Aria, gomma e juta: gli ingredienti del migliore carro armato

Fake tanks

L’inganno e la dissimulazione sono da sempre parti fondamentali di una strategia di guerra, soprattutto quando il conflitto si complica e protrae nel tempo. Quante imprendibili mura sono cadute per il sussurro dei ladri e delle spie nei sotterranei! E quante possenti armate hanno finito per braccare un avversario rumoroso ed evidente, mentre il grosso del nemico, dalle alture, li colpiva con le frecce incatramate! Un esercito, secondo l’arte della guerra universale (che non è mai stata solo quella del taoista Sun Tzu) dovrebbe mostrarsi forte, dove in realtà è debole, e al tempo stesso debole, dove è forte. Come un drago la cui coda striminzita, nel momento in cui l’eroe a cavallo si approccia per tagliare la sua testa, saetta all’improvviso, rivelando aculei avvelenati dall’inesorabile efficienza. Ma simili artifici, fino all’epoca moderna, erano stati il frutto di una serie di artifici che potevano inserirsi nel concetto di guerriglia: gli uomini venivano suddivisi in gruppi indipendenti, le unità formate in modo fluido e disordinato, per poi spuntare nel momento maggiormente inaspettato. Qualche volta, un messaggero con degli ordini fasulli poteva farsi ghermire dal nemico, oppure persino un ufficiale doppiogiochista, dichiarandosi pronto a tradire, cambiava le sorti di un difficile momento. Mentre a partire dall’invenzione dei sistemi di comunicazione a distanza, le cose si sono fatte più facili, ed al tempo stesso complicate. Impiegando una ricetrasmittente radio, un singolo tecnico della seconda guerra mondiale che fosse stato adeguatamente addestrato poteva rendere apparenti le manovre di interi battaglioni o addirittura un reggimento, grazie a poche parole attentamente calibrate, possibilmente dissimulate grazie all’uso di un codice segreto, già scoperto dal nemico. Perché io so che tu sai, ma tu non sai quello che voglio fare: così un inganno dopo l’altro, sui diversi fronti dello scontro armato più letale della storia, i cannoni uccidevano, ma era la finzione, tanto spesso, a mutare le sorti di un intero teatro di battaglia. Pensate per esempio a El Alamein.
Il 12 agosto del 1942, al culmine del confronto in Nord Africa per il possesso dei preziosi campi petroliferi del Medio Oriente, l’armata italo-tedesca al comando di Erwin Rommel, la celebre Volpe del Deserto, si ritrova dinnanzi quello che sarebbe stato il suo antagonista più pericoloso, l’Ottava del generale Bernard Law Montgomery, inviata ad assistere le forze alleate in Tunisia. La situazione per l’Asse si profila seria fin da subito, con lo schieramento contrapposto di 200.000 uomini e 1.000 carri armati allo stato dell’arte (inclusi circa 200 dei nuovi Sherman americani) ad affrontare i loro appena 100.000 soldati e 490 veicoli male assortiti, tra i quali soltanto i 38 Panzer IV e i 35 cacciacarri italiani semoventi 75/18 disponevano degli armamenti adeguati a penetrare la corazza del 66% dei mezzi nemici. Rommel, inoltre, non aveva ricevuto i rifornimenti promessi, a causa dell’intervento delle truppe alleate stazionate a presidiare il canale di Suez. Nonostante questo, alcune circostanze di contesto riequilibrano in parte la situazione: i temuti Afrika Korps, al pari delle truppe italiane che li supportavano ormai da diversi mesi, godevano di una conoscenza del territorio superiore, mentre le particolari condizioni dello stesso ben si prestavano a una tattica di mordi e fuggi, potenzialmente vantaggiosa per chi si ritrovi in minoranza numerica e situazionale. Per questo la volpe tedesca, coadiuvata dai generali Cavallero e Bastico, attaccò gli alleati già la notte del 31 dello stesso mese, presso una località a 50 Km dalla costa che sarebbe rimasta nota, nella storia internazionale, come un punto di svolta fondamentale dell’intero conflitto mondiale, mentre per quella italiana l’inizio di un processo di marginalizzazione nella macchina bellica tedesca, costato la vita a innumerevoli dei nostri connazionali. Per comprendere quello che avvenne, va considerato che il territorio di El Alamein presentava alcune problematiche davvero significative: in primo luogo, la depressione di Qattara, la cui sabbia morbida sembrava fatta apposta per rendere inutili i veicoli cingolati. Inoltre i molti pendii rocciosi, fronteggiati da valli scoscese che risultano tanto riconoscibili nelle simulazioni o nelle illustrazioni di questa battaglia. Proprio per questo bisogno di aggirare i rischi naturali, entrambi gli schieramenti fecero un grande uso dei campi minati a protezione della fanteria, chiamati in gergo i “campi del diavolo” in grado di mietere vittime indiscriminate e rallentare l’intero iter di manovre molto delicate. Fu proprio l’incontro inaspettato con uno di questi sbarramenti a bloccare l’avanzata dell’Asse quella notte presso Alam Halfa, quando un gruppo di impervi carri inglesi Valentine, vanificato l’effetto sorpresa, piombarono su di loro, costringendo Rommel a una frettolosa ritirata. Alcuni storici ritengono che Montgomery, in quel momento, avrebbe potuto continuare a spingere, distruggendo l’avversario. Ma la reputazione, in guerra, è tutto: così egli, temendo un pericoloso inganno del nemico, preferì inviare in profondità soltanto alcune divisioni neozelandesi, che furono distrutte dalla superiorità tecnica del comando avversario. A quel punto, iniziò una fase di consolidamento e fortificazione. Passarono diversi mesi, mentre i due si studiavano a vicenda, valutando le possibili strade verso il confronto finale che sarebbe giunto soltanto ad Ottobre, con l’inizio di quella che gli inglesi avrebbero chiamato l’operazione Lightfoot (piede leggero) ma prima di allora, ce ne sarebbe stata un’altra…

