“Un’isola ad alta quota in un mare deserto.” È stata questa la definizione, coniata in un articolo del 1943 dal naturalista Natt N. Dodge sul tema delle Chiricahua Mountains, destinata a rimanere negli annali come antonomasia per uno specifico tipo di bioma. L’alto, irraggiungibile, prototipico ambiente “perduto” ovvero fuori dal contesto, frutto di particolari circostanze climatiche e paesaggistiche, ove ogni regola sembra cessare all’improvviso, lasciando spazio a una realtà del tutto diversa. Espressione assai calzante, del resto, per l’antico vulcano inattivo da 18 milioni di anni, che si erge per 1.489 metri nell’entroterra del Nuovo Galles del Sud in Australia, non troppo lontano da Narrabri, in un luogo in cui l’aridità è il nome del gioco e niente, o nessuno, sembrerebbe poter trarre beneficio dalle piogge, stagionali o meno. Se non che osservando dal satellite la zona, si può facilmente scorgere una macchia verde in tale luogo, corrispondente a una foresta d’eucalipti dominata da diversi alberi della gomma, tra cui l’E. pauciflora dalle foglie ellittiche ed i fiori a gruppi di 7-14, disposti con la forma di una coppa. E se soltanto la risoluzione delle immagini potesse raggiungere una tale scala d’eccellenza, sopra i tronchi ruvidi di questi, individueremmo in certi giorni e orari anche delle forme vagamente simili a una foglia, del colore intenso di una macchina sportiva. Intente a muoversi, procedere in eterno verso una destinazione poco chiara, mentre lasciano precise macchie dalla forma circolare.
Bava, bava di lumaca che disegna quadri astratti, grazie all’opera della caratteristica Triboniophorus sp. nov. “Kaputar”, 20 cm di essere creato dalla penna di un creativo che ama le tonalità cromatiche d’impatto. Mollusco gasteropode la cui natura, benché alquanto in linea con la sua famiglia Athoracophoridae (lumache a foglia senza guscio) presenta alcuni tratti di distinzione significativi, che contribuiscono a una situazione d’interesse già ampiamente garantita da un’esistenza esclusiva di questo remoto luogo. Primo tra tutti, l’apparente disinteresse nei confronti di alcun tipo di mimetizzazione, che potrebbe far pensare ad altri mezzi difensivi contro la predazione, come un pessimo sapore o la capacità di avvelenare il proprio nemico. Laddove in effetti, l’unica difesa del mollusco sembrerebbe essere una vaga corrispondenza con il rosso delle foglie di eucalipto cadute a terra, il che rientrerebbe in una logica molto in linea con il suo stile di vita. Mentre altrettanto valida appare l’osservazione, d’altra parte, che semplicemente nessuno mangia la lumaca del Kaputar, poiché non vi sono predatori adatti, in tale luogo. In una perfetta riduzione in essere dello stesso concetto, così strettamente connesso al mondo ecologico della moderna Australia, rimasta da parecchi secoli del tutto priva di carnivori più grandi di un quoll.
Detto ciò, ad ogni modo, sono molti i pericoli che insidiano questa rappresentante a pieno titolo dell’elenco di specie a rischio dell’ente internazionale IUCN, quasi tutti riconducibili in qualche maniera alla mano o la partecipazione operativa dell’uomo. Primo tra tutti, l’insorgere d’incendi dalle proporzioni apocalittiche nell’intero territorio circostante, questa stolida fortezza situata in mezzo alle nubi…
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Termovalorizzatore danese: unire l’utile allo sciabile a Copenaghen
Scelte: prenderne una non è sempre facile. Come decidere tra il mare e la montagna, il caffè o la cioccolata, oppure vivere in un mondo moderno piuttosto che pulito. Fortunatamente è possibile, qualora sussistano determinate condizioni, ricongiungere le strade alternative, possibilmente attraverso l’aiuto della tecnologia. Chiunque volesse sciare, ad esempio, mentre si trova in un’isola di appena 96 chilometri quadri, benché fare il bagno risulti purtroppo sconsigliato, potrà dallo scorso ottobre recarsi presso il singolo punto più densamente popolato della Danimarca, quella landa di Amager che è anche un quartiere/parco e luogo commerciale della capitale Copenahen, per arrampicarsi in cima a quello che costituisce assai probabilmente il più singolare, e improbabile, di tutti i metodi per lo smaltimento di rifiuti. Ideato su richiesta della fondazione governativa preposta Amager Ressource Center dallo studio di architetti locale & internazionale BIG (Bjarke Ingels Group) l’Amager Bakke (letteralmente: collina di Amager) costituisce ad oggi la destinazione più importante di tutta la produzione collaterale di materiale non riciclabile nella città, trasformata diligentemente dalle sue fornaci e dinamo in 0-63 MW di elettricità e/o 157-247 MW di riscaldamento a beneficio di tutti coloro che vivono nei suoi immediati dintorni. Il tutto rilasciando, in cambio, nient’altro che copiose quantità di anidride carbonica, bianca ed innocua, dopo l’attenta depurazione del vapore risultante attraverso una serie d’ingegnosi ed innovativi impianti di filtrazione, in un’importante iniziativa di supporto strategico all’arduo traguardo di portare la capitale ad emissioni zero entro il 2025. Detto ciò è indubbio come a colpire la nostra fantasia di osservatori, analogamente a quella dei committenti, dev’essere stato l’espediente usato da Ingels per rendere qui benvoluta tale tipologia d’impianti, generalmente bersaglio d’infinite e continuative proteste civiche, causa l’inevitabile aumento del traffico ed il cattivo odore dovuto ai camion della spazzatura, che comunque dovranno scaricare il proprio carico a livello della strada, per quante misure possano esser state prese al fine di contenere la liberazione di tossine nell’aria. L’Amager Bakke ha infatti la forma, tutt’altro che scontata, di un cuneo discendente alto 85 metri, coronato da una coppia d’imponenti ciminiere. Ma il tetto in questione, piuttosto che essere di un materiale qualunque, è stato ricoperto da copiose quantità di uno speciale materiale verde-erba prodotto dalla compagnia italiana Neverplast, sostanzialmente perfetto al fine di praticare attività sciistiche in assenza di quanto normalmente viene dato per assolutamente necessario: la neve. Così che oggi, nelle giornate di sole, è possibile osservare l’improbabile scena degli abitanti di Copenaghen che piuttosto di fuggire il più possibile lontano dai rifiuti prodotti come conseguenza dell’odierna civiltà industriale, in qualche modo prendono atto della loro esistenza e li celebrano, praticando gli sport invernali sopra una metaforica montagna coperta dalla loro ingombrante presenza prossima all’incenerimento. Tutto perfetto, dunque, o quasi…
Cose come una cascata che si arrampica sulla muraglia delle isole Faroe
Niagara, Salto Angel, Victoria. Ci sono vari modi d’iniziare un anno bisestile come il 2020 e questo qui è senz’altro, tra tutte le alternative, uno dei più surreali. Il quarantunenne Samy Jacobsen, dell’isola faroese di Suðuroy, si trovava a passeggiare in un mattino uggioso presso la parte meridionale della sua isola, con l’intenzione di provare la fotocamera del nuovo cellulare; quando giunto presso il familiare scoglio alto 470 metri di Beinisvørð, lo ha ritrovato in qualche modo differente. Quasi come sulla sagoma riconoscibile, stagliata contro il vuoto in movimento dell’Oceano, qualcosa d’insolito e luminescente stesse “danzando”, spirito delle acque o l’espressione di un antico Dio? Serpe senza testa e senza nome, adagiatasi sulla montagna, che seguendo il suo profilo minacciava di allungarsi fino all’infinito. Era infatti fatta di quella sostanza stessa che ci da la vita, il liquido ricco d’idrogeno ed ossigeno, che veniva risucchiato verso il cielo nuvoloso dalla forza stessa della tempesta. Corroborato da una simile visione, ed avendola per sempre intrappolata nella sua memoria ed il sensore digitale, fu tempo a quel punto di cercar riscontro. “Mai visto nulla di simile” concordò, parafrasando, sua sorella ed effettiva proprietaria del nuovo iPhone Helen Waag, assieme alla quale egli avrebbe quindi deciso d’inviare la straordinaria occorrenza a più canali di notizie meteorologiche locali & non, oltre a pubblicarla sulla pagina Facebook di lei. Così che verso la fine della prima settimana di questo gennaio, il grande pubblico l’avrebbe conosciuto, accompagnato dal parere dell’esperto meteorologo Greg Dewhurst del Met Office del Regno Unito, riassumibile nell’espressione singolare “Incredibile, magnifico. Trattasi senz’altro dell’esempio tipico di un waterspout, modificato dalle caratteristiche notevoli del paesaggio.”
Già perché provate a immaginare, nella vostra mente, l’effetto di un flusso d’aria calda che si forma all’altezza della superficie del mare, causa la temperatura di quest’ultima, per iniziare a risalire con notevole energia verso le nubi soprastanti. Se non che i venti arrivati di traverso, soprattutto nelle acque gelide del Mare del Nord, iniziano ad imprimervi una potente rotazione, in buona sostanza comparabile a quella che caratterizza i temibili tornado dell’entroterra americano. Affinché il mero spostarsi della nube sovrastante, immancabilmente, contribuisca a far traslare lungo l’asse orizzontale tale orribile costrutto della natura, verso dei recessi che siano auspicabilmente privi di persone. Ed in effetti simili fenomeni, come potrete facilmente immaginare, possono portare a conseguenze relativamente gravi (benché tendano a disperdersi una volta sulla costa) ed è stata una fortuna, questa volta, che la roccia definita un tempo come “Protettore delle Isole Faroe” sia bastata ad arrestare un tale viaggio verso l’autodistruzione. Mantenendo in bilico, per più di un qualche straordinario minuto, la visione senza tempo e senza nome di un qualcosa che mai prima d’allora, macchinario umano aveva ricevuto l’occasione di registrare. Affinché Internet, come suo solito, spalancasse le sue fauci immense, per accogliere quel documento a beneficio di noi tutti…
Il bruco britannico sul ghiaccio semi-solido del Polo Sud
Otto moduli sulle palafitte, sette ambienti del tutto identici e una singola sala comune di un vivace color vermiglio. Che potrebbe essere la “testa” se soltanto si trovasse all’estremità, ma è invece nel mezzo dell’insolito corridoio fluttuante, sopra l’enorme mare lattiginoso di bianco. A quelle latitudini, il vento soffia con la furia vendicativa di un drago disturbato nella sua tana. Fino a 150 metri al secondo e burrasche per 40 giorni l’anno. Per 100 giorni, il Sole non sorge al di sopra dell’orizzonte e la temperatura minima si aggira attorno ai -55 gradi Celsius, sufficienti ad un uccidere un essere umano, per quanto attrezzato ed abituato, nel giro di una manciata minuti. Condizioni paragonabili a quelle di una colonia extra-planetaria, nonché sufficienti a spazzare via, una dopo l’altra, le cognizioni architettoniche precedentemente acquisite. Ecco perché, prima di raggiungere l’efficienza per così dire artropode dell’attuale soluzione, la stazione di ricerca scientifica di Halley (da Edmund, l’astronomo della celebre cometa) ha dovuto attraversare una serie di 5 fasi, ciascuna più elaborata e inimmaginabile di quelle precedenti: a partire dalla grande capanna di legno costruita nel 1957, per permettere all’ente scientifico noto come Falkland Islands Dependencies Survey di condurre la propria attività di ricerca nella vera ultima frontiera del globo terracqueo: la zona costiera del Polo Sud ed in particolare la piattaforma di ghiaccio Brunt. Lì riscaldata e protetta da una solida struttura, destinata tuttavia ad essere coperta nel giro di qualche anno dalla spropositata quantità di neve capace di accumularsi sopra il suo tetto durante l’inverno, fino a scomparire del tutto e finire quindi per essere abbandonata. Soltanto perché esattamente dieci anni dopo, l’allora rinominato BAC (British Antarctic Survey) ci riprovasse con un complesso di sette strutture simili, destinate a fare ben presto la stessa fine. La prima idea valida, quindi, sarebbe giunta nel 1973, con la terza stazione protetta da tubi di acciaio corrugato, finalizzato a proteggere le capanne dal peso notevole della neve eterna. Ciò detto e come ben presto gli utilizzatori scoprirono, attraverso questa e la successiva versione del 1983 costruita con un sistema modulare di pannelli in legno, l’accumulo di neve poteva anche diventare praticabile mediante l’impiego tunnel d’accesso verticali; ma questi erano inerentemente destinati a diventare, un anno dopo l’altro, progressivamente più lunghi e difficili da valicare. Ed inoltre, chi mai vorrebbe vivere e compiere le proprie ricerche nel profondo della terra, così drammaticamente da quello stesso clima meteorologico, oggetto teorico della propria ricerca… L’idea vincente a tal fine giunse, dunque, nel 1991 con l’edificazione della stazione Halley V, la prima ad essere costruita su una serie di piloni estendibili, simili a zampe di un millepiedi, capaci di venire sollevate con sistema idraulico man mano che l’accumulo di neve minacciava di seppellirla in maniera pressoché totale. Se non che, un nuovo problema aveva iniziato a palesarsi: causa il progressivo mutamento climatico della Terra, la piattaforma di ghiaccio aveva iniziato a creparsi. Ed i sommovimenti conseguenti, un anno dopo l’altro, avevano letteralmente minato le stesse fondamenta di questo luogo di scienza davvero fondamentale, costringendo i suoi utilizzatori ad iniziare a pensare di abbandonarlo. Ma non prima che un nuovo progetto potesse venire edificato, proprio accanto, al fine di contenere tutta la preziosa strumentazione e garantire la continuità dei lunghi esperimenti scientifici compiuti in loco. Eppure oggi, puntando un ipotetico cannocchiale verso un tale luogo, non vedremmo alcunché: questo perché la quinta stazione di Halley, come da programma e secondo le precise norme internazionali che vigono al Polo Sud, una volta completata la sesta è stata completamente demolita. Mentre la sesta, alquanto sorprendentemente, ha cominciato a migrare!