Il dedalo atomico sotto il ghiaccio della Groenlandia

Sotto diversi punti di vista, sembra quasi una storia tolkeniana della Prima o Seconda era. I nani avevano costruito una macchina di oricalco ed ossa di drago, in grado di produrre energia virtualmente infinita. Ben sapendo quindi che molto presto, la guerra contro gli elfi sarebbe inevitabilmente arrivata, essi avevano scavato nel cuore della montagna, dove avevano costruito le loro fucine per produrre armi e armature magiche, in grado di prevalere in battaglia. Per anni, ed anni, le loro fucine continuarono a battere nelle viscere stesse del mondo. Ma essi non sapevano che la fonte stessa della loro industria era corrotta e malevola per definizione, poiché andava contro il volere di Eru Ilúvatar, il sommo creatore. Così, una frana catastrofica ostruì il passaggio, mentre l’intero popolo lasciava la possente fortezza, per tornare a vivere in superficie. Ma prima o poi, lo spettro di Moria li avrebbe chiamati indietro… A questo punto, chiariamo l’analogia: siamo negli anni ’60 del 900, e i nani sono gli americani. Gli elfi, a questo punto è automatico, niente meno che l’URSS. L’oricalco è il cemento armato, e le ossa di drago, l’uranio. E per quanto concerne la macchina miracolosa…. Non è ovvio? Un generatore nucleare. Portatile, niente meno! Il primo e l’ultimo che sarebbe mai stato, effettivamente, utilizzato sul campo. Fatta eccezione, a voler essere pignoli, per quelli integrati nei sommergibili e le portaerei naniche e dopo tutto, una certa corrispondenza c’è: perché Camp Century (la Base del Secolo) aveva lo scopo di trasformare un’intera terra emersa in nave da guerra. L’isola più grande, e settentrionale del mondo. Ora, potreste sapere o meno che la Groenlandia, contrariamente a quanto appare dalle mappe che distorcono notevolmente la realtà in prossimità dei poli, NON è affatto grande più dell’Australia, né pari al doppio dell’altezza del Nord America intero. Ma sono pur sempre 2.166.085 Km quadrati di pietra e ghiaccio collocati a fare da ponte tra America ed Eurasia, talmente inospitali da contenere appena 56.000 abitanti, per lo più inuit ed altre genti semi-nomadi ancora legate agli allo stile di vita dei loro antenati.
Dal punto di vista geografico, fino ai tempi recenti, un vuoto strategico inutile a qualsivoglia funzione militare. Finché il concetto di guerra stesso, a seguito del secondo conflitto mondiale, non cambiò per l’avanzamento della tecnologia. Con l’invenzione dei primi bombardieri a lunghissimo raggio, ma anche di missili intercontinentali in grado di radere al suolo un’intera città. Quando d’un tratto, gli Stati Uniti di Truman si resero conto che proprio lì, fra tutti i luoghi possibili, avrebbero dovuto porre le loro basi più avanzate. Il che costituiva un problema, poiché la Groenlandia, fin dall’epoca coloniale, costituiva un paese costituente all’interno del regno di Danimarca. Paese alleato eppure, non troppo vicino da un punto di vista delle alleanze militari. Nel 1946, dunque, l’amministrazione presidenziale fece quello che avrebbe fatto qualunque altro capo del singolo paese più forte e influente nel Mondo Occidentale. Durante una visita del ministro degli esteri danese nel 1946, il segretario USA fece un’offerta formale di 100 milioni di dollari per l’isola della Groenlandia. Che fu, per tutta una serie di ragioni, rifiutata. Intanto perché la Danimarca usciva, in quegli anni, da un lungo periodo di occupazione tedesca, e teneva più che mai a mantenere solidi i propri confini. E poi, soprattutto, non volevano aumentare ulteriormente l’ostilità dell’altra parte, dopo che i russi avevano dovuto lasciare per i trattati internazionali di pace l’isola nel Mar Baltico di Bornholm. L’affare, dunque, non si fece. Ma come nel caso odierno degli accordi sul clima di Parigi rifiutati da Trump, questo fece ben poco per influenzare effettivamente gli eventi della storia. Poiché vigeva necessariamente in Groenlandia, come in taluni altri luoghi remoti del mondo, la regola fondamentale della frontiera: chi per primo giunge, meglio alloggia. E l’effettivo stato dei rapporti di potere, giammai avrebbe permesso ai danesi di rifiutare lo spazio per “installazioni di ricerca” e “stazioni meteo” da gestire in maniera congiunta con gli americani. E se poi al paese d’Europa fosse mancato il personale tecnico da inviare fin lassù, nessun problema: avrebbero pensato a tutto loro. Fu un processo lento ma inesorabile. Finché, nel 1957, la svolta: per la prima volta, nella zona controllata dagli USA giunsero 27 persone non più appartenenti ad istituzioni scientifiche, bensì effettivi membri dell’esercito, con l’incarico di rispondere a una domanda nuova: sarebbe stato possibile costruire una base sopra e all’interno del permafrost, da cui puntare una metaforica pistola verso il cuore stesso degli elfi, dall’altra parte del mare? In prima analisi, perché no, ed in ultima analisi, certamente. Così nacque il sito II, nome in codice Fistclench (la “stretta del pugno”) scavato nei ghiacci eterni grazie a un formidabile nuovo tipo di macchinari svizzeri, dal nome di Peter Snow Miller. Era l’inizio di una delle serie di eventi più strane, e terribili, di tutta la storia del Circolo Polare Artico…

Una delle lezioni apprese grazie all’esperimento di Fistclench, abbandonato dopo soli tre anni e considerato comunque un successo, fu che i tetti di un’installazione sul permafrost avrebbero dovuto essere estremamente resistenti, per contrastare il continuo accumulo di ghiaccio e neve.

Fin dall’era della guerra calda, gli Stati Uniti già disponevano di una base aerea all’estremo margine occidentale della Groenlandia, presso il promontorio di Thule, da cui far partire i propri aerei, in caso di necessità, verso i territori europei. Ma il prototipo Fistclench e la sua successiva realizzazione del successivo Camp Century furono qualcosa di diverso, dallo scopo rimasto per lungo tempo rigorosamente top secret. Soprattutto il secondo, costruito con gran visibilità mediatica nel 1960, e lo scopo dichiarato di “Testare la fattibilità di una grande base militare tra i ghiacci eterni.” Soprattutto in funzione di un qualcosa di straordinario, il cui nome era PM-2A: il generatore nucleare portatile a base di uranio 235. Energia infinita, calore infinito! La più perfetta realizzazione del sogno generazionale dell’atomo, piegato al volere irresistibile dei generali… Il 10 luglio di quell’anno, dunque, l’apparato in grado di generare due megawatts fu smontato presso la Alco Products, Inc. di Schenectady, New York e caricato su un incrociatore militare presso il porto di Buffalo, da dove partì verso la Groenlandia. Alcuni componenti furono nel frattempo caricati su degli aerei C-124 Globemaster, tanto per dimostrare la fattibilità dell’idea. Quindi una volta raggiunto l’obiettivo, in un periodo di 77 giorni l’esercito lavorò alacremente per metterlo nuovamente assieme e farlo funzionare. Ed a quel punto la fiamma si accese, e la vicenda entrò nella sua fase più epica e al tempo stesso, febbrile.
Scavando in profondità nella calotta artica, i militari installarono una pompa riscaldante in grado di scavare un’enorme caverna tra i ghiacci, generando quantità d’acqua più che sufficienti alla mera necessità. A seguito di una serie di test, quest’ultima fu giudicata potabile, e fornita alle truppe senza alcun tipo di limitazioni. Scavarono quindi una serie di corridoi e stanze in grado di ospitare oltre un migliaio di persone, inclusive di caserma, sala mensa ed ospedale, ma anche servizi non essenziali quali una cappella, una biblioteca e sale hobby di vario tipo. Gli scienziati in loco, nel frattempo, iniziarono una serie di esperimenti di carotaggio ed analisi delle profondità glaciali, svelando una serie di dati che tutt’ora, costituiscono un prezioso corpus d’informazioni sullo stato ambientale ed ecologico del nostro pianeta, valido a comprendere più a fondo il fenomeno del mutamento climatico. Nelle viscere della base, tuttavia, venivano poste le basi di un qualcosa di assai più inquietante, rimasto segreto fino alla metà degli anni ’90. Un piano di proliferazione atomica dal nome in codice di Project Iceworm (il Verme di Ghiaccio).

Vista dall’alto, la base di Camp Century ricorda notevolmente quella del pianeta Hoth all’inizio del secondo film di Guerre Stellari. Non è in effetti per nulla impossibile che George Lucas, all’epoca sedicenne, avesse seguito con interesse le notizie dall’alto grado di visibilità su questa nuova frontiera della scienza e della tecnica americane.

Del Verme, naturalmente, nessuno parlava e nessuno, ufficialmente, sapeva. Almeno finché nel 1968, a seguito di un incidente aereo che portò allo smarrimento di un missile nucleare nei pressi della base di Thule, il parlamento danese non chiese ed ottenne di svolgere un indagine più approfondita sulle attività statunitensi in Groenlandia. Lo stesso folle progetto rimase nei fatti ad un livello ipotetico, benché le risorse per metterlo in atto fossero state attentamente valutate e messe da parte. Si trattava, essenzialmente, di scavare dei tunnel sotterranei nel giaccio per un’estensione di 4.000 Km, all’interno dei quali sarebbero stati nascosti 600 esemplari di una nuova versione, più corta e trasportabile, dei missili nucleari Minutemen. Simili armi, definite Icemen, dislocate e spostate a intervalli regolari nel sottosuolo, avrebbero costituito una minaccia costante pronta a scattare nel caso di guerra nucleare, perennemente puntati verso il nemico russo ad una distanza geografica decisamente ridotta, rendendo molto più difficile un’ipotetica intercettazione. L’intera base, a quel punto, avrebbe occupato un territorio di 130.000 Km quadrati, pari a niente meno che tre volte la Danimarca. L’ipotesi venne attentamente pianificata. I progetti stilati e firmati. E tutto sembrava pronto, se non che…
Per tornare alla nostra analogia tolkeniana, è sempre possibile, scavando nelle viscere di un pianeta, che ci si ritrovi a diretto contatto con qualcosa d’innominabile e dimenticato, una presenza demoniaca in grado di annientare l’esistenza. Ma nel caso di Camp Century non avvenne nulla di tanto tragico ed improvviso. Semplicemente, si scoprì che i calcoli erano stati fatti male. Quelli relativi, niente meno, che al progressivo scioglimento dei ghiacci artici, che portarono in breve tempo a spropositati sommovimenti dell’area occupata dalla base. Praticamente ogni settimana, a partire dalla metà del 1963 (tre anni dall’inizio del progetto) molte tonnellate di ghiaccio e neve dovevano essere rimosse dall’interno delle aree comuni, mentre i complessi interventi di consolidamento pesavano sul budget pagato dai contribuenti in patria. Lo stesso generatore nucleare PM-2A, ormai semi-sepolto e comunque superfluo visto l’effettivo consumo d’energia della base, venne spento ed abbandonato. Dopo una serie di analisi e piani collaterali, dunque, arrivò la decisione: abbandonare immediatamente il complesso, assieme all’idea ancora embrionale del mega-bunker segreto nel sottosuolo. E secondo le precise regole dell’uomo e della natura, dunque, così fu.
Ma questa storia, purtroppo, non è finita. Ben pochi potrebbero pensare in effetti che, all’esecuzione dell’ordine, l’esercito si sia effettivamente preoccupato di ripulire il disastro ambientale in fieri causato dal loro breve exploit. Considerate ad esempio, tanto per cominciare, che all’epoca era considerato normale scaricare l’acqua radioattiva prodotta dai generatori nucleari nei ghiacci cosiddetti “eterni” confidando nell’esaurimento della sua mezza-vita prima del loro scioglimento. Oggi sappiamo, ovviamente, che un simile approccio non può essere considerato in alcun modo sicuro. Il vero problema, tuttavia, sarebbero le enormi quantità di bifenili policlorurati (PCB) sostanze chimiche usate in grande quantità verso la metà dello scorso secolo nella produzione di vernici, materiali di costruzione ed elettronica, oggi completamente dimenticati e sepolti sotto molte decine di metri di neve. Si ritiene infatti, e ciò non è affatto una teoria, che essi abbiano ormai liberato il loro venefico contenuto, e che una volta che il mutamento climatico sia giunto al punto di liberarli, possano avere conseguenze niente meno che apocalittiche sulle condizioni ecologiche del grande Nord. Un epilogo decisamente triste, e remoto, per la tragedia di una guerra fredda di nome e di fatto, ma che tutt’ora pesa sulla storia dell’uomo. Ed è in fondo proprio questa, la natura del vero Balrog sputafuoco della miniera dei nani. Tolkien probabilmente alla sua epoca, da veterano quale era della prima guerra mondiale, questo futuro già lo intuiva. Ma difficilmente la sua soluzione di un viaggio epico ed avventuroso potrebbe servire, nella realtà dei fatti, a farci tornare nelle grazie di Eru Ilúvatar.

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