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L’eleganza tecnica dei cacciabombardieri europei

Mirage 2000

Basta guardare indietro, seppure brevemente, alle innovazioni tecnologiche di questo scorso secolo per rendersi conto che la globalizzazione non è fenomeno soltanto culturale. Il nuovo flusso dei commerci e la possibilità di trasmettere, da un lato all’altro della Terra, qualsiasi metodo scientifico verso il progresso, ha sostanzialmente appiattito l’approccio creativo nel creare soluzioni problematiche complesse. Ciò nel senso che, quando qualcuno, in qualsivoglia continente, progetta un nuovo tipo di motore, carburante, strumentazione di bordo per automobili o natanti, nel giro di appena qualche annetto saranno milioni le persone in grado di apprezzarne i vantaggi, magari sotto un nome ed etichette differenti. Perché questo vogliono le leggi del mercato: che chi si ritrovi con le chiavi in mano di una valida invenzione, sia al più presto investito di un flusso di denaro tale da produrla in quantità pressoché illimitate, o in alternativa, ne ceda il controllo a qualcun altro di più svelto, nonché abile a gestirne i presupposti. Esiste, tuttavia, una significativa eccezione a tale regola, che si estende nell’intero areale dello scibile che risponde al nome spaventevole e glorioso della guerra. Fin dallo spegnersi dei fuochi apocalittici della seconda mondiale, ma in un certo senso pure prima, è esistita questa consapevolezza tra i potenti che il disporre di armi potenzialmente devastanti non era abbastanza per sentirsi al sicuro; occorreva, parimenti, che il proprio nemico non potesse dire altrettanto. Questo perché nei cieli e sui campi di battaglia dell’ultimo secolo, sostanzialmente, si è raggiunto un grado di possibile devastazione tale che nemmeno il più prudente ed abile dei generali, coadiuvato da soldati all’avanguardia, potrebbe mai riuscire a risparmiare gravi danni al territorio, le sue risorse, i suoi abitanti. Così un conto è il tipico contratto di lend-lease, per cui i paesi alleati si forniscono a vicenda gli aeromobili, ma per ciascun corpo d’armata dedito alla protezione dei cieli il velivolo migliore sarà sempre, se presente, quello progettato in situ, sulle specifiche esigenze e con il massimo contenuto tecnologico a disposizione. Gli aerei bellici, come del resto le più famose armi da fuoco o carri armati, non soltanto raggiungono l’apice del progresso grazie ad un sforzo continuo di menti eccellenti, ma dovranno farlo, alla stessa maniera di bruchi che percorrano la cima di un arbusto, lungo quelle numerose diramazioni che sono i paesi contrapposti. La scena geopolitica è in continuo mutamento: al punto che talvolta può bastare poco, come la scintilla di un accordo commerciale andato per il verso sbagliato, o l’offesa percepita da una particolare decisione ai vertici di un complesso accordo diplomatico, perché si scaldino i motori a ugello e venga l’ora di partire, pattugliando attentamente i territori di confine. E se dall’altra parte, anche “Loro” saranno in grado di farlo, per lo meno “Noi” sapremo questo: i nostri aerei sono migliori. Che siano russi, americani o frutto delle occasionali quanto fruttuose collaborazioni tra le principali nazioni del vecchio continente, ