Cosa c’entra il sughero con le palle da tennis?

Tennis Balls

Si è recentemente giunti alla conclusione, osservando attentamente il mondo per come in effetti appare, che nonostante le apparenze non viviamo all’interno di un’epoca dell’abbondanza. Il cibo è insufficiente, l’energia costosa, l’acqua limitata e i materiali frutto dell’industria sempre più rari e preziosi. Ma è la storia ad insegnarci come, proprio nei momenti di maggiore crisi, l’opulenza mostrata in determinati contesti tenda ad aumentare a dismisura, generando dei contrasti delle situazioni che potrebbero stupire i più. Come quella dei patrizi che organizzarono sontuosi banchetti fino a pochi giorni prima del sacco di Roma, o ancora l’orchestra del Titanic che ritenne giusto non fermare il suono della festa, fino allo spalancarsi delle fauci del Profondo che ogni cosa avrebbero condotto all’entropia. Così mentre il mondo è a rotoli, qualcos’altro nel frattempo rotola, con enfasi esiziale e un assoluto senso di disinteresse per le scarsità del nostro tempo: quante palle servono per un torneo di tennis? Ad oggi, a quanto pare, 98.000. Ebbene si, non sto affatto esagerando. Questa è la precisa cifra dichiarata ufficialmente dalla ESPN, il principale network televisivo americano dedicato al mondo dello sport, a margine del qui presente video, realizzato con il patrocinio della Wilson Sporting Goods, l’azienda multinazionale, presso il loro stabilimento di produzione sui confini di Bangkok. L’occasione: il prestigioso US Open, quarta delle sfide che fanno parte del Grande Slam. Una visita davvero…Affascinante. Coronata dalla visione nebulosa di un ipotetica città, come El Dorado, le cui strade sono lastricate di palle da tennis, le pareti degli edifici costruite in mattoni gialli ricoperti di feltro e addirittura le persone, ogni qualvolta devono fare rappresentanza, indossano abiti in gomma vulcanizzata. Una terra ancor più tematicamente uniformata del Regno Mariesco dei Funghi…
E invece, guarda, è tutto vero. Giacché simili ordini per quantità spropositate, nell’odierno mondo dell’industria, non sono viste in alcun modo come inappropriate. Fornendo, piuttosto, l’energia e l’argentovivo ad un intero meccanismo, formato da macchine, apparecchiature, persone. Ovverosia gli anelli, rigorosamente consequenziali, di quell’unica filiera che viene chiamata la catena di montaggio. Per cui non importa, se l’ordine in uscita sia di 10 o 10.000 palle; perché ogni giorno, doverosamente, se ne produce sempre il MASSIMO, e l’intera collezione viene poi inviata ai richiedenti. Chiunque siano, dovunque essi si trovano. Non è meraviglioso, tutto ciò? Ed anche molto bello a vedersi. Tutto inizia, nel video prodotto dal filmmaker Benedict Redgrove, con la gomma che arriva in fabbrica divisa in balle, del peso variabile tra 30 e 115 Kg. Tale sostanza, quindi, impastata come il pane e poi appiattita manualmente, viene inserita all’interno di un duplice rullo, al fine di renderla perfettamente piatta ed uniforme. Il prodotto viene quindi estruso per creare un certo numero di ammassi dalla forma pressoché trapezoidale, ciascuno dei quali destinato a diventare un’emi-cupola, costituente la metà esatta del nucleo interno del prodotto finito. Forma che ciascun oggetto riceverà grazie ad uno stampo a caldo, non poi così dissimile dalla teglia giapponese per fare il Takoyaki, bocconcino sferoidale con ripieno di polpo. La cottura in questa prima fase dura 90 secondi e raggiunge i 320 gradi. Se non che a questo punto, inevitabilmente, la gomma in eccesso avrà formato una sottile lamina tra una mezza sferetta e l’altra, definita in gergo il flash. Per rimuoverla senza possibilità d’errore, dunque, verrà usata una pressa idraulica dotata di attrezzi da taglio, in un processo parzialmente manuale che proseguirà con la deposizione di ciascun mezzo prodotto su dei rulli ricoperti di colla, concepiti in modo da ricoprire i bordi appositamente resi ruvidi con la giusta quantità di adesivo. È importante notare, a questo punto, come la mano degli esseri umani sia e rimanga una primaria forza operativa nella fabbrica della Wilson, che pur potendo almeno in teoria perseguire un maggior grado di automazione, preferisce non farlo. Le ragioni sono molteplici, e doverosamente inclusive della creazione di un certo numero di posti di lavoro, validissima missione in terra d’India. Ma c’è anche da dire che, allo stato dei fatti attuali, sia in effetti meno costosa la manodopera locale che la costruzione di avanzati, e ancor più complessi, apparati utili soltanto a fare palle da tennis in enorme quantità!

Tennis Ball Packing
Anche l’impacchettamento ha una primaria importanza, come esemplificato da questo video della SAMA Engineering. Le palle da tennis non sono infatti a perfetta tenuta d’aria, e dopo un paio di mesi dopo l’estrazione dalla confezione sigillata, persa una parte della loro capacità di rimbalzo, cessano d’essere regolamentari.

Giunti a questo punto, i due pezzi del nucleo della palla vengono di nuovo inseriti nello stampo, mentre un altro addetto controlla che la colla sia stata applicata correttamente. Lo sportello quindi si chiude, e le metà divengono tutt’uno. Il processo di chiusura, come sua prerogativa, non può prescindere dal pompaggio di una certa quantità d’aria compressa all’interno del solido così formato, con il fine di favorire un grado di rimbalzo adeguato: per le palle da tennis, la pressione idonea si aggira attorno ai 18 psi. Già, ma come viene ottenuto, un simile valore, all’interno di questa specifica fabbrica della Wilson? Il video non è chiarissimo in merito ed esistono due opposte modalità: in alcuni casi, è la macchina stessa che realizza la chiusura a pompare l’aria nella palla, attraverso l’impiego di una speciale guarnizione che tiene fuori l’atmosfera. In altri, invece, il nucleo viene chiuso con una certa quantità di nitrato di sodio e cloruro di ammonio al suo interno. Le due sostanze, quindi, mescolandosi generano nitrogeno, in una quantità specificamente calibrata per portare lo spazio alla giusta pressione. Ora, gli sferoidi così formati vengono inseriti in una vera e propria piccola betoniera rotante, dalle pareti ruvide come carta vetrata. Basteranno dunque alcuni minuti al suo interno, per creare una superficie diseguale perfettamente adatta alla disposizione della colla biancastra che si occuperà di far legare il nucleo con la sua parte esterna. Perché adesso, viene il bello: in un’altro stabilimento o per lo meno capannone, infatti, diversi macchinari hanno tagliato dei grossi panni di feltro nella forma d’innumerevoli fagioli o cerotti che dir si voglia, detti in gergo “ossa per il cane” appositamente concepiti per poter avvolgere del tutto lo sferoide gommoso della palla. Questi potranno essere bianchi, arancioni o gialli, benché la colorazione preferita sia proprio quest’ultima, per la sua dimostrata capacità di risultare più visibile sopra gli schermi della Tv. L’incollaggio che fa seguito all’unione tra le due forniture costituisce, di nuovo, l’opera di addetti rigorosamente umani, che per portarlo a termine impiegano delle apposite piccole presse, quindi restituiscono le loro creazioni al flusso inarrestabile del nastro trasportatore. A questo punto, la palla ricoperta viene nuovamente riscaldata, in modo da far indurire la mistura di gomma bianca e colla all’interno, che resterà visibile nell’area delle “cuciture”. E per finire, sulle palle verrà apposto il logo della Wilson, tramite l’impiego di un sistema meccanizzato con stampa trasferita a caldo. Dico, vi rendete conto? C’è ogni giorno una persona in questo processo operativo, il cui lavoro consiste unicamente nel ruotare tutte le palle nello stesso senso, affinché il processo vada al suo coronamento estremamente necessario. Benché, resta importante notarlo, ciascuna delle persone coinvolte cambi spesso di ruolo e posizione della filiera, affinché non sopraggiunga per lui la noia, madre di ogni errore.
Eppure, sorge il dubbio, possibile che sia stato sempre così? Non è esistito a questo mondo un “prima” in cui l’opera di prepararsi ad un torneo di racchette era forse meno efficiente, ma decisamente più conforme alla dimensione umana… Ecco, il tennis è uno sport moderno. Ma alla presa di coscienza dei fatti, non COSÌ moderno!

