Il più strano effetto dell’inquinamento sulle falene

Peppered Moth

La questione del lepidottero Biston betularia,  o come la chiamano gli inglesi “falena sale e pepe”, viene spesso citata nei libri e nelle conferenze di biologia, come la più rapida e lampante prova degli effetti dell’evoluzione nota all’uomo. Nonché, da egli stesso causata, visto quale sia l’origine del repentino cambio di colore di questo animale in determinati ambienti della campagna inglese, giusto a seguito di quel monumentale evento che fu la Rivoluzione Industriale. Possibile che fosse stato un caso? Definiamo nei dettagli la situazione: nel 1811, secondo varie fonti, un singolo esemplare di falena estremamente atipica, perché nero invece che maculato, fu inserito nella collezione museale dell’Università di Oxford. E noi sappiamo, dai commenti dei contemporanei, che all’epoca si trattava di una creatura considerata piuttosto rara. Ma basta andare avanti di 43 anni, per leggere l’articolo di un entomologo di Manchester, R.S. Edleston, nel quale la variante scurita dell’insetto viene indicata come quella più comune nel suo giardino. E non solo. Il dato è riconfermato da numerosi altri osservatori, più o meno professionisti del settore: la Biston carbonaria, come si trova ad essere definita, è ormai praticamente ovunque, e sembra destinata a sostituirsi completamente alla sua simile precedentemente nota. Gli studiosi iniziarono subito, quindi, a porsi l’unica domanda possibile: “Che cosa è successo?” O per meglio dire qual’è l’evento di condizionamento, già presente in precedenza per lo meno in via potenziale, che nell’ultima generazione si è trovato ad influenzare la livrea comune di questa falena, portando la selezione naturale ad accelerare i suoi effetti con straordinaria rapidità… E l’unica risposta possibile, per loro ed anche per noi moderni, era una: a condizionare la natura, fu l’effetto di un nuovo tipo di struttura che si trovò, proprio in quegli anni, a modificare e dominare il paesaggio dell’intera Gran Bretagna. Probabilmente l’avrete capito: sto parlando delle ciminiere. Una torre cava, parte fondamentale dell’allora nuovo concetto di fabbrica o opificio, che costantemente veniva impiegata per liberare nell’atmosfera il prodotto collaterale di quel nuovo mondo dell’industria,  ovvero un fumo irrespirabile che si attaccava alle cose, rendendole in qualche maniera più simili a lui. Ma per comprendere che cosa sia successo con la Biston, a questo punto, occorrerà prendere in analisi il suo stile di vita.
Come le altre volatrici appartenenti alla famiglia delle Geometridae, quella che noi definiamo falena non è in realtà altro che l’imago, ovvero stadio adulto di breve durata, di un essere che attraversa per raggiungerlo tre fasi ben distinte: uovo, larva e pupa (ovvero bozzolo). Quindi, una volta compiutosi l’intero ciclo, scaturisce dal suo involucro e spicca il volo e sopravvive ancora per il tempo di qualche settimana, un mese al massimo, durante il quale cercherà di accoppiarsi per generare la sua prole. Ne L’origine delle specie di Charles Darwin, scritto proprio contestualmente alla presa di coscienza sulla variazione del lepidottero sale e pepe, il celebre scienziato definisce ogni generazione di creature come una battaglia, finalizzata non più alla propria personale sopravvivenza, ma alla ricerca dell’occasione di trasmettere il proprio patrimonio genetico verso il futuro. Ed è questo, sostanzialmente, che dovrà riuscire a fare la falena, sia che si tratti di un maschio, che continuerà ogni notte a ricercare la sua partner, sia nel caso di quest’ultima, che invece sceglierà un albero e vi sosterà pensierosa, continuando a liberare i feromoni di richiamo per lui. Ma indipendentemente da questa necessità e da quella, altrettanto pressante, di andare in giro alla ricerca del cibo, entrambi i sessi dell’animale avranno in comune lo specifico comportamento diurno, consistente nel trovare un punto particolarmente elevato sugli arbusti, per andare a dormire sotto l’ombra di un grosso ramo. Ora, immaginate queste piccole ma gustose creature, stanche dopo una notte di ricerche, che restano perfettamente immobili fino al sopraggiungere del nuovo vespro. Non è difficile comprendere a questo punto chi siano i cattivi della storia: gli uccelli in cerca di un rapido spuntino. Tanto capaci, ed insaziabili, che per difendersi dal loro becco le falene hanno soltanto un valido strumento, il mimetismo. Proprio a questo era finalizzata, infatti, la colorazione bianca e nera dell’esemplare tipico antecedente alla metà del 1800, perfettamente in grado di scomparire su una superficie cortecciosa e ricoperta dei licheni. A quel tempo, tuttavia, qualcosa di molto significativo si stava insinuando nell’ambiente e negli alberi stessi…

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L’unico gioiello che può diventare una falena

Jewel Catie

Strisciando delicatamente sulla foglia, questo bruco non ha i piedi. Si affida piuttosto ad un sistema di locomozione basato su una serie di contrazioni ritmiche del suo addome, naturalmente in grado di aderire ad ogni superficie. Per agevolare il compito di spingersi innanzi, l’insetto secerne addirittura un fine muco scivoloso, non dissimile da quello di una lumaca, alla quale viene spesso paragonato. Ma a colpire l’occhio dello spettatore non è tanto questa sua caratteristica, quanto l’aspetto generale della piccola creatura: semi-trasparente e bitorzoluta, con la capacità di riflettere la luce in molte direzioni, come la categoria di oggetti da cui prende il suo nome comune. Bruco gioiello, usano chiamarlo. E osservando di sfuggita il qui presente video, credo vi sarà facile comprenderne il motivo. Ma non sarebbe a questo punto lecito chiedersi da dove viene costui…Verso quale lido, in effetti, se ne va.
Tutti i lepidotteri sono monofiletici, ovvero discendono da un antenato comune. Ed è per questo che l’umana distinzione tra farfalla e falena, benché netta e imprescindibile nel senso comune, deriva in realtà da una serie di osservazioni coincidenti tra di loro solo in parte, che per di più sono spesso tutt’altro che assolute e qualche volta, persino, soggettive. Punto primo: l’ora del giorno. Tutte le farfalle amano volarsene in giro durante la mattina e il pomeriggio, mentre le loro controparti preferiscono la luce tenue della Luna? Non proprio, esistono eccezioni. Punto secondo: la struttura delle ali. La tipica falena presenta un filamento che accoppia le due ali di ciascun lato (in totale, tutti gli appartenenti all’ordine ne hanno quattro) per assisterle nel battito sincronizzato. Molte farfalle invece no. Salvo eccezioni. Poi, la metamorfosi: la falena forma un bozzolo di seta, ricoprendosi con tale sostanza appiccicosa per proteggersi nel corso del periodo più delicato della propria vita. La farfalla, guarda caso, la impiega solamente per assicurarsi ad una foglia o ramo, poco prima di diventare crisalide, una situazione statica in cui soltanto una dura e spessa pelle dovrà frapporsi tra gli agenti atmosferici ed il brodo delle cellule, che andando incontro alla liquefazione si riformeranno nella sua versione fisica capace grado di volare. Ma di nuovo, ci sono falene che diventano crisalidi, e farfalle, invece, che fanno l’opposto. Lo stesso vale per le antenne ed il resto del corpo, ali escluse: le falene sono spesse e le farfalle sottili, ma non sempre.
Il che ci lascia un singolo tratto distintivo che possa dirsi non soggetto a contraddizione, per il semplice fatto che rientra nel reame dell’estetica, in cui la mente comanda ed è possibile scegliere di aver ragione. Se soltanto lo desideriamo, per così dire, sufficientemente a fondo: le farfalle, da un punto di vista meramente tradizionale, ci appaiono come più “belle”. L’insieme delle caratteristiche citate, tra cui soprattutto la predilezione a spiccare il volo durante il giorno, puntando su un tipo di camuffamento che confonda la propria sagoma tra i fiori e la vegetazione, porta le farfalle ad avere una livrea straordinariamente variopinta e geometricamente imprevedibile, mentre la maggior parte delle loro cugine che escono di sera, per passare inosservate agli uccelli, devono limitarsi a una livrea molto scura e/o uniforme. Sia chiaro che un simile dato, come del resto tutti i precedenti citati, non è per niente assoluto. Benché si presti ad utili generalizzazioni. Ed un’osservazione: se le sfarfallanti creature della notte sono davvero costrette ad essere marroni, nere e poco altro, che dire allora della loro forma larvale, quel duraturo stadio della vita in cui esistono in forma di striscianti folìvori e devono affrontare un’ampia serie di predatori dalle propensioni totalmente differenti, quali formiche, ragni ed altri agili camminatori… I cui occhi difficilmente potrebbero tralasciare ciò che giace semi-immobile di fronte a loro. Siamo dunque sicuri che non sarebbe meglio, per loro, adottare una diversa strategia di difesa? Ebbene, la risposta delle Dalceridae, una famiglia tutt’altro che numerosa di falene (appena 84 specie all’attivo) appartenenti all’ecozona neartica (America settentrionale e centrale) sembrerebbe configurarsi come un roboante, catartico ed altisonante: “Hell Yeah!”

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Come fare la seta in casa

Silkworms

Se un cataclisma improvviso ed inspiegabile dovesse privare il mondo dell’energia elettrica, quante persone imparerebbero a costruire una candela? Se dovessimo uccidere personalmente ciascun pollo e maiale destinato ai nostri piatti e poi giù in gola, diventeremmo tutti vegetariani? Questo è il tenore e la classe di domande cui si sta proponendo di rispondere Andy George, creatore e protagonista della serie per YouTube How To Make Everything, in cui sta affrontando da qualche mese, l’una dopo l’altra, le numerose difficoltà da cui ci esonera la civiltà moderna. Che tuttavia i nostri antenati superavano brillantemente, come noi potremmo fare con l’ultimo livello di un modesto browser game. Elementi, componenti, inscindibili sezionamenti. Chiedi a qualcuno di assemblare uno dei suoi oggetti di uso comune, a partire dall’essenza della cosa già smontata, e costui ti guarderà stupito, poi con calma verrà a capo del problema. Ma come disse lo scienziato e divulgatore Carl Sagan: “Per fare una torta di mele partendo da zero, devi prima creare l’universo.” E quel vasto luogo, di dolci a base di frutta ne ha moltissimi, ciascuno insignificante, perso nelle moltitudini insensate. Mentre tutta un’altra storia è ciò che fai da te, reinterpretando sulla base della conoscenza la materia prima, o ancora meglio, ciò che ne costituisce fonte inesauribile, fin dall’origine dei tempi. In taluni casi, un tale approccio può portare anche a dei validi presupposti di risparmio (se non addirittura, guadagno sulla vendita del surplus produttivo). Cose come questa, casi come il qui presente. Di un nostro contemporaneo a cui non manca nulla, tranne il desiderio di mettersi in mostra; con un nuovo abito elegante maschile, giacca, camicia, pantaloni e tutto il resto, che però non compri dal sarto o al centro commerciale, ma piuttosto è il frutto del tuo stesso saper fare, saper comprendere e determinare. Il quale giammai potrebbe essere stato “completo” senza l’inclusione di una splendida cravatta progettuale, che poi nei fatti è stata trasformata in cravattino, intessuta con l’impiego di una delle stoffe più apprezzate al mondo: la preziosa seta organica, direttamente dal bozzolo dell’insetto domestico per eccellenza, il Bombyx morianche detto baco da seta o silkworm. L’episodio è particolarmente affascinante perché, anche se tutti sappiamo più o meno come nascono un metro quadro o due di seta, lo spiegano anche a scuola, difficilmente avremmo poi pensato di metterci a iniziare quel processo in prima persona, anche perché, quale sarebbe la ragione? Di sicuro senza macchine o telai, in assenza di un training approfondito e molti anni di pratica, sarebbe impossibile arrivare ad un qualcosa che possa paragonarsi al prodotto “completo”… Beh, ecco, la verità è l’esatto contrario. Il punto è che qui stiamo parlando, nonostante le apparenze, di un processo che fu praticato fin dall’epoca Neolitica, ben prima della lavorazione dei metalli. Nonostante l’aspetto tecnologico di ciò che ne deriva, non vi è nulla di più inaccessibile o complesso della mungitura di una mucca, o la tosatura di una pecora. Semmai potrebbe dirsi che richiede un grado assai minore d’empatia, vista la fine che fanno le decine, centinaia di bruchi che lavorano ogni giorno in una magnanerie, l’opificio della seta in senso tradizionale.
Ma prima di raggiungere quell’esito crudele, come in tutte le cose, sarà il caso d’iniziare dal precipuo seme, o nello specifico, le centinaia di uova che il buon Andy si era procurato, da una qualche deriva bio-naturalistica del nostro sempre familiare ed utile mondo dell’E-Commerce. In parole povere: embrioni da Internet, lasciate schiudere nel giro di 14 giorni, quindi nutriti con un’abbondante dose di foglie di gelso tritate, l’unico cibo che queste creature mangiano con gioia. Il bruco di questa creatura, sostanzialmente una falena benché ormai lontana da quest’ultima, almeno quanto il cane casalingo dal comune lupo, mangia e cresce quindi per un tempo di 6-8 settimane, cambiando la sua “pelle” (in realtà un esoscheletro vestigiale) per ben quattro volte. Al termine delle quali, come richiamato da un istinto primordiale, inizia a muoversi nel suo recinto, ricercando il ramo, o piccola preminenza sporgente, che il sericoltore responsabile dovrà aver posto a sua disposizione. Per scalarlo e appendersi, come un mini-pipistrello corazzato, ad aspettare il seguito di questa storia…

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I bruchi carnivori, pericolosi predatori delle Hawaii

Eupithecia

Per un paragrafo, sarò la vespa parassita. Bzz, piacere mio: “Chrysidoidea, per gli amici, Apocrita” un lavorìo pressante, un compito davvero faticoso. In volo. È una vita difficile, quella di colei che deve far la predatrice. Occasionale. Alla ricerca di… Voi bruchi non avete idea. Perché siete soltanto lo stato larvale di quell’altra classe di creature, dalle ali grandi e variopinte, sempre allegre sopra il fiore. Amatissime…Farfalle o falene, bah. Cos’hanno fatto quelle lì, per tutti noi? Certo, qualche volta, impollinano; ma se fanno nascere una pianta che gli sopravviva, a dir tanto, è unicamente dopo che hanno consumato una decina, un centinaio di foglie in ottima salute. Così, Zzb. Vendetta. A beneficio dell’ambiente. Per il popolo degli imenotteri, che ben conoscono l’impegno quotidiano. Punizione per colui che striscia consumando e non produce: gli venga dunque inflitta, l’incubazione. È una splendida prassi operativa della nostra ronzante e saggia e furba genìa: perché deporre uova dentro a un nido duramente costruito e fragile come la carta, o ancora peggio, nel substrato marcescente dell’ombroso sottobosco? Dove abbondano, di certo, le sostanze nutritive, ma con esse, pesci e cimici, scorpioni d’acqua…Che non chiederebbero null’altro dall’inizio di giornata, che far colazione con i figli della Chrysidoidea. Tanto meglio, se possibile, trovare l’equivalente mobile di una divina cassaforte, l’inerme bruco che striscia, zampettante, per corrodere abusivamente la vegetazione. Eccolo, eccolo. Ne vedo uno. Bzb. Già mi avvicino lieve, posando le sottili zampe sulla sua verde dimora. Quasi non lo noti: ha il colore uguale a quello della pianta, probabilmente per non essere visto, da me. Ingenuo! Sono secoli, oramai, che noi vespe abbiamo sviluppato dei migliori organi di senso, fino al punto di essere, per qualche tempo almeno, in vantaggio sulla concorrenza. Dunque, aprile. Tempo di figliare. Già ho preso attentamente le misure. La vittima si è voltata dall’altra parte, restando quasi totalmente immota. Aspetto qualche secondo, per avere la conferma che non sia già morta; quella si, che sarebbe una pessima sorpresa, per l’affamata nuova generazione. Ma la bestia è ancora viva. Estraggo e preparo l’ovopositore, già grondante del simbionte polydnavirus, fiero alleato biologico che bloccherà il sistema immunitario del lepidottero, rendendo la sua carne pronta alla consumazione. Ora, nell’avvicinarmi quattamente, qualche vibrazione è inevitabile. Ed io già so che…Ecco, doveva succedere! Il bruco si è accorto di me. Proprio adesso, in equilibrio sul suo patetico gruppetto di zampe posteriori, sta cercando la minaccia