Le prime tre motociclette al mondo

Definita dagli uomini di scienza “La più incredibile invenzione dei tempi moderni.” Può essere guidata per 7 miglia, ad un ritmo maggiore di qualsiasi cavallo lanciato al trotto. O ciclista umano. Anche in salita. Può raggiungere velocità più elevate di quelle a cui chiunque possa osare guidarla. È affidabile, semplice, risolutiva. È la moto, anzi il velocipede a vapore, dell’inventore Sylvester H. Roper di Boston, Massachusetts. Quel maledetto primo giugno del 1896, giorno più rilevante della sua storia, si trattava ormai di un vista assai nota, presso il quartiere di Roxbury con la sua residenza e fino a Harvard Bridge, dove egli era solito recarsi ogni giorno per testarla in collaborazione con un gruppo di ciclisti locali. Si trattava del miglioramento ingegneristico di un progetto costruito per la prima volta tra il 1867 e il 1869 (l’anno esatto resta incerto) a partire da una scuotiossa dei fratelli Hanlon, ovvero uno di quei mezzi a pedali, antecedenti all’invenzione degli pneumatici ad aria, le cui ruote metalliche facevano letteralmente battere i denti sopra qualsiasi strada che non fosse perfettamente uniforme. Ma avveniristica, sotto molti altri punti di vista, quali la particolare configurazione definita della “bicicletta di sicurezza” che per la prima volta permetteva di avere ruote della stessa dimensione, un’altezza tale da poter mettere i piedi a terra e una maggiore stabilità in curva, grazie alla geometria fuori asse della forcella. Esattamente come qualsiasi due-ruote moderna. Fu per lui, molto probabilmente, amore a prima vista. E l’elaborazione fantastica di un idea.
Per Roper, che era un inventore rinomato, con numerosi brevetti nel campo delle armi da fuoco, delle macchine da cucire, dei sistemi antincendio… La recente rivoluzione dell’automobile a vapore (di cui pure, produsse alcuni pregevoli esemplari) non sembrava essere abbastanza. Così elaborò il più piccolo motore della storia, lo piazzò sulla bici e creò la moto. C’è un’annosa diatriba in merito alla questione, che vorrebbe attribuire lo stesso identico merito al fabbro francese Pierre Michaux, operativo nello stesso triennio della seconda metà del XIX secolo, come piuttosto ai tedeschi Gottlieb Daimler e Wilhelm Maybach, che esattamente un anno prima del sopracitato secondo modello del collega americano (1896) misero in pista una motocicletta con motore a combustione interna, ovvero a benzina. Secondo alcuni, in effetti, tutto quello venuto prima avrebbe rappresentato un “binario morto” non più rilevante per l’evoluzione umana dell’intera genìa neanderthaliana. Tutto ciò è opinabile ed ogni modo, non del tutto rilevante. Ipotizziamo, in questa fase, che la Roper sia stata l’antesignana. Nella versione guidata quel fatidico giorno, che il suo costruttore aveva intenzione di vendere in serie nell’ambiente dei ciclisti sportivi, come strumento per mantenere il ritmo durante gli allenamenti, erano stati apportati diversi miglioramenti rispetto al prototipo (di cui qui sopra, potete osservare una riproduzione) quali una riduzione del peso a “soli” 68 Kg, l’inserimento del bollitore all’interno di un cassone per proteggerlo e migliorare l’aerodinamica ed un incremento significativo di prestazioni. Tanto da poter raggiungere, in condizioni ideali, una velocità di 64 Km/h. Come innumerevoli volte prima di allora, dunque, Roper in persona fece diversi giri del tracciato, dimostrando la straordinaria efficienza del suo prodotto. Con una significativa differenza: quella volta, aveva compiuto i 72 anni di età.
La moto sbuffò vistosamente, rilasciando copiose quantità di fumo bianco. Il pilota veterano, grazie all’esperienza acquisita, tagliava le curve ed effettuava pieghe pressoché perfette, limando ulteriori secondi dal suo record sul tempo del tutto inimmaginabile senza l’impiego di un motore. Il controllo dell’accelerazione era determinato dalla rotazione di entrambe le manopole unite in un’unica sbarra, la cui rotazione in senso contrario, invece, avrebbe attivato il singolo freno. Il cui limitato meccanismo a cucchiaio, appoggiato semplicemente sulla ruota posteriore, iniziava a scaldarsi ma teneva ancora. Se non che verso la fine della sessione di prove, gli venne chiesto di dimostrare, ancora una volta, quale fosse il massimo che poteva dare il suo velocipede. Così accelerò e accelerò, fino al completamento di un giro del tracciato di Harvard Bridge in soli due minuti ed 1,4 secondi. Ma a un certo punto, subito dopo una curva, cadde all’improvviso dalla sella e morì. Secondo gli accertamenti effettuati successivamente, la causa era stato il sopraggiungere di un attacco di cuore. L’inventore della moto, così come il Dr. Frankestein in alcuni seguiti del romanzo, era stato ucciso dalla sua più amata creatura. Così, ebbe inizio la storia…

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La moto che sale sugli alberi e colui che la guida

Non sarebbe fantastico, almeno una volta nella vita, sperimentare la giornata di un supereroe? A giudicare dalla quantità e qualità di alcuni dei video giunti ai vertici di Internet, nei quali il protagonista costruisce o indossa una ragionevole imitazione dell’armamentario di Batman, Deadpool o Iron Man, non sono in poche le persone che hanno provato un tale desiderio. Naturalmente, una cosa è la parte esteriore dell’intera faccenda, tutt’altra la forza effettiva dell’individuo. Ovvero, ciò di cui egli può effettivamente disporre nella realizzazione del suo progetto. Un uncino per arrampicarsi non è nulla, senza i muscoli nelle braccia per riuscire a tirarsi su. Una katana a cosa serve, se non si ha l’abilità di manovrarla adeguatamente? E il persino più potente degli jet a razzo incorporato nella propria armatura metallica non basterebbe ad alzarsi neppure di un metro, a meno di essere dotati del sufficiente senso dell’equilibrio e una notevole prontezza di riflessi. Allo stesso modo, salire su una moto da trial non farebbe di noi Toni Bou. Certamente avrete presente il paradigma del grande campione degli sport motoristici. Quella figura che per ogni generazione, giunge come una meteora infuocata tra le schiere di uno di questi particolari sport, ottenendo prestazioni così al di sopra della sua concorrenza, da essere apparentemente favorito dallo sceneggiatore del film della vita stessa.
In tempi recenti, la Formula 1 ha avuto Schumacher. Il motociclismo, Valentino Rossi. E se vi siete mai chiesti su chi potesse contare la specialità su due ruote che consiste nel mantenersi in equilibrio, attraverso alcuni dei percorsi da fuoristrada più difficili immaginabili da un commissario di gara, ebbene lasciate che ve lo presenti. Il pilota catalano, originario dell’affascinante cittadina di Piera, che fin dall’età di 6 anni ha fatto il possibile per violare la forza di gravità a bordo della sua bicicletta. E dall’età di 14, finalmente, non ha scelto di dedicarsi completamente a quella che sarebbe diventata la vera passione della sua vita. Partecipando inizialmente alle competizioni a bordo di una moto Aprilia, prima di passare a quella che sarebbe diventata il sinonimo stesso della sua carriera: l’ormai leggendaria Montesa Honda Cota a quattro tempi, di un produttore acquistato nel 1982, ovvero quattro anni prima che lui nascesse, dalla multinazionale giapponese dei motori. Ma che trae l’origine, e resta legata fin dal distante 1944, alla sua stessa regione d’origine nel nord-est della Spagna. Prendere atto delle sue gesta sportiva è un’esperienza che si sviluppa in una fulminea e rivelatoria presa di coscienza: basta osservare una tabella con gli annali dei vincitori delle due specialità del trial a livello internazionale: l’indoor e l’outdoor. A partire dal 2007, l’unico nome che si trova replicato, una volta per riga e in associazione al team Repsol, è semplicemente il suo. Campione quell’anno, campione quello immediatamente successivo…Campione nel 2009 e così via fino al presente. Nessuno, fra tutti gli abilissimi piloti di questa generazione, è mai riuscito a superarlo, neppure una volta. Il che significa, tradotto in termini numerici, che allo stato attuale ci troviamo di fronte al vincitore di 20 titoli mondiali, 10 per ciascuno degli ambiti rilevanti. Qualcosa di semplicemente mai visto, negli sport di corsa “convenzionali” dove parimenti all’abilità del pilota, contano fattori contingenti come la sfortuna di un guasto tecnico o le condizioni dell’asfalto di gara. Mentre c’è questa visione convenzionale dello sport del trial, giusta oppure sbagliata, secondo cui tutto quello che conta sia unicamente la preparazione fisica e mentale del pilota. O forse a questo punto dovremmo chiamarlo, più appropriatamente, un atleta.
Per ciascun grande campione, tuttavia, viene anche il momento di divertirsi. Specie al giorno d’oggi, in cui una sequenza di acrobazie può facilmente fare la fortuna di uno o più sponsor coinvolti, come ben sanno alcune delle bibite energetiche di maggior successo sul mercato (e anche Toni, a giudicare dalla tuta, sembrerebbe avere la sua…) E allora ecco la risposta alla domanda del cosa possa realmente fare, una simile figura, al di sopra del contesto stringente e severo di una gara precisamente regolamentata. Letteralmente, spiccare il volo…

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Il coraggio di guidare il motorino in Vietnam

Il sentimento che pare albergare dietro a questo video potrebbe sembrarci molto familiare: un altro giovane senza rispetto per la legge, dietro il manubrio di un pericoloso bolide, guidato senza alcun riguardo per la sicurezza propria ed altrui. Costui si piega in mezzo al traffico, schiva le automobili sterzando il minimo richiesto, attraversa incroci come fossero uno svincolo dell’autostrada. Non c’è cautela e all’apparenza, neanche istinto di conservazione personale. Tutto questo, finché non si nota la nazione presso cui è girata l’inquietante scena: l’estremità di una penisola, non molto più grande dell’Italia, che fu martoriata dalla guerra, affetta da un crisi senza precedenti e poi, a partire dalla metà degli anni ’80, ricreata grazie all’apertura dell’economia privata, con l’adozione della politica nazionale del Doi Moi. Grandi motori, sospensioni rigide, pneumatici da gara: che ne ha bisogno? Per il Vietnam, c’è un solo simbolo che può trascendere tali aspetti propri del materialismo diseducativo: due ruote ed un sellino, l’umile e fidato motorino. Siamo ad Hanoi. Città affollata (7 milioni di abitanti) tentacolare e dalle molte ombre, in cui i semafori sono sostanzialmente un optional, per lo meno nella maggior parte dei sentieri. Intendiamoci: non è che presso le maggiori strade di scorrimento, manchino le basilari luci usate per chiarire la precedenza. Ma se anche l’amministrazione cittadina dovesse estendere il servizio altrove, sarebbero ben pochi a rispettarlo. Purtroppo, aggiungerei. Lo sapevate che in quel paese muoiono per gli incidenti in media 30 persone al giorno? Per un totale annuale che supera quello delle vittime dovute alle pandemie. È come la savana. Dove non ci sono regole, sopravvive il più svelto, il più scaltro, quello dotato dei riflessi migliori. Difficilmente, il più cauto e attento a rispettare alcuna regola di contesto.
Quindi eccoci qui, trasformati nel cubetto di una telecamera d’azione, posti virtualmente a bordo di un Honda Astrea di cilindrata medio-piccola (non dovrebbe superare i 125 cc) che poi altro non sarebbe che la versione estremo-orientale della serie Wave/Innova. Il che ci dice, in linea di principio, già diverse cose in merito al pilota. In un paese dove i mezzi due ruote registrati raggiungono i 16 milioni, superando di gran numero le auto e addirittura, le abitazioni delle grandi città, ciò che si guida quotidianamente diventa un simbolo del proprio status, un prezioso mezzo per esprimere se stessi. E colui che guida un motorino giapponese o americano, per quanto possa trattarsi di un vecchio modello, vuole generalmente dimostrare la propria appartenenza ad una classe benestante che lo usa per recarsi al lavoro, piuttosto che per lavorare direttamente, ovvero fare le consegne di merci, giornali o animali di vario tipo. Simili veicoli vengono spesso personalizzati dai giovani, con colorazioni o livree particolari (se è una donna) o modifiche alle prestazioni, talvolta finalizzate alle competizioni illegali notturne (se si tratta di un uomo). Un caso a parte, a tal proposito, costituiscono le Vespe di progettazione italiana, generalmente molto costose da queste parti e mantenute nello stato originario, con la qualifica di preziosi cimeli di famiglia. C’è un qualcosa, in effetti, che accomuna l’Italia dell’immediato dopoguerra al Vietnam dell’ormai trascorso e pieno accettato Doi Moi, dove un’intera generazione di fautori della contro-cultura si dimostrarono fermamente intenzionati a fare di questi mezzi lo splendente destriero in grado di condurre un’intera società verso il nuovo capitolo della sua storia. Con una significativa differenza: mentre da noi la moto costituiva uno strumento per liberarsi dalle imposizioni delle vecchie generazioni, inclusa la necessità d’integrarsi e produrre, lì serviva esattamente allo scopo contrario: fare dei suoi proprietari degli orgogliosi appartenenti al sistema del consumismo, appena nato dopo le lunghe generazioni di economia gestita con pugno di ferro dal governo. Avveniva spesso verso l’inizio degli anni ’90, quando ancora radunarsi in strada era rigorosamente proibito dalle leggi vietnamite, che interi gruppi di motorini percorressero le strade a bordo dei propri mezzi, passando silenziosamente di fronte alla polizia. Non è chiaro quale fosse l’origine di questi assembramenti. Ma nessuno sembrava avere l’autorità, né l’intenzione di fermarli. Mano a mano che la società acquisiva nuovamente il senso dell’individualismo, quindi, simili piccoli atti di ribellione diventarono insignificanti. E il tiro, così come la quantità, degli individui liberi da alcun concetto di codice della strada aumentò a dismisura, finché oggi, si guida così…

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La forza del collo che alza la moto

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Accurati studi empirici, assistiti dalla disinformazione e il senso comune, hanno dimostrato come l’uomo e la donna umani usino soltanto, in media, lo 0,0000001 del loro cervello! Lo spreco. Più terribile. Di questo mondo. Tutti quei costosissimi neuroni, sparpagliati nella guaina mielinica del cranio, lasciati a galleggiare come papere di gomma in un catino. Inevitabilmente, sorge la domanda: che COSA ci stiamo perdendo? Negli antichi templi dell’Oriente misterioso, sui picchi nebbiosi dei monti della Cina, i discendenti dei monaci ancestrali hanno ricevuto in eredità l’arte suprema del Qigong, che permette di potenziare il corpo tramite lunghi periodi di meditazione. E ogni volta che uno di loro, per lottare contro il male o fare colpo sui turisti, si concentra su una mano o un piede, quello diventa duro come l’acciaio, al punto da poter spezzare con un solo colpo il tronco del macigno di metallo o addirittura il ferro dell’albero di pietra. Se il combattente invece si concentra sui muscoli dello stomaco, potrebbe facilmente usarli al posto di uno schiaccianoci per gusci di tartaruga. Se incorpora la propria volontà all’interno della schiena, in un attimo si stende sul torrente, per fare da ponte a una pesante station wagon. Ma allo stesso modo in cui un bulbo oculare può vedere praticamente ogni cosa, tranne se stesso (come sa fin troppo bene chi ha provato a mettersi le lenti a contatto) la mente non può meditare su stessa. Sarebbe una contraddizione in termini, perché ciò richiede la suprema distrazione. Quindi se esiste a questo mondo una persona in grado di infondere il suo Qi dentro la testa, egli non può essere cinese. Né giapponese. A quanto sembra, potrebbe trattarsi di un indiano.
Ipotizziamo per un attimo il significato della scena. Voi siete viaggiatori col cappello coloniale, che per fare un’esperienza un po’ diversa, nonostante ciò che suggeriva l’agenzia, avete deciso di affittarvi un veicolo a Bangalore. E quel mezzo di trasporto su due ruote, il caso vuole sia una moto. Non del tipo che si può comprare, senza alcun problema, nei negozi della nostra parte di pianeta. Ovvio: niente Kawasaki, BMW, Ducati etc: questa qui, miei cari Dr. Livingstone, è una splendida Bajaj Pulsar dalla cilindrata di 150 cc, la preferita della gioventù ruggente del Kerala. Soprannominata “La regina della strada” (in realtà era il re, ma in Italia il sesso della moto è differente) che vanta sul marketing come sua caratteristica primaria 65 chilometri per litro e una potenza di 15 cavalli/Ps. per un peso contenuto di 144 Kg. Contenutissimo, direi. Ora nel momento del ritiro, nella nostra storia il ragazzo del motonoleggio vi ha fatto presente in un suo inglese tentennante “Signore! Questa moto è molto buona. La prenda e si diverta, ma ricordi: non percorra assolutamente la strada tortuosa che si estende tra Thiruvananthapuram e Chennai. Ci sono pericoli che uno straniero non potrebbe neanche immaginarsi.” Oh. Oh my, come direbbe George Takei, ovvero Hikaru Sulu di Star Trek. Sarà meglio trovare un metodo diverso di percorrere quel tratto ESSENZIALE per il mio viaggio. “La ringrazio del consiglio, buon uomo. Che ne dice se, invece, facessi caricare la moto su un secondo mezzo di trasporto, per poi scendere tranquillamente a Chennai? “Signore! Ottima idea. Le do il biglietto da visita di mio cugino, lui potrà senz’altro aiutarla.”
Il che ci porta a questa scena principe dell’argomento: una piazzola, una piazzetta o ancor più semplicemente un slargo nella strada, presso cui, con vostra somma sorpresa, trova posto una corriera parcheggiata. Di fronte alla quale c’è il cugino di cui sopra, con la sua maglietta bianca ed un contegno che basta a identificare il suo lavoro: quest’uomo è un coolie, ovvero, fa il facchino. C’è una scala reclinata contro il bus, dall’aspetto a dir la verità molto robusto. Due persone, gli agenti designati, vi accolgono con cordialità, ritirano la mancia da 2 dollari e fanno gesti ampi per farvi capire che è il momento di scendere dalla moto. Senza esitazione, tempo di guardare: in un attimo, il veicolo si stacca dal terreno. Per trovare un nuovo alloggiamento nel più capelluto dei luoghi…E poi su, su…

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