È successo recentemente, anche se non se n’è parlato molto. Chissà poi perché. Verso l’inizio del 2017, i ricercatori inglesi del progetto MIDAS, volando a bordo di aeromobili dall’alta autonomia, si sono recati a controllare la situazione di un luogo per loro molto familiare, sulla sottile striscia di terra emersa che si estende nel bel mezzo del mare di Weddel, da capo Longing fino all’isola di Hearst. Per scrutare con i loro stessi occhi qualcosa di terribilmente preoccupante: che la lunga e sottile crepa nel continente, ormai sotto osservazione da parecchi anni, si era ampliata in maniera esponenziale. E che il momento del distacco, oramai, appariva quanto mai vicino.
Nessuna sfera è perfetta ed immutabile nel tempo, questione assolutamente vera anche per la più grande su cui ci sia capitato di appoggiare i nostri piedi, il dinamico, diseguale, ormai inquinato pianeta Terra. Ma c’è un elemento che hanno tutte quante in comune: il marchio di fabbrica nel punto per così dire “posteriore” (inferiore?) dell’intera faccenda, una sorta di tappo con il logo del produttore, oppure toppa decorata che riporta il nome del team. Così la nostra accogliente palla azzurra, naturalmente, non fa eccezione. La stimmata che la caratterizza è tuttavia diversa dal normale, poiché piuttosto che rispondere alle stesse norme costruttive del resto della sua crosta pietrosa, si trova in un posizione che non viene facilmente raggiunta dai raggi del Sole. Ed ci appare per questo, come interamente ricoperta di ghiaccio. Ovvero il più piccolo, gelato ed inospitale di tutti i continenti emersi, adatto unicamente alle forme di vita pinguinesche, qualche foca, uccello e le forme di vita immerse sotto la superficie increspata di un mare senza coste ravvicinate. Che tuttavia, non può fare a meno di dividersi, nel punto in cui lo spazio qui descritto vede l’estendersi di un avamposto, tra le più particolari ed importanti penisole trovate sul mappamondo, perché sembra andare incontro alla Terra del Fuoco, costituendo quindi, una sorta di coda distaccata dell’intero continente Americano. Si tratta di Graham Land. Della Palmer Peninsula? La Tierra de San Martín? Di nomi, ne ha parecchi. Così come sono molte le stazioni di ricerca che vi trovano posto, battenti bandiera dei paesi più diversi, ciascuno dei quali formalmente convinto ad avere il diritto di rivendicare questi luoghi a vantaggio esclusivo del suo presidente, re o regina, direttore generale e così via. Mentre la realtà è che molto presto… Potrebbe esserci un significativo qualcosa in meno da conquistare; con l’imminente evento, lungamente atteso ed assai giustamente temuto, dello staccarsi del più grande iceberg che il pianeta abbia conosciuto a partire dal termine dell’ultima glaciazione, subito seguìto dall’andare a fondo di una parte considerevole del materiale geologico costituente il Polo Sud, con conseguente aumento incontrollabile del livello medio degli oceani, di una cifra difficile da stimare. Ma quante piccole isole del Pacifico scompariranno entro i prossimi 10 anni…Quante spiagge torneranno al ruolo primigenio di fondali conquistati da aragoste, mentre gli abitanti di città vicine meditano se sia il caso di fare le valige e scappare via…
La questione della piattaforma galleggiante Larsen, suddivisa in tre sezioni ed altrettanti capitoli diversi, ebbe inizio nel 1995, con il ripetersi di un disgregarsi ciclico della sua sezione A, verificatosi nella storia geologica locale all’incirca ogni periodo di 4.000 anni. Trattandosi della parte più settentrionale in assoluto del Polo Sud, questo evento non ha causato grandi preoccupazione. Voglio dire, strano che dovesse succedere proprio ora, giusto? Proprio quando un gruppo di “allarmisti immotivati” vanno ripetendo il grido collettivo d’allarme in merito al riscaldamento terrestre! Davvero, la natura ama prendersi gioco di noi. Ma le cose hanno iniziato a farsi più serie nel 2002…
La parte della piattaforma ghiacciata definita Larsen B era rimasta stabile, a quanto ne sappiamo, per l’intero periodo dell’Olocene. Il che significa, in altri termini, circa 12.000 anni di ghiaccio stabilmente attaccato alle dorsali della penisola, senza alcun accenno di cedimento strutturale. Finché nelle ultime decadi, per l’insistente erosione causata dalle correnti d’acqua riscaldata provenienti dal remoto Settentrione, non iniziò a formarsi una crepa simile a quella osservata dagli scienziati lo scorso gennaio, con un progressivo aumentare dell’instabilità sistematica, osservabile su un periodo pressoché immediato. Trascorsero quindi all’incirca un paio di settimane, mentre l’acqua di superficie penetrava in profondità tra le fessure della piattaforma, per ricongelarsi all’interno formando una sorta di cuneo. Quando all’improvviso, il fatto non poté che giungere a compimento: una serie di lastroni di ghiaccio, per un totale di 3.250 Km² e uno spessore medio di 220 metri, iniziarono la loro lunga crociera nei mari del Sud, alla ricerca di un luogo dove squagliarsi e scomparire. Sulla base delle osservazioni effettuate, tuttavia, gli studiosi non ebbero alcun dubbio: l’evento, benché favorito dal riscaldamento terrestre, era fondamentalmente una funzione naturale di processi glaciali pendenti, che avrebbero dovuto trovare sfogo comunque, prima o poi. La questione residua relativa all’area della piattaforma denominata Larsen C, tuttavia, potrebbe essere più grave.
Innanzi tutto perché si tratta della sezione più grande della stessa, estesa per un territorio di circa 6.000 Km2 , con un estendersi lineare della nuova crepa per un totale di 110 Km, e una profondità di 500 metri. La sezione di ghiaccio liberata negli oceani dal nuovo episodio previsto entro il termine del 2017 dovrà quindi costituire, senza il benché minimo dubbio, la più grande mai documentata nel corso della storia umana. Ma questo non sarebbe, di per se, un grandissimo problema. Il ghiaccio in questione era infatti già tenuto a galla dall’acqua, facendo parte per l’appunto di una piattaforma, e gravando quindi con la sua massa considerevole sul livello complessivo dei mari. No, il problema è un altro, molto più grave: la sua speciale condizione geografica di agire da “tappo” su uno dei ghiacciai più antichi ed ingenti del pianeta, il quale potrebbe in conseguenza iniziare a scivolare irrimediabilmente verso le profondità. Causando un’ondata sulle nostre spiagge che per quanto ne sappiamo, potrebbe non ritirarsi mai più.
Comprendere le dinamiche, ma soprattutto le ragioni di un simile processo, appare oggi più fondamentale che mai. Perché vige questa diffusa cognizione, a dire il vero non sempre del tutto inesatta, per cui tanto più un cambiamento di stato è possente, maggiore risulti essere il tempo necessario a vederne le conseguenze. Con il derivante luogo comune, secondo cui le conseguenze dell’effetto serra dovranno essere sperimentate unicamente dai nipoti dei nostri nipoti, e i loro nipoti dei nipoti etc. Quando in effetti, non è sempre detto che debba necessariamente andare così. Disse un saggio: le forze necessarie per un grande mutamento non sono sempre visibili, ma possono accumularsi nel profondo, costituendo un nucleo energetico pronto a sprigionare in un attimo la sua intera possenza. Un nucleo, oppure una crepa. Nella sostanza stessa che garantisce il nostro benessere, consentendo le ragioni stesse dell’esistenza. Almeno per questa volta, gli scienziati più pessimisti stimano, al massimo, un aumento della superficie media degli oceani di circa 10 cm. Ma in TUTTO il MONDO! E chi può davvero dire quale sarà il pezzo di Polo Sud a seguire quest’ultima gigantesca vittima, in occasione del prossimo catastrofico evento…
Spegnere la luce, non usare eccessivamente il riscaldamento o l’aria condizionata, acquistare un’automobile con sistema di propulsione ibrido… Non c’è molto altro che possiamo fare. Tranne prendere coscienza dello stato delle cose e fare la pace con transitorietà dell’esistenza umana. Il prossimo grande diluvio potrebbe non essere una punizione divina. Bensì quella che abbiamo inflitto a noi stessi, nella ricerca della nostra massima espressione tecnologica e industriale.