percepita, oscillando lievemente a destra, poi a sinistra. Mmmh. Tanto, che può fare… Lanciarsi verso il suolo? Io lo seguirò. Mordermi con le sue minuscole mascelle? Io lo pungerò. E poi che potrebbe fare con quelle minuscole ganasce, appena sufficienti a consumare la materia vegetale? Non scherziamo. Una altro passo, le ali che sui tendono pronte a fuggire. “Ci vorrà solo un’attimo, non farà male (per i prossimi due-tre giorni, ah ah, poi morirai in maniera orribile…)”. Oooh, ma guarda. Oooh, il bruchino si è… Voltato? Guardalo, che spalanca le sei zampe anteriori, in un probabile tentativo di spaventare, spaventare me. Ma non farmi ridere. Però, che strano. Al termine di ciascun arto, la vittima selezionata sembra presentare rostri acuminati, come altrettanti affilatissimi coltelli. Chiaramente, dev’essere un’illusione ottica. E poi sembra…Sembra felice? Lo scruto molto attentamente, quindi quel…quel…Parte all’improvviso. Prima lo vedevo, adesso non lo vedo più. Morta, sono. Z.
Hawaii. A circa 4.000 chilometri dalla maggiore terra emersa, sulle isole boscose del Pacifico, nascono e muoiono creature totalmente inusuali. Trascinate dai venti e dalle correnti marittime, assieme a quei detriti che per qualche generazione avevano chiamato casa, gli insetti approdano, poi scoprono il diverso senso della vita. Là, dove l’unica costante è l’uomo, e non esistono, ad esempio, mantidi religiose. E i ragni, benché presenti, tendono a restare nella tela, senza andare in cerca di preziosi pasti tra le piante abitative. Creando la sussistenza, intramontabile e continuativa, di quella che potrebbe definirsi la testuale “nicchia evolutiva”. Tutte quelle mosche, vespe, grilli, scarafaggi e falene, che svolazzano senza preoccupazioni al mondo! Tanto cibo potenziale, troppo, per lasciarlo lì a sfuggire al suo destino. E chi poteva rispondere a una simile chiamata se non lei, la larva tipica degli appartenenti al genere Eupithecia, tipici chirotteri notturni nello stadio adulto, che tra l’altro sono attestati in moltissimi paesi del mondo. Ma che qui, nel mezzo dell’assoluto nulla isolano, indisturbati e liberi di crescere nei loro presupposti ed abitudini, hanno appreso un metodo per avvantaggiarsi in mezzo al flusso impietoso dell’ecologia. Questo metodo: il mangiare carne. È stato calcolato che le 19 specie di larve assuefatte a un simile stile di vita nel territorio hawaiano, in media, raggiungano lo stadio di pupa tre volte più velocemente dei loro cugini continentali. E che al momento di farlo, i bruchi siano notevolmente più grossi, in salute e desiderosi di dispiegare le ali dell’età adulta. Persino una crudele vespa, di fronte a tutto ciò, non potrebbe far altro che emettere un ronzio d’ammirazione.

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