L’odissea intraoceanica degli aracnidi volanti

Dalle più profonde foreste sudamericane ai deserti della Via della Seta. Dalla Valle della Morte fino alle vette della cordigliera andina. Nella pianure siberiane, negli atolli del Pacifico ricoperti di guano. Ragni, ragni, ragni a profusione. Con gli occhi segmentati e con l’addome peloso, con le zampe che s’intrecciano e complesse ragnatele, concepite per poter bloccare mosche, vespe ed altri insetti volatori. Ragni sulla schiena, nei calzini, ragni nei capelli e sulla lingua addormentata. Ma se l’evoluzione è veramente un sistema di tipo aperto, in cui le specie trovano uno spazio grazie alla capacità di adattamento ai fattori ambientali, allora come mai è possibile che luoghi tanto differenti abbiano dato i natali alla stessa tipologia di creature? Quale disegno superiore ha percepito la necessità di porre ovunque, ovvero qui, là ed altrove, connotando i nostri sogni di un sinistro brulichìo silente… Oppure, forse, la spiegazione è da cercarsi in altro luogo.
In una ventosa mattina di primavera, dentro l’edificio ormai da tempo abbandonato, iniziano a schiudersi le uova. La madre, allegramente vedova (poiché suo marito se l’era fagocitato) sovrintende alle complesse operazioni, mentre con riflessi vigili e i puntini rossi sulla schiena, sinonimo di morte ultra-veloce, dissuade ogni possibile tipologia di predatori. Nessun destino del tipo “appetitose tartarughine sulla spiaggia”, qui. Se proprio è il caso, sarà LEI a mangiarli. Uno dopo l’altro, i suoi figlioli percorrono il più lungo filo della nursery, per andare quindi a risalire l’alto muro perimetrale, verso una finestra soprastante. Raggiunto l’apice quindi si fermano, apparentemente a meditare. La madre li guarda con orgoglio, cominciando lentamente a muoversi verso i ritardatari, i cheliceri spalancati per eliminarli da un pool genetico dal pregio sopraffino. Ben sapendo, mentre mastica, che i fratelli più veloci e scaltri, in realtà, non giacciono in attesa. Essendo invece intenti a tessere una serie di fili straordinariamente sottili, invisibili persino per lei. Attaccati non al muro, né alla grondaia e neppure al ramo di quell’albero antistante. Bensì all’aria stessa, ovvero, al vento, che uno dopo l’altro, inizia a trascinarli. E via con essi, la progenie intera, il cui peso non è nulla in confronto all’impercettibile viscosità dell’aria. È la prassi del ballooning, questa, la [costruzione] di mongolfiere, un termine in realtà inesatto poiché i ragni neonati non impiegano palloni, bensì fibre e solamente quelle. Più che abbastanza, nella maggior parte dei casi, per il loro fondamentale obiettivo: disperdersi, alla maniera dei semi defecati dagli uccelli migratori. Ora la questione, per un ragno, è notevolmente più complessa. Poiché un artropode, per quanto piccolo, non può attraversare indenne l’apparato digerente di un rondone. Quindi egli sceglie di diventare lui stesso, un rondone.
Crederete forse che io stia esagerando. Eppure considerate questo: nella storia della navigazione oceanica, esistono casi documentati di marinai pronti a giurare che le loro vele si erano riempite, nel corso della notte, d’intere famigliole di ragni, nonostante essi fossero pronti a giurare che erano totalmente assenti al momento in cui avevano lasciano il porto. Il che, a pensarci bene, può avere una sola possibile spiegazione: essi erano giunti, per un puro caso, fin lì trascinati dal vento. È stato dimostrato da numerosi studi di aerodinamica, che un ragno in volo può raggiungere l’altezza di 1 o 2 miglia, essenzialmente paragonabile a quella di un aereo di linea, attraversando facilmente gli oceani che dividono i continenti. La sua propagazione è perfetta, il suo controllo, un po’ meno. Ma quando mai garantirsi la sopravvivenza è stato importante nello schema generale delle cose, per delle specie che producono centinaia, se non migliaia di figli nel sublime attimo della riproduzione…

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Bled, un lago da sogno nel cuore d’Europa

In Slovenia esiste una leggenda che parla della collera della natura e di coloro che vivono a stretto contatto con essa, perfetti alleati contro l’avanzare spregiudicato della modernità. La cronologia di questo evento, così come i personaggi coinvolti, si perdono nelle nebbie del tempo, come anche l’originario narratore, molto probabilmente appartenente alla tradizione orale, che trasmise per primo l’eccezionale vicenda. Secondo costui arrivò un’epoca in cui le personalità nobiliari della zona al confine con l’Austria, nei pressi della catena montuosa Caravanche, si erano impossessate di alcuni terreni usati dagli abitanti del posto per far pascolare le pecore e in determinate occasioni, celebrare importanti ricorrenze con delle danze. Ingiuriati da tale sopruso, quindi, gli uomini e le donne di Bled si radunarono nella piazza del paese, per pregare intensamente nella speranza di ottenere la propria liberazione. Ma a rispondere ai loro richiami, inaspettatamente, non fu la vergine Maria bensì l’antica dea pagana Živa, che prima ancora di raddrizzare un torto, pensò all’ora della vendetta: chiamato il grande ghiacciaio dalla cima del monte Pokljuka, lo fece scendere a valle poi lo squagliò, causando un’ondata di marea capace di spazzare via i possedimenti indesiderati. Allo scopo di risparmiare l’abitazione di un vecchio particolarmente bonario, tuttavia, l’acqua deviò attorno a un singolo promontorio, formando l’isola al centro del lago che resiste tutt’ora. La versione scientifica di un simile evento, invece, lo colloca nella Preistoria, facendo riferimento a una discesa naturale dei ghiacci in forza del mutamento climatico, poi deviati dalla presenza monolitica della possente roccia, successivamente considerata sacra dalle originarie credenze slave. Fatto sta che nella narrativa del lago Bled, è esistito alle origini un tempio, presso cui venivano portate le pecore per essere benedette. Successivamente quindi, con l’arrivo della cristianità, l’isola centrale avrebbe acquisito la sua struttura più pittoresca, una chiesa arcaica risalente al XII secolo, ulteriormente ampliata nei secoli successivi nei due stili gotico e barocco, ricevendo l’ulteriore connotazione di una torre in pietra candida alta ben 56 metri.
E le meraviglie di questo luogo, da molti anni meta turistica d’eccezione, non si fermano certo lì: senza ancora entrare nel merito del favoloso aspetto paesaggistico, simile a quello di taluni laghi glaciali nei dintorni delle Alpi nostrane, sono molti gli aspetti attraverso cui traspare la lunga ed articolata storia della regione. Tra cui il castello medievale, costruito a strapiombo sul lago, appartenuto a partire dal 1004 al vescovo di Bressanone, cui ne aveva fatto dono l’imperatore tedesco Enrico II in persona (973 – 1024) per l’aiuto ricevuto nel pacificare la sua regione dell’Italia settentrionale. Un luogo in cui l’ecclesiastico non scelse mai di soggiornare, donandogli un aspetto marcatamente marziale, con alte fortificazioni e torri, nella sostanziale assenza di sale sontuose o luoghi di svago. Nel tardo Medioevo, quindi, fu costruito anche un fossato, allo scopo di proteggerlo da eventuali invasioni dei francesi.  Nel 1809 finalmente, dopo quasi 800 anni di governo da parte dei vescovi di Bressanone, il castello fu trasferito alla proprietà statale e l’intera regione inclusa nell’impero di Napoleone, sotto la denominazione di provincie dell’Illiria. La situazione non sarebbe durata, con una restituzione entro soli quattro anni all’imperatore austriaco Francesco II d’Asburgo-Lorena. Con l’abolizione ufficiale del sistema feudale soltanto 10 anni dopo, quindi, l’organizzazione sociale del regno sarebbe cambiata drasticamente, mentre i villaggi riscoprivano un’autonomia dimenticata. Fu a partire dalla società costituita in quegli anni, che un ricco industriale, Viktor Ruard, avrebbe acquistato i terreni nel 1858, causando una privatizzazione che sarebbe durata fino agli anni ’60 dello scorso secolo. Quando il pittoresco paese di Bled, finalmente ricevuta la qualifica normativa di comune, ha finalmente acquisito il suo ruolo di primo piano nelle guide turistiche distribuite nel mondo, diventando una meta privilegiata di chiunque decida di trascorrere il proprio tempo in Slovenia.
Così che il turismo, si sa, è una fondamentale risorsa. Che permette di dare spazio a tradizioni ritenute dimenticate, creando tutta una serie di punti di riferimento nuovi e importanti per la popolazione. Uno di questi, per Bled, fu fin da subito di tipo gastronomico: sto parlando della caratteristica torta millefoglie Kremna Rezina, ripiena di crema e ricoperta di panna montata, servita nella forma di fette quadrangolari e la cui consumazione si dice debba portare fortuna, oltre a stimolare piacevolmente il palato. Il secondo aspetto è più complesso, e si collega al luogo di culto che impreziosisce l’isola, gettando la sua ombra sulle acque del lago…

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L’arido mistero dei nani dell’Anatolia

Il piccolo popolo, la congrega sepolta, la gente del sottosuolo, i fabbri degli Dei. Per tutte le diversità che sussistono tra le culture dei diversi angoli del pianeta, c’è almeno una distinzione che tende ad essere evidenziata, da Oriente a Occidente, dal Meridione al Settentrione: che possono esserci due motivi, per essere molto più bassi del normale. Il primo è una condizione clinica, indubbiamente assai problematica ma spesso superabile, sopratutto nella società contemporanea. Il secondo, un diritto di nascita, nonché una fortuna ancestrale. Perché i Nani, quelli che in lingua inglese si distinguono per la maniera in cui si scrive il plurale (dwarves invece che dwarfs) sono un concetto che alberga alla base di una quantità innumerevole di miti, leggende e congetture. Ritrovandosi associati alle correnti di pensiero più diverse. Secondo i cultori dell’ipotesi extraterrestre, essi sarebbero i discendenti dei primi alieni giunti sulla terra. Per chi l’evoluzione è un fatto speculativo, potrebbero trovarsi collegati all’estinta specie neandertaliana, dei nostri fratelli decisamente meno loquaci eppure secondo alcuni antropologi, marcatamente più intelligenti di noi. In molti, cercando i segreti agli albori della nostra stessa esistenza, si sono avventurati in giungle, caverne o hanno risalito irti sentieri montani, seguendo voci di popolo e dicerie che avrebbero dovuti condurli, ipoteticamente, fino alle genti di Norðri, Suðri, Austri e Vestri, per non parlare dei loro discendenti fiabeschi descritti nell’opera dei fratelli Grimm. C’è almeno un luogo, tuttavia, dove nessuno aveva pensato di recarsi con questa missione, almeno fino all’epoca dell’immediato dopoguerra: uno dei più remoti deserti dell’Asia Minore.
Ovviamente, la gente della regione conosceva il villaggio di Makhunik, col quale le genti nomadi erano solite, occasionalmente, intrattenere della limitata attività commerciale. Ma si tratta di un’esperienza che possiamo rivivere a pieno soltanto attraverso gli occhi del fantomatico primo esploratore occidentale. Intento a procedere col suo veicolo, rigorosamente a motore, lungo il desolato territorio di Dasht-e Lut (la “Pianura Vuota”) uno dei luoghi più spogli e caldi del pianeta, dove in epoca moderna sono state registrate temperature in grado di raggiungere, per più di un’ora, la cifra impressionante di 70 gradi. Non qui tuttavia, e non ora. Più ci si spinge verso l’Afghanistan, verso est, maggiormente i venti umidi che soffiano dal golfo di Oman creano quel particolare microclima, che fin dall’epoca antica fu indissolubilmente legato al cosiddetto grano di Khorasan (Triticum turanicum) da cui viene tratta la farina kamut. Tutt’altro che stupefacente dovrebbe apparire, dunque, il dato secondo cui qui non soltanto ebbe modo d’espandersi un popolo, ma sorsero e furono superate diverse importanti civiltà: dall’impero dei Parti, spina nel fianco dell’espansione romana, fino alla dinastia Sassanide, ultimo regno dell’Arabia classica finito nel 651, esattamente 31 dopo la fondazione dell’Islam. “A quale di loro…” Potrebbe quindi chiedersi il nostro visitatore ipotetico: “Sarebbe mai potuto appartenere QUESTO?” La scena dev’essersi presentata, allora come appare ancora oggi, in maniera piuttosto imprevista e surreale: svariate dozzine di piccole case quasi invisibili, paragonate da alcuni commentatori a funghi mimetizzati nella sabbia del deserto. Dai tetti piatti e le pareti in mattoni di fango, ciascuna caratterizzata da due singolari aspetti: in primo luogo, una porta piccolissima, al punto che molte persone di dimensioni normali avrebbero avuto notevoli difficoltà ad entrarvi. Il che conduceva all’altezza complessiva degli edifici in questione, raramente maggiore di un metro e cinquanta. Ora, è ragionevole pensare che negli anni successivi al 1945, gli abitanti di questo luogo avessero già significative difficoltà ad utilizzare al meglio questi ambienti. Benché si riporta che una parte significativa di costoro, ancora in quell’epoca, fossero in media più bassi di 20-30 cm rispetto ai loro connazionali. Ma si narra come già dall’inizio del secolo scorso, le genti di Makhunik avessero un’altezza inferiore di un metro e più, rappresentando in effetti, il singolo popolo più basso della storia acclarata.
Di ipotesi per giustificare un tale inspiegabile fatto, a quanto ci viene dato di sapere, ne sono state fatte parecchie. Ma forse la più affascinante, per quanto improbabile, resta quella che lo lega ad un particolare ritrovamento archeologico effettuato non troppo lontano da qui nel 2005. Per trovare informazioni sul quale, tutto quello che serve fare oggi è visitare uno dei molti siti sul tema dell’ufologia, le scie chimiche e gli altri complotti per nascondere sconvolgenti verità del Cosmo…

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La strana illusione ottica dello stadio di San Siro

La mente e l’occhio umano: due parti della stessa macchina il cui funzionamento, la maggior parte delle volte, risulta essere misterioso. O quanto meno, sembra operare attraverso sentieri poco chiari, come in tutti quei casi in cui si può osservare un qualcosa, per innumerevoli volte, senza notare alcunché possa definirsi fuori dall’ordinario. Finché un giorno all’improvviso, per la convergenza di una serie di fattori o il sussistere di un particolare stato d’animo, la verità appare lampante, scardinando ogni certezza che precedentemente avevamo dato per una labile ovvietà. Sta facendo il solito giro dei video virali e divertenti online questa breve animazione, dall’origine non sempre dichiarata, rappresentante una sorta di colonna color cemento, al cui interno sembra intenta a discendere una certa moltitudine di persone, tutte alla stessa identica velocità. E a un primo sguardo dato di sfuggita, la scena appare fin troppo “evidente”: la strana struttura deve contenere una lunghissima scala mobile, o in alternativa, un qualche tipo di tapis-roulant rotativo, se non fosse che… Grazie alla prospettiva, è possibile osservare i piedi delle persone che camminano ai livelli inferiori. Le quali, esattamente come i passanti di una comune strada cittadina, sono semplicemente intente a mettere un piede dopo l’altro, ovvero in altri termini, camminare. Il senso di suggestione, a questo punto, piuttosto che calare, aumenta: poiché riguardando il resto della scena con la nuova conoscenza, è inevitabile provare un certo senso di empatia portato innanzi dalla percezione a distanza dell’esercizio fisico, immaginando l’avanzata con lo sguardo puntato sulla persona davanti, mentre ci si adegua spontaneamente alla sua andatura. E il mondo che sembra fare lo stesso, ruotando spontaneamente al di sopra del parapetto: questa è la forza ipnotica della spirale. Una delle forme più significative in tutto l’Universo della natura.
Però signori e signori, ecco la verità: non c’è proprio niente di sovrannaturale o cosmopolita in tutto questo. Poiché la scena si svolge, guarda caso, nella bella città italiana di Milano. Dentro, o per meglio dire sotto, il secondo edificio più famoso dell’intero suddetto contesto urbano, quella titanica astronave poggiata nel bel mezzo di un quartiere risalente al XVII secolo, che un tempo era soltanto un villaggio agricolo sulle rive del fiume Olona. Finché non arrivo l’integrazione amministrativa e di seguito a questa, l’opera innovatrice dei costruttori. Saltiamo quindi qualche generazione, ed arriviamo al 1925, quando l’imprenditore e allora presidente del Milan, Pietro Pirelli, decise che uno stadio dovesse essere costruito per la sua squadra, non troppo distante dall’ippodromo cittadino. Lo spazio fu quindi trovato, i permessi vennero concessi (all’epoca, era meno difficile che adesso) e con l’aiuto dell’architetto di fama Ulisse Stacchini (classe 1871) sorsero quattro tribune attorno a un appezzamento di terra, di cui una coperta, complessivamente capaci di ospitare fino a 35.000 spettatori. E fin lì, nessuna traccia di spirali. Il suo completamento richiese all’incirca un anno, al termine del quale si tenne uno storico derby amichevole che venne vinto dall’Inter, tra l’esultanza dei suoi tifosi in ogni angolo d’Italia. Nel 1935, quindi, il Comune acquistò lo stadio, aggiungendo le curve ed incrementando la capienza delle tribune. Ma il vero e più significativo mutamento della struttura non sarebbe giunto fino al 1955, quando il coinvolgimento dell’architetto Armando Ronca permise di aggiungere un secondo anello di spalti posizionato al di sopra di quelli precedentemente esistenti, potenziando inoltre l’impianto d’illuminazione. Lo stadio, ora e finalmente in grado di accogliere più di 80.000 persone, assunse allora l’aspetto che lo caratterizza ancora. Una delle difficoltà maggiori da superare nel nuovo progetto, tuttavia, era di tipo sostanzialmente nuovo: come far muovere svariate decine di migliaia di persone fino all’altezza di circa 50 metri (la sovrastruttura si trova a 68) senza che queste si urtino l’un l’altra, creino ingorghi pazzeschi o finiscano per sfogare in una sorta di carica selvaggia le frustrazioni di un’eventuale sconfitta sul terreno di gioco? La soluzione fu innovativa, benché in campo mondiale, non del tutto priva di precedenti: integrare le scale stesse nelle massicce colonne di sostegno costruite per sostenere la struttura, creando un lungo camminamento che sarebbe stato ascendente all’inizio dei fatidici 90 minuti, e discendente al termine degli eventuali tempi supplementari. Sarebbe stata la naturale tendenza degli esseri umani ad adeguare la propria andatura chi si ritrovano intorno, purché in un contesto in cui la meta sia comune e del tutto evidente, a occuparsi del resto…

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