Quanto può valere un’incudine antica?

È un sentimento facilmente condivisibile, assieme ad una chiara intenzione di trasmettere la sua felicità. Scott “The Essential Craftsman” Wadsworth si appresta ad entrare nel giardino di un conoscente, dopo una biblica trattativa che a quanto ci dice, era in corso da ben 5 anni. Per l’acquisto di… Ma prima di questo, una premessa. Potreste pensare, in funzione dello strano argomento, che ci siamo qui per analizzare l’ennesima sottocultura, in grado di attribuire un valore difficilmente quantificabile ad un qualcosa di inusuale, col solo scopo di acquisire prestigio all’interno di un circolo di saggi ed eletti. Niente di più diverso dalla verità. Qui c’è in gioco un valore al chilogrammo, o a voler fare gli americani “alla libbra” tutt’altro che arbitrario, tale da poter descrivere questi oggetti alla stregua di un oro acciaioso, o se vogliamo argento cornuto del loro settore in allontanamento dal quotidiano eppure, mai sparito. Come potrebbe mai fare del resto, il fabbro, senza poter disporre del caratteristico blocco fissato al suolo dell’officina, la cui articolata forma ricorre in migliaia di buffi cartoons, alla stregua di arma improvvisata o di ostacolo delle circostanze. L’incudine nello stile cosiddetto londinese, con una base rastremata, il piano da lavoro in acciaio rinforzato, il banco, il corno ed il tacco dotato dei due caratteristici fori. Ogni parte dotata di uno specifico scopo, ciascuna perfezionata attraverso l’uso da parte di molte generazioni di artigiani. Oppure, chissà, introdotte tutte assieme, per l’invenzione geniale di un singolo genio, in grado di cambiare la vita di tutti coloro che la trascorrono udendo il rumore del ferro, sul ferro, percosso eternamente da un grosso martello. Questo in effetti non ci è dato di saperlo. Una triste realtà, che possiamo invece dare per assolutamente comprovata, è quella della difficile reperibilità di simili oggetti nel mondo moderno, con il progressivo perfezionamento dei sistemi produttivi a fusione, ed il conseguente passaggio in secondo, terzo e quarto piano della cara vecchia forgiatura, effettuata a mano per controllare ogni momento del processo produttivo. In particolare il protagonista ci racconta, non senza una forte componente malinconica, del “grande genocidio delle incudini” risalente all’epoca della seconda guerra mondiale, quando negli Stati Uniti chiunque praticasse il lavoro di fabbro era stato invitato a consegnare la sua, affinché fosse fusa e trasformata in fucili, munizioni, carri armati…
Possiamo ben capire, perciò, la sua gioia nell’essere riuscito finalmente ad accaparrarsi questo particolare pezzo, per una cifra difficile da interpretare: 400 dollari (2,58 a libbra per un’incudine che ne pesa 155 ovvero 70 Kg) anche se, difficile negarlo: ad un occhio inesperto, l’oggetto non sembrava davvero valer così tanto. Nè dieci, venti volte tanto?! L’incudine tirata fuori da un mucchio di sterpaglie, assieme ad un ammasso di parti di ricambio metalliche e altri scarti di vario tipo, sembra aver passato un po’ troppo tempo all’aperto. Incrostata di ruggine e di vernice, con il piano di lavoro in acciaio tutt’altro che immacolato e dalla superficie consumata ad un tal punto, da non permettere facilmente di distinguere il logo del produttore. Al secondo o terzo sguardo, tuttavia, costui non ha più dubbi di sorta: il segno che s’intravede sulla parte frontale è la figura di un rombo, quindi parte del logo dell’industria oggi chiamata Trenton dal nome della sua cittadina e sede nel New Jersey, ma al secolo chiamata Fisher and Norris Co. Un’azienda, operativa dal 1859, che ha il merito di aver creato i alcuni tra i primi incudini prodotti esclusivamente per il mercato americano. Si tratta, in parole povere, di un vero pezzo da museo. Il nostro eroe quindi, con l’aiuto del venditore, carica l’incudine sul fido furgoncino. Chissà se l’altro, vedendo l’entusiasmo nei suoi occhi, o la cura con cui il suo cameraman senza volto riprendeva per i posteri ogni momento della transazione, ha iniziato tardivamente a porsi qualche domanda sui meriti dell’affare appena portato a termine. Fatto sta che un accordo è un accordo (a deal is a deal!) E ben presto, dopo una lunga disanima di ciò che voglia dire, in effetti, essere appassionati d’incudini e comprare le incudini, Scott ci trasporta nella sua officina, per documentare il processo di restauro di questo brutto anatroccolo dal notevole potenziale…

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I fabbri che ricostruiscono la misteriosa spada vichinga

ulfberth-sword

Tonnellate di spade provenienti dal cinema, dai fumetti e dai videogiochi. Ore interminabili di lavoro, spese prima da Tony Swatton, pregevole fabbro londinese, e poi dai fratelli Stagmer dell’officina statunitense Baltimore Knife and Sword, per dare forma materiale ai celebri implementi bellici di Final Fantasy, Dark Souls, Fairy Tail… E qualche volta, ispirarsi indirettamente alle faccende della storia: memorabile fu, ad esempio, l’episodio in cui venne riprodotta la katana di Hattori Hanzo in Kill Bill impiegando veri metodi tradizionali provenienti dal Giappone. Ed altrettanto degno di un commento e studio ulteriore risulta essere quest’ultimo episodio, in cui rispondendo a una reiterata richiesta del pubblico i produttori del programma hanno, finalmente, deciso di dedicare le proprie capacità alla costruzione di una delle spade di Ulfberht, forse le più avanzate dell’intero Alto Medioevo Europeo. Ma non una qualsiasi. Bensì quella custodita presso il Museo Nazionale d’Irlanda a Dublino, chiamata di Ballinderry dalla località in cui venne ritrovata nel 1932, presso il tumulo di un antico jarl o re. Tra le circa 170 oggi in nostro possesso, databili con una variazione di circa due secoli, probabilmente una delle meglio conservate, soprattutto per quanto concerne la caratteristica incisione sulla lama, recante il nome del costruttore.
Ma chi era esattamente +ULFBERHT+? Un vescovo, magari un abate, come sembrava suggerire la doppia croce inclusa nella sua firma? Oppure un mistico stregone, devoto alle vie misteriose del sacro martello di Thor? O ancora un arabo proveniente dal porto di Damasco, con all’interno della sua memoria il segreto per costruire il metallo più forte che il mondo avesse mai conosciuto…. C’è del potere in un nome, anche se non sempre della stessa natura o entità. E non sto parlando di antichi incantesimi, parole magiche in grado d’influenzare la natura per vie poco chiare, attraverso secoli di miti e leggende appartenenti ai popoli d’ogni tipo. Ma del reale prestigio che ancora adesso, grazie al potere dei marchi, connota determinati acquisti e resta ad aleggiare come l’aura di Buddha, rendendo più luminosi i confini di una figura che incute immediata ammirazione. O soggezione reverenziale: Ferrari, Armani, Rolex, Vuitton, Cartier… L’emiro che scende dal jet privato, il potente industriale col suo entourage, o il capo d’azienda in determinati ambienti, nei quali non si è ancora imposta la moderna regola della ritrovata umiltà. E nulla dovrebbe mai farci pensare che, nel corso dell’intera storia dell’uomo, questa situazione sia totalmente nuova, o in se e per se del tutto priva di precedenti. Fin dalla creazione delle prime culture stanziali, nelle epoche più remote, quasi certamente operavano già fabbri, costruttori, tecnici ed ingegneri di fama, i cui servigi venivano altamente stimati dai propri vicini in cambio di aiuto per sopravvivere in un mondo dalla natura ostile. Poi con l’arrivo dell’epoca classica, tra il sorgere e il crollo dei grandi imperi, la fama di un artista o artigiano poteva correre fino agli estremi dei continenti, mentre la classe dei ricchi e potenti faceva di tutto per assicurarsi il suo sostegno, la stimata collaborazione. Dopo la fine di Roma, quindi, sopraggiunta la cosiddetta “Epoca Oscura” c’è questo preconcetto secondo cui le società sarebbero ritornate alle barbarie, in attesa che i lumi di una ritrovata saggezza consentissero di ripristinare ciò che era stato. Il che, nell’opinione degli storiografi moderni, risulta essere nient’altro che un’eccessiva semplificazione: molte furono infatti, ormai lo sappiamo, le invenzioni di questi anni, le nuove scoperte geografiche e naturalistiche, gli avanzamenti compiuti dal punto di vista dei commerci e dell’organizzazione sociale. E fu proprio in quel contesto, sostanzialmente, che nacque il mito intramontabile della spada.

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Il martello più grande che abbiate mai visto

10 Ton Drop Hammer

Un inizio di giornata al fulmicotone, in grado di svegliare anche le talpe preistoriche che vivono in prossimità del centro della Terra. O almeno così sembra, i primi tre-quattro giorni che lavori in officina. Poi ti abitui, addirittura a questo. E l’opera inizia il suo flusso in automatico nel segno del sudore, mentre ogni gesto diviene calibrato, la cooperazione totalmente naturale. Ovvio: sarebbe assai difficile PARLARE, in mezzo a un simile frastuono. Tre operatori, ciascuno in abito ignifugo, protezioni per gli occhi e le orecchie, caschi protettivi di un vivace giallo canarino. Al centro, un addetto al forchettone/diapason d’acciaio incatenato, che serve a trasportare il pezzo riscaldato ad oltre 2000-2500 gradi fino allo stampo di lavorazione. A sinistra il suo assistente, il cui compito principale, oltre a sollevare assieme i materiali più pesanti, è irrorare d’acqua quanto posto in essere, affinché vengano rimosse le scaglie (scales) di metallo distaccatosi dal corpo principale. Mentre a destra nel sapiente trio, risiede il vero regista dell’operazione, colui che al tempo stesso deve faticare meno, eppure ha il compito più delicato e di maggiore responsabilità. Come un regista, o un direttore d’orchestra: il tecnico del maglio idraulico da 10 tonnellate.
È un’esistenza lieve che richiede un certo spirito d’iniziativa, questa dell’addetto metallurgico, poiché la creatività di simili compiti è per forza alquanto limitata. Occorre quindi apprendere il segreto per l’introspezione che non distrae, la fantasia che corre libera mentre le membra fanno ciò che devono. Ma soprattutto, l’orgoglio di fare qualcosa, presto e bene, ancora e poi di nuovo. Il video è stato caricato su YouTube da Hiroki Onoda, chiaramente un giapponese, e non sarebbe poi così stupefacente se l’intera azione si svolgesse proprio nella sua nazione. C’è qualcosa, in questo metodo di forgiatura al tempo stesso antico e dannatamente efficiente, che pare quasi rimandare ai fabbri di katana, gli esecutori ritualistici di un metodo per fare il ferro, poi l’acciaio, infine il taglio leggendario. Qui applicato, in modo forse più prosaico, alla messa in opera di grossi ingranaggi vuoti al centro, ovvero secondo la teoria più accreditata (nonché probabile) dei pignoni per i cingoli di qualche mezzo pesante. Il fatto è che dei tali componenti non possono essere realizzati a fusione, come avviene per la stragrande maggioranza dei prodotti della moderna metallurgia. Questo perché le ruote dovranno, nel corso della propria lunga vita operativa, sopportare non soltanto forti gradi di pressione, ma la forza ben più problematica della tensione, generata dal movimento parallelo di andata e ritorno delle maglie che poggiano sul suolo. Proprio per questo, portare la missione a compimento richiede un approccio basato sulla mera forza bruta, che nel dare forma al pezzo, ne riallinei addirittura la struttura cristallina, massimizzandone la resistenza e la durevolezza. Si, colpi di martello. Ma non del tipo che potremmo, allegramente, manovrare con le mani, bensì un mostro a forma di colonna, in grado di occupare una percentuale significativa dello spazio in officina, fatto muovere grazie alla forza spaventosa dell’idraulica applicata. O in alternativa, e non sarebbe poi tanto sorprendente nel presente caso giapponese, quella ancor più primordiale del vapore, che diede gli inizi a questo mondo rivoluzionario dell’industria più di due secoli fà, e che tutto ha cambiato nella mente e nelle aspettative di chi ha scelto di assolvere alla massima necessità: modificare la natura. Un merito che fu, fin dalla prima epoca moderna, conteso…

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Il cowboy che forgia una katana

Kill Bill Katana

Per quanto il mito dell’invincibile spada giapponese permei ad ogni strato la struttura dell’immaginario popolare moderno, dal cinema ai cartoni animati, dalla letteratura ai videogiochi, sono eccezionalmente poche le volte in cui venga spiegata la ragione effettiva della sua presunta superiorità, e ancora meno quelle in cui l’autore si preoccupi di descriverci nei dettagli il metodo alla base di una simile tecnologia. Persino nel film di Tarantino Kill Bill, trionfo metareferenziale d’estetica Pop e icone preternazionali che si scontrano tra loro, uno dei momenti culmine della vicenda, quello in cui “la sposa” Uma Thurman, nel suo percorso di vendetta, ottiene dal più grande fabbro okinawese l’unica arma che avrebbe mai potuto permettergli di sopraffare gli avversari, si risolve in due o tre scene dall’estrema concisione, riassumibili in mi serve una spada/ho giurato di non farne più nessuna/devo uccidere Bill, il tuo malefico vecchio studente!/Ah, allora ok, passa (dopo)domani. E quell’uomo anonimo, denominato con l’appellativo anacronistico di Hattori Hanzo (storicamente sarebbe stato il nome del capo delle spie del clan Tokugawa, vissuto negli anni topici dal 1541 al 1596) si ripresenta sulla scena con l’epico implemento già fatto e formato, lasciando noi gli spettatori, forse illusi dall’attenzione ai dettagli mostrata fino a quel punto della storia, a bocca asciutta nella più interessante delle questioni: come nasce, esattamente, un’arma leggendaria giapponese? Il fatto è che si tratta di una lunga storia. Talmente stratificata e complessa, che spesso anche la documentaristica di genere tende a glissare sui primi fondamentali passaggi del processo, per soffermarsi quindi su questioni secondarie come l’assemblaggio tra le parti, la cura artistica da gioielliere che spesso viene infusa in componenti secondarie quali la guardia (tsuba) il fermo metallico della stessa (fuchi) ed il pomello di chiusura dell’impugnatura (kashira). Ma persino tutto questo, nella realtà dei fatti, conterebbe veramente poco nella costruzione di quel mito: un’arma, per quanto esteticamente appagante, non sarà mai davvero bella, se non svolge il suo compito con ferrea ed adeguata spietatezza. E questo, Kerry Stagmer lo sa bene. L’uomo chiamato, a partire dalla fine del 2014, a sostituire il precedente protagonista Tony Swatton nella serie di YouTube dall’eccezionale successo Man at Arms, in cui veri e propri fabbri dei nostri tempi, il cui lavoro principale è diretto soprattutto all’àmbito dell’industria cinematografica, s’industriano nel dar soddisfazione alle richieste di un pubblico di vari appassionati dell’arma bianca (chi può non esserlo, in questa epoca di supereroi?) che suggeriscono con entusiasmo la diavoleria da costruire per ciascuna settimana. Gli artigli di Wolverine, sciabole magiche, l’attrezzatura ispirata a Batman di ogni sorta di eroe ludico e animato. Talvolta, addirittura creazioni originali ed ironiche, pensate per tradurre in freddo acciaio l’estetica di personaggi particolarmente amati per le ragioni più diverse, come la protezione cornuta creata per la testa di un ipotetico cavallino a partire dall’estetica dei My Little Pony, un lezioso e sdolcinato cartoon per ragazzine.
Ma c’è un momento, un attimo della verità, in cui qualsiasi creativo smette di seguire le strade fin troppo battute, si eleva dagli stereotipi e produce qualche cosa, la singola straordinaria cosa, che aveva sognato fin dall’inizio della sua carriera. Si potrebbe discutere sul fatto che nella storia artistica del regista Tarantino, tale punto di svolta sia sopraggiunto proprio con il capitolo film della bilogia citata in apertura (2003) primo della sua produzione in cui la trama, da mero accessorio dal susseguirsi situazioni assurde da lui immaginate, diventava un motore che fa muovere l’intero impianto della regia, basata sullo schema classico dell’action-thriller d’arti marziali. Un impresa ripetuta negli anni successivi, in effetti, per i film di guerra (Bastardi senza gloria – 2009) e il genere western (Django Unchained – 2012). Mentre è certo di contro che nella storia dell’intero canale Man at Arms non c’era mai stato nulla di paragonabile a questa ultima puntata, dedicata proprio all’arma ineccepibile di quel cult movie artificialmente costruito, l’excalibur post-litteram di colei che viene suggestivamente chiamata dall’antagonista, nel momento culmine del primo film: “La sciocca ragazza caucasica che gioca con le spade giapponesi.”
E la differenza di questa proposta si nota già dalla lunghezza del video, ammontante a circa il doppio di un normale episodio della serie, per un totale di quasi 19 clamorosi minuti. Un’eternità, nel panorama iper-attivo di YouTube, in cui la durata dell’attenzione media di uno spettatore si misura in decine di secondi, quando non addirittura decimi di un simile tempo, in una vera e propria traslazione del concetto iper-breve di poesia Haiku (5-7-5 sillabe) all’interno del mondo dell’intrattenimento in full motion video moderno. Quando questo è un vero e proprio sonetto, anzi una novella, di quello che avrebbe comportato l’effettivo processo costruttivo dell’originale produttore di questa katana. Ripercorriamolo assieme.

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