Il gruppo di monoliti che rimette in discussione le capacità ingegneristiche del mondo antico

Tra le diverse categorie di teosofi di un corso della Storia alternativo, sono tutto considerato meno estremi quelli che predicano la pregressa esistenza di un’epoca remota in cui il mondo era popolato da massicce ed avanzate civiltà perdute. Un tempo di culture sofisticate e macchine complesse, per certi versi addirittura superiori a quelle della modernità, ma senza la diretta partecipazione di giganti, stregoni illuminati o visitatori provenienti da altri regni e dimensioni collaterali. E dopo tutto esistono dei luoghi, nel patrimonio archeologico della Terra, che difficilmente possono essere spiegati tramite l’applicazione del convenzionale nozionismo storiografico e filologico dei nostri giorni. Vedi il grande Tempio di Giove in Libano presso la città di Baalbek (ex-Heliopolis) con il suo basamento inclusivo di tre pietroni da 800 tonnellate ciascuno e vedi soprattutto le altrettante pietre ciclopiche, oscillanti tra le 1.000 e 1.650, abbandonate a circa un miglio nella stessa cava calcarea di epoca romana in cui vennero estratti, tagliati e preparati allo spostamento gli ingombranti materiali necessari a costruire uno dei siti più massicci, ed al tempo stesso stranamente poco conosciuti dell’intero repertorio architettonico del primo Impero Romano. Poiché questa è l’ufficiale datazione attorno al I secolo, elaborata grazie alla presenza di alcuni graffiti sulle più alte e irraggiungibili colonne del complesso, di almeno la maggiore parte delle sovrastrutture oggi largamente andate smontate o andate in rovina durante il lungo corso dei secoli pregressi nella turbolenta storia del vicino Oriente. Sebbene come dicevamo, siano in molti a ritenere possibile, se non addirittura probabile, che alcune delle opere più ingegneristicamente complesse furono state compiute millenni addietro attorno ai tempi delle similmente sovradimensionate rovine di Göbekli Tepe nella Turchia sud-orientale, forse più antica struttura mai costruita dall’uomo grazie ai suoi accertati 12.000 anni di età. Al fine di condurre riti assai difficili da immaginare con i dati di cui disponiamo, oppur volendo dare credito all’altra ala più estremista dei sopracitati teosofi, permettere l’atterraggio agevole di potenziali astronavi portatrici di liete novelle interstellari.
Le rovine del complesso dei templi di Heliopolis rientrano a pieno titolo, d’altronde, nella categoria delle opere difficilmente spiegabili proprio perché disallineate da ogni considerazione di tipo pratico, sulle modalità convenzionalmente giudicate ragionevoli nella costruzione di una grande opera di tipo religioso e civile. A partire dall’interrogativo niente affatto privo di fondamento sul perché i Romani avessero deciso di erigere la più spropositata e impressionante delle proprie opere architettoniche qui, ai confini dell’Impero nella regione del Levante, senza evidenti possibili vantaggi per il prestigio della classe dirigente tipicamente incaricata di sancire simili idee. Non è perciò impossibile immaginare l’importante ruolo di un oracolo affine a quello dell’antica Delfi, per la cosiddetta Colonia Julia Augusta Felix Heliopolitana, sebbene ciò non inizi neppure a spiegare l’utilizzo di qualcosa d’inamovibile come il trilithon (trio di pietre) del basamento, ed ancor meno l’esistenza delle loro controparti abnormi perfettamente tagliate e poi lasciate ad un tiro di schioppo dal luogo in cui avrebbero dovuto trovare un più probabile impiego. Quasi come se a prepararle fosse stato qualcun altro, prima che devastanti eventi storici e cataclismici lo costringessero ad abbandonare gli obiettivi finali del suo progetto di partenza…

Leggi tutto

L’ardente metamorfosi del tubo che diventa un’imbarcazione

Lepidottero cangiante che galleggia tra le onde di salmastre contingenze; quale albero ha ospitato la tua camera del cambiamento? Quale aroma, di stupenda infiorescenza, accompagnava le tue giornate in guisa di brucante essere peloso e variopinto, quasi totalmente ricoperto di peluria urticante? Bruco che percorre le distese della verdeggiante nutrizione. Bruco ovvero l’ottimo vampiro delle piante, anche quando di piante, tutto attorno, non parrebbe sopravviverne nessuna. Fin dove quei tozzi pseudopodi ti hanno trasportato, tra il fragore delle macchine al servizio dell’industria concepita dall’umanità insapore. Cotto in mezzo ad una pasta resa fluida e malleabile, grazie al calore di una stella che non possiede alcun nome. Ma brucia, arde ininterrottamente, finché l’addetto all’altro lato della macchina non grida: “Fermi, fermi tutti. Un insetto è entrato nell’imbuto!” parte esplicita […Potrebbe rovinare il parison.] Parte implicita. Ma che cos’è, in parole povere, l’oggetto da cui prende il nome tale iconico passaggio intermedio di un certo tipo di processazione dei materiali… Un lungo tubo, essenzialmente, ma anche largo, a ben vedere, per lo meno nell’accattivante sequenza alla testa dell’articolo che state leggendo. Il tipo di breve video, tra il ricco novero di Internet, che ha cominciato negli ultimi tempi a fare la sua comparsa nei canali Instagram o TikTok, accompagnato da un roboante ritmo musicale da discoteca. La via d’accesso, se vogliamo, all’effimera attenzione della gente, per un tempo abbastanza lungo da apprezzare l’ingannevolmente semplice serie di passaggi e l’oggetto finale che ne consegue: ad esempio uno scintillante, giallissimo, idrodinamico kayak. Del tipo pronto a solcare le onde, ogni qualvolta l’orologio settimanale dei giorni raggiunge l’ora metaforica del week-end. Parrebbe quasi un’arcana manovra in grado di plasmare la materia, ma non lo è. Poiché siamo dinnanzi, direi che è giunta l’ora di rivelarlo, all’avanzata e vetusta tecnica dell’ormai quasi secolare stampaggio per soffiaggio, sebbene la sua applicazione in campo nautico paia essere alquanto recente. Per lo meno, dal modo in cui taluni dei protagonisti delle varie dimostrazioni online agiscono apparentemente sorpresi dal peso del natante ultimato, lasciandolo cadere rovinosamente sul rigido suolo dell’opificio. Dopo tutto, come ben sapete, questo tipo di termoplastica è “praticamente indistruttibile” una volta che ha raggiunto la temperatura ambiente. E a patto che non sia coinvolta dalle fiamme vive come avviene in certi gravi casi ad un tutt’altro altro tipo di scafi letteralmente imbevuti di petrolio. Ma navi cisterna qui non prendono di certo forma, bensì piuttosto la versione navigabile del sostanziale approccio figlio di un bisogno molto rappresentativo dei tempi contemporanei: avere la cosa subito, perfettamente conforme, essenzialmente pronta all’uso fatta eccezione per il bisogno di tagliarne delicatamente i contorni inesatti. Soltanto per gettare la materia di troppo nuovamente nel magico calderone. Da cui possa, quasi subito, ridiventare un parison.

Leggi tutto

L’accanita lancetta dell’orologio che calpesta ripetutamente i tombini

Presso il centro di ricerca della piccola città di Pont-à-Mousson, nella parte nord-est della Francia, il consumo energetico del viaggio nel tempo è stato largamente calibrato e approfonditamente stabilizzato. Benché la casistica acclarata, contrariamente a quanto si era pensato originariamente in letteratura, permetta effettivamente una singola “direzione” di spostamento: il futuro. E soltanto un soprattutto un soggetto di questo particolare esperimento, tondo, piatto e del diametro approssimativo di un metro e venti. La cui materia costitutiva, persino all’osservatore meno addentro a quel contesto di studio, non potrà apparire come null’altro che un semplice, resistente agglomerato residuo della produzione dell’acciaio, quello che comunemente siamo abituati a definire il ferraccio, o più correttamente la ghisa. Così dapprima qualche giorno, quindi settimane e poi mesi, incrementano progressivamente il proprio susseguirsi, mentre l’ingombrante braccio meccanico segna imperterrito il loro passaggio ed in effetti, ne agevola l’accelerazione. Stiamo parlando, tanto per essere chiari, di un oggetto non dissimile dal tipico attrezzo usato per l’addestramento degli astronauti allo stress del decollo missilistico, simile per concezione ad una giostra in uso presso i più profondi e occulti gironi accanto tra il lago d’Averno e il fiume Flegetonte. Tranne che per qualche dettaglio appena degno d’esser menzionato, tra cui la tonalità gialla intensa e la collocazione, all’estremità opposta rispetto al mozzo centrale, di un asse d’appoggio sopra cui campeggiano pneumatici posizionati in parallelo, prelevati direttamente da un’automobile, un furgone o un qualche tipo di (piccolo) autocarro. Il che risulta essere un fattore niente meno che fondamentale, per il raggiungimento dell’effetto desiderato sui soggetti dello spostamento lungo l’asse metafisico, che da questo punto in poi chiameremo semplicemente “tombini”.
Il fatto che occorre assolutamente evidenziare, a questo punto, è la natura e appartenenza operativa del suddetto centro di ricerca a una specifica compagnia, niente meno che la SAM, originariamente nota come Anonyme des hauts fourneaux et fonderies de Pont-à-Mousson, prima della fusione (!) nel 1968 con una delle più enormi ed economicamente potenti multinazionali mai create in terra di Francia, l’azienda precedentemente nazionalizzata della Saint Gobain S.A. Nata oltre 350 anni fa per volere o con i beneplacito del monarca Luigi XIV, che conoscerete senz’altro con il soprannome di larga circolazione di Re Sole, per la finalità specifica di competere contro la produzione di specchi provenienti dalla Repubblica di Venezia. Per cui il passaggio dalle superfici vetrose riflettenti, alla produzione di pesanti manufatti in ghisa, il passaggio è senz’altro breve o quanto meno, reso continuativo grazie alla perpetuazione degli stessi standard di eccellenza esemplificati da un approfondito controllo della qualità. Del tipo che richiede, qualche volta, una certa spietatezza nel mettere alla prova la validità dei prodotti fatti uscire dalla porta principale delle proprie instancabili fonderie…

Leggi tutto

I plausibili risvolti psichici dell’ingegnosa armonica di vetro di Benjamin Franklin

“Ogni volta che apro la custodia e la trovo completamente integra, è come se fosse Natale.” Racconta Dennis James al collega musicista ed amico Rob Scallon, esperto polistrumentista con oltre 2 milioni d’iscritti al suo canale di YouTube. Che in questo suo recente video, invece di suonare come fatto in precedenza celebri pezzi Heavy Metal tramite l’impiego di eclettici apparati, che tendono a differenziarsi in modo significativo dalla sua acclarata padronanza della chitarra, sembrerebbe interessarsi particolarmente alla questione lungamente trascurato di quale possa essere, tra tutti, lo strumento meno pratico da utilizzare, mantenere o trasportare presso il luogo elettivo del suo impiego. Cilindrico, ingombrante, modulare, al punto da richiedere una quantità multipla di custodie come una batteria, ma che diversamente da quest’ultima non può e non deve, assolutamente, subire il benché minimo urto durante gli spostamenti. Questo perché è fatto, in parte significativa, del più fragile e trasparente dei materiali capaci di far parte della nostra vita quotidiana: il vetro, s’intende. Quello dell’insalatiera seguìta dalla ciotola, seguìta dalla scodella, seguìta dalla tazza, seguìta dal boccale, seguìto dalla coppa e ancora il calice, il flute, il bicchierino. Ciascun pezzo accuratamente scelto, tagliato ed adattato al fine d’incastrarsi in modo concentrico all’interno dell’oggetto successivo, in base alle istruzioni attentamente calibrate del grande inventore, politico e ben noto redattore d’aforismi filosofici Benjamin Franklin. Al quale, esattamente 15 anni prima di dare il suo contributo alla creazione della Costituzione americana, capitò per caso di assistere all’esecuzione di un pezzo musicale da parte di un certo Edward Delaval a Cambridge, creatore di un particolare approccio sonorizzante basato sul percorrere tramite l’impiego delle dita il bordo di alcuni bicchieri per il vino. Così come in tanti abbiamo finito per metterci a fare, durante l’estendersi eccessivamente prolisso di particolari cene in famiglia (quando ancora, l’attuale situazione pandemica ci permetteva simili svaghi) e senza che ciò favorisse l’elaborazione di particolari creazioni immaginifiche o teorie. Questo, naturalmente, perché non potevamo vantare una mente fervida quanto quella di un simile personaggio, che colpito nel profondo del suo essere si affrettò a contattare verso l’inizio del 1762 il soffiatore di vetro londinese Charles James, per dare forma ad un qualcosa che nessuno, prima di quel particolare frammento cronologico della storia umana, aveva mai pensato di poter toccare con mano. Men che meno, sentir vibrare all’interno dei propri stessi padiglioni auricolari.
Una sorta di arcolaio, se vogliamo, o altro strumento da cucito alimentato mediante il tipo di pedale a spinta muscolare che in lingua inglese prende il nome di treadle, se non fosse per il “piccolo” dettaglio della delicata sovrastruttura roteante dalla suddetta forma in grado di approssimarsi a quella di un soave tronco di cono. Da mantenere accuratamente inumidita, mentre appoggiandovi sopra le proprie dita con precise coreografie musicali ci si trova ad estrarne quelli che il suo stesso creatore definiva, in una lettera indirizzata al suo amico Giambattista Beccaria di Torino: “Suoni d’incomparabile dolcezza più magnifici di quelli di qualsiasi altro strumento, che possono essere modificati tramite un lieve cambio di pressione ed estesi fino a qualunque lunghezza.” Per poi passare a menzionare, quasi casualmente, il fatto che l’armonica di vetro, come aveva scelto di chiamarla (d’altra parte, quella a bocca non era stata ancora inventata) non aveva MAI bisogno di essere accordata. Entro la fine di quell’anno, dunque, la musicista Marianne Davies, parente di una celebre soprana inglese, iniziò a girare in tour il suo paese, permettendo al mondo di conoscere le eccellenti caratteristiche dell’invenzione di Franklin. Finché non iniziò a risentire di uno stato cronico di depressione malinconica, tale da portarla a ritirarsi a vita privata. Ciò è considerato d’altra parte all’origine della ragione per cui, entro l’inizio del XIX secolo, l’armonica iniziò ad essere considerata un rischio significativo per la salute, non soltanto di coloro che la suonavano, ma tutti coloro che si ritrovavano ad udirla…

Leggi tutto

1 6 7 8 9 10 15