli ugandesi in divisa ed armati di tutto punto, sarebbe gradualmente diventata assai comune, nonostante il diffuso risentimento nei loro confronti. A febbraio del 2009, quindi, le autorità ugandesi stabilirono che tutti coloro che non avevano la loro stessa nazionalità avrebbero dovuto pagare per un cosiddetto permesso speciale di lavoro, una sorta di visto che gli avrebbe permesso di continuare a vivere sull’isolotto. Un’imposizione che questi ultimi avrebbero visto, a partire da quel momento, come una sorta di affitto dovuto all’autorità. O conto da saldare per una protezione mai richiesta. Di certo si trattava di una situazione iniqua. Ma forse meno superflua quanto saremmo tentati a pensare.
Chiunque guardi verso Est o Sud dalle coste di Migingo, in effetti, potrà vedere le già citate altre due isolette del vicinato lacustre, Usingo ed Ugingo, entrambe notevolmente più spaziose e nonostante questo, del tutto prive di abitanti. Quando interrogati in merito i pescatori locali affermano con tono più o meno serio che simili territori, nonostante le apparenze, siano occupati da uno spirito maligno, che lo stesso Nsubuga, a quanto pare anche un esperto stregone, avrebbe scacciato al momento del suo insediamento sull’isola. Wikipedia afferma, del resto, che il terreno delle stesse sia semplicemente troppo scosceso per costruirvi delle abitazioni, anche se basta un rapido sguardo alla sovrappopolata Migingo, per rendersi conto di come la condizione topografica non sia poi così diversa. Una possibile ragione, dunque, forse la più probabile di tutte, è stata scoperta da Peter Scott dell’agenzia tedesca Ruptly, protagonista del documentario mostrato in apertura di questo articolo. Il quale intervistando gli abitanti, in realtà piuttosto amichevoli ed espansivi, si è sentito spiegare come questa particolare zona del lago Victoria sia da tempo fatta oggetto di scorribande da parte di svariati gruppi di pirati e rapinatori. Così che era frequente, fino a pochi anni fa, che un pescatore venisse malmenato o persino ucciso soltanto per rubare il motore della sua barca, assieme ai pochi beni che poteva avere con se. Tutto questo finché le autorità del Kenya e l’Uganda, nel tentativo di accaparrarsi le competenze territoriali, non iniziarono a far stabilire le loro forze di tutela dell’ordine pubblico sulle claustrofobiche coste del singolo isolotto più densamente popolato dell’Africa intera.

La vista del porticciolo dell’isola risulta piuttosto impressionante, con un’ampia selezione di barche nonostante la palese povertà di mezzi. L’intero nesso della faccenda, a quel punto, inizia a farsi davvero evidente.

Dal punto di vista architettonico ed urbanistico, Migingo assomiglia più ad un organismo vivente, che al prodotto razionale della mente e la creatività umana. Così come altri luoghi nei diversi paesi e momenti della storia, vedi ad esempio la città murata di Kowloon, le favelas di Rio de Janeiro o Santa Cruz in Colombia, il micro-cosmo che si è spontaneamente creato in questo luogo sembra aver perseguito in primo luogo i meriti dell’autosufficienza. Così la piccola città circondata dall’acqua, tra le sue numerose casette di lamiera (il documentario di Ruptly la chiama “L’isola vestita di ferro”) ospita servizi normalmente tipici di luoghi molte volte più grandi di lei. C’è un vero e proprio pub-ristorante, dove i locali si riuniscono per guardare la partita e presso cui è possibile, dietro il pagamento di pochi scellini, lasciare il cellulare a ricaricarsi. Vicino al quale sorgono svariati “hotel” in realtà poco più che scatole di ferro rese incandescenti durante il giorno dal sole, presso cui trovano alloggio i pochi, coraggiosi residenti temporanei di questo luogo. Uno dei momenti più interessanti del servizio di Peter Scott è la sua intervista di Ishmael, l’unica figura di medico/farmacista dell’isola, che assolve anche alle mansioni di sacerdote cristiano, con tanto di chiesa presso cui predicare la domenica ai suoi concittadini. Nonostante quello che si potrebbe pensare, tuttavia, costui non riceve alcun tipo di aiuto dall’esterno, gestendo la sua attività in completa autonomia. Non mancano tra le residenze poi servizi di pubblica convenienza, come un barbiere, l’emporio e si, anche un paio di “case di piacere autogestite”. Considerata l’usanza locale secondo cui soltanto gli uomini possono andare a pescare, purtroppo, non ci sono molti altri modi in cui le donne prive di una famiglia avrebbero potuto sopravvivere quaggiù.
La questione territoriale, mai messa veramente in disparte, si ritrovò al centro dei pensieri di tutti quando una delegazione con il Ministro del Territorio kenyota James Orengo, giunta sull’isola per confrontarsi con il Vice Primo Ministro ugandese Eriya Kategaya, paragonò nel discorso ufficiale i poliziotti d’Uganda su Migingo a delle vere e proprie “iene”, minacciando di inviare ulteriori uomini armati per rinforzare l’idea. Ma i presidenti delle rispettive nazioni, preoccupati di non far precipitare le relazioni per un territorio così insignificante nello schema generale delle cose, hanno in seguito usato toni più concilianti, tentando in qualche maniera di lasciar sfumare il conflitto. Al centro di tutto questo, ad ogni modo, i pescatori non sembrano curarsi granché della questione internazionale. A loro basta che sia concesso di continuare ad esercitare la propria professione, sotto l’egida protettiva di uomini in uniforme, qualunque sia la loro provenienza. Fatto sta che negli ultimi tempi, forse nel tentativo di ritrovare un po’ di pace e serenità, è iniziata a circolare una voce nuova: per ragioni incomprensibili, magari connesse al mutamento climatico, i pesci persici del lago Victoria si stanno esaurendo. Uno dopo l’altro, gli abitanti dell’isola dovranno tornare sulla terraferma, per adattarsi di nuovo ad un cambio di professione. Nulla caratterizza le genti d’Africa, del resto, più che la capacità di adattamento e la fluidità. Soltanto il tempo saprà dimostrarci, in ultima analisi, il futuro di questo luogo unico al mondo.

Lascia un commento