Real Tennis Balls
Scott Blaber, dell’università di Cambridge, ci mostra come viene creata una palla da tennis fatta alla vecchia maniera. Il grado di concentrazione e sapienza tecnica richiesta sono decisamente superiori alla media.

Come molti già sapranno, l’origine remota di un tale gioco può essere fatta risalire a quello della pallacorda o trincotto (jeu de paume) che il re francese Luigi X (1289 – 1316) aveva reso popolare nel suo paese, per la sua preferenza nel praticare un qualche tipo di gioco sportivo al chiuso, piuttosto che nel cortile dei suoi sontuosi palazzi. Lo stesso termine moderno riferito al gioco, tennis, potrebbe essersi evoluto dalla locuzione francese tenez, che significa “Prendila!” Gridata da chi effettuava il servizio all’avversario. Ma la competizione, allora, prevedeva che la palla fosse colpita con il palmo aperto, e ci sarebbero voluti ancora più di un secolo affinché, durante il regno dell’inglese Enrico V (1413–22) ed anche e soprattutto del suo famoso successore dalle molte mogli, Enrico VIII (1509–47) in Europa s’imponesse una versione del gioco che prevedeva l’impiego di apposite racchette, e che in qualche maniera iniziava ad assomigliare alla nostra attuale visione delle due metà campo, una rete, un certo numero di game e set. Il che presupponeva, ovviamente, l’impiego di qualcosa di ben più complesso di un’ammasso di stracci legati assieme, l’originario pegno scambiato dai due giocatori, dando i natali alla prima vera palla tecnologicamente concepita per rimbalzare il più possibile su superfici piane. Un qualcosa che, in maniera alquanto sorprendente, viene ancora prodotta quotidianamente in un numero limitato di luoghi al mondo, affinché la versione del gioco risalente alla vecchia Inghilterra, oggi definita “real” tennis (perché veniva giocata, appunto, dai re) possa essere ancora praticata dagli appassionati.
E la visione della prassi è un qualcosa che davvero, apre gli occhi. Come dimostrato da questo vero e proprio artigiano della palestra storica dell’Università di Cambridge, il nucleo di queste palle è costituito da un sacchetto cucito di feltro, ovviamente non pieno d’aria, ma di un qualcosa di totalmente differente: il sughero tritato. Ed è qui che Scott Blaber, il nostro Virgilio in un simile viaggio di scoperta, ci narra con entusiasmo dell’anno di magra in cui lui e i suoi colleghi, non riuscendo a procurarsi una fornitura adeguata del sempre più raro materiale, si fossero dovuti applicare nel bere una quantità adeguata di vino ed altri alcolici, al fine di disporre dei tappi da tritare in nome del loro beneamato sport. Quale nobile sacrificio! Che stupefacente dedizione! Va del resto specificato come, mentre le palle da tennis moderne vengano normalmente buttate via al termine del loro ciclo di operatività (che come dicevamo, è tra l’altro piuttosto breve) uno di questi ammassi di segatura, ben legato e ricoperto, possa facilmente durare fino a 10 anni. Cosa che non può invece dirsi della superficie esterna di feltro, tradizionalmente creata in tessuto di Melton, proveniente dall’omonima cittadina del Leicestershire, la quale dovrà essere ri-applicata dopo soltanto qualche settimana d’utilizzo.
Ma la differenza resta, necessariamente, palese: un conto è disfarsi di una tale pseudo-stoffa di origine animale, per sua natura biodegradabile e sostenibile, un altro farlo con l’incubo post-industriale di un agglomerato di colla, gomma e altre sostanze velenose. Costituente una vera, piccola bomba ambientale, dal riciclo estremamente difficile e costoso. Appare quindi vero, almeno in questo specifico caso, come affermano alcune correnti ambientaliste, che in altri tempi eravamo più coscienziosi. Benché la rapidità dei nostri servizi piatti fosse, ahimé, molto inferiore a quella di un falco in picchiata. E questo non soddisfaceva, pressoché, nessuno…

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