L’estenuante lago del colore delle alghe e del sale

Situato sulla punta estrema del Senegal, a poca distanza dalla città di Dakar, il lago Retba è un luogo in grado di catturare gli sguardi dal primissimo istante: non soltanto per la sua collocazione a ridosso dell’Oceano Atlantico Settentrionale, con soltanto una striscia di dune sabbiose coperte da una doppia linea di alberi filao (Casuarina equisetifolia) a dividerlo dalle onde, con gli strani cumuli biancastri che risplendono in corrispondenza dell’altra riva. Quanto piuttosto, per via del carattere vagamente surreale di questo luogo, inteso come variazione cromatica della sua stessa superficie: associata convenzionalmente al fiore degli innamorati per eccellenza, benché sembri tendere talvolta a un rosso non particolarmente acceso, l’arancione solare o persino un semplice marrone intenso. Questo perché, per quanto incredibile possa apparire, caratteristica fondamentale dello strano punto di riferimento è quella di variare regolarmente il suo tono, soprattutto in funzione del capriccio di un singolo, pervasivo ammasso di esseri viventi: le micro-alghe simili a batteri chiamate dalla scienza Dunaliella salina, capaci di secernere copiose quantità di beta carotene soprattutto durante la stagione secca, col fine principale di difendersi dai raggi ultravioletti, principale ostacolo alla loro crescita e sistematica propagazione. In aggiunta ad un secondo nemico, quasi altrettanto grave, che poi sarebbe proprio una significativa concentrazione di sale. Il che non può fare a meno di stupire, visto e considerato come questo particolare habitat acquatico, inteso come tutti e tre i chilometri quadrati del lago Retba, risulti graziato dalla maggior concentrazione naturale di tale sostanza nota, ad eccezione del ben più massiccio bacino idrico del Mar Morto.
Una cifra percentuale superiore talvolta al 40% dell’intero contenuto minerale delle acque, abbastanza da far galleggiare spontaneamente un corpo umano del tutto incapace di nuotare, ma non di fermarne l’immersione volontaria fino ai circa 3 metri del suo fondale più distante, con al seguito attrezzi come bastoni di legno e una vanga dal bordo affilato. Perché, dunque, i giovani abitanti del Senegal dovrebbero immergersi in una simile brodaglia simile al sangue di un defunto animale preistorico messo in salamoia? La risposta, forse per nulla sorprendente, è che ne hanno bisogno per sopravvivere. Dal punto di vista finanziario, prima di tutto, in funzione della rivendita su scala continentale e pan-africana del prodotto forse maggiormente rappresentativo di questa intera regione, un’espressione del condimento più importante della storia rinomata per il suo gusto intenso e l’essenziale capacità, soprattutto in terre dalla dotazione tecnologica così limitata, di preservare a lungo termine il cibo. Ecco spiegato, dunque, il succitato susseguirsi di cumuli biancastri semi-pulviscolari, ciascuno contrassegnato dalla coppia d’iniziali di un diverso raccoglitore, prima di essere processato e sottoposto al processo di purificazione che precorre l’immissione relativamente redditizia verso il moderno mercato internazionale. Tutti egualmente alti, ciascuno frutto della stessa faticosa progressione diurna, da ogni singola alba al successivo tramonto dell’astro solare…

I copiosi cumuli di sale attorno al lago riescono a donargli, talvolta, un aspetto marcatamente ultramondano e lunare. Ciò detto, è stato stimato come proprio l’eccessivo sfruttamento di questa risorsa potrebbe un giorno inficiare la continuazione di una simile industria.

Affermare che il lavoro d’estrazione del sale dal lago Retba possa essere usurante, dunque, non esaurisce neppure il primo capitolo della questione. Come esemplificato dall’opera procedurale dei circa 2.500/3.000 operatori che a partire dalla stabilizzazione di questa industria avvenuta tra gli anni 1996 e 2005, sono giunti oggi a produrre una quantità attorno alle 38.000 tonnellate l’anno di sale, vendute per circa il 60% in territorio locale ed esportate all’estero per la rimanente parte, Europa inclusa. Operatori tradizionalmente tutti di sesso maschile che, prima di avviarsi verso il centro del rosseggiante specchio d’acqua con le loro piccole imbarcazioni a remi, devono aver cura di cospargere il proprio corpo della sostanza simile a burro estratta dalle bacche della pianta di karitè (Vitellaria paradoxa) al fine di contrastare la qualità corrosiva di queste acque iper-salmastre, oltre a scongiurare escoriazioni dovute alla natura frastagliata del sottostante fondale. Da loro percosso, in maniera sistematica, con dei lunghi pali simili a quelli del gondoliere veneziano, finché l’udito non permetta di rilevare l’avvenuto distacco di una crosta sufficientemente grande di sale. Al che dovrà far seguito, prontamente, l’immersione e relativo pescaggio mediante pala di vanga, fino al riempimento della sezione di scafo corrispondente a un’intera giornata di lavoro. Saranno quindi soprattutto delle donne, sempre secondo la convenzione, a scaricarne il contenuto una volta tornati a riva, prima di sottoporre il sale al setaccio per rimuovere le impurità, inclusi pezzi d’alga, sassi e fanghiglia. Passaggio a seguito del quale, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il sale del lago Retba non è ancora pronto ad essere confezionato. Questo perché, poco tempo dopo di remoti anni ’70 in cui ha avuto inizio una simile industria, gli abitanti del posto hanno scoperto una maniera “segreta” per far incrementare il valore del loro oro bianco di fino al 50%. E questo grazie a una semplice procedura che noi abitanti dell’emisfero Settentrionale siamo soliti dare, ormai, per scontato: sto parlando, se non fosse già sufficientemente chiaro, del processo chimico della iodizzazione. Ovvero l’approccio, scoperto ed implementato per la prima volta su larga scala a partire dagli anni ’20 dello scorso secolo, attraverso cui al comune sale da cucina (che sia di provenienza marina o sotterranea) viene aggiunta la giusta quantità dell’elemento alogeno dal numero atomico 53, ovvero lo iodio, precedentemente creato da una miscela industriale di ioduro di potassio e solfato rameico. Processo potenzialmente inquietante per chi dubiti delle alterazioni del cibo a prescindere, eppure alla base di una così significativa parte del nostro benessere di cittadini moderni, almeno quanto l’addizione del fluoro nelle acque pubbliche, proprio perché capace di fornire all’organismo umano uno degli ingredienti più ardui da reperire attraverso una dieta che possa dirsi, a tutti gli effetti, completamente naturale. Ed è proprio tale funzione che sarà possibile attribuire, nei video inclusi a corredo di questo articolo, alla strana serie di macchine situate attorno ai cumuli di asciugatura del sale, usati a turno dai diversi nuclei familiari intenti a dar seguito a questa industria, a fronte della loro collocazione in-situ grazie ai fondi provenienti almeno in parte da un ampio ventaglio di programmi di finanziamento internazionali (UNICEF, WFP, NGO, GAIN…) e con la finalità di migliorare la nutrizione di ampie fasce della popolazione africana, con conseguente aumento del benessere e della durata della vita su scala globale.

L’aggiunta dello iodio (sostanza completamente insapore) al sale, un processo industriale ben preciso che non può prescindere da dotazioni tecniche contemporanee, viene oggi considerato uno dei processi più importanti, ancorché poco discussi, tra quelli necessari a mantenerci in salute.

Particolarmente privo di onestà intellettuale e logica sarebbe, una volta preso atto dell’insolita condizione locale, negare la maniera in cui molte delle persone coinvolte direttamente nella raccolta sistematica del sale più famoso del Senegal conducano un’esistenza difficile fin dalla giovane età, frutto di un’approccio disfunzionale alle dinamiche sociali che caratterizza molte regioni d’Africa nell’attuale situazione economica internazionale. Come ben sappiamo, una delle massime fonti d’iniquità vigenti. Detto ciò e quanto meno, sarà opportuno notare come sia stata proprio la ricerca di un guadagno ulteriore a far deviare i protagonisti di un simile palcoscenico verso l’implementazione di procedure potenzialmente benefiche per loro stessi, i propri connazionali e vicini più prossimi, tramite l’adozione di quel processo additivo frutto della scienza moderna, di matrice per lo più europea.
E per dovere di cronaca, non c’è assolutamente alcun collegamento tra il colore quasi-vermiglio delle acque del lago Retba, dovuto alle microalghe, e quello tipico della tintura di iodio, disinfettante inventato nel 1908 dal medico e politico risorgimentale Antonio Grossich. Tonalità bordeaux donata, in quel caso, non dalla presenza dell’elemento identificato col simbolo “I” bensì dalla formazione dello ione triioduro, causa l’aggiunta necessaria di un buon 5% di ioduro di potassio. E neppure una traccia, benché minima, di vegetazione subacquea d’origine africana. A meno che a farne uso, per mera necessità transitoria, si ritrovino ad essere proprio i pescatori del lago rosa del Senegal, per trattare i tagli e le escoriazioni causati da un così spietato fondale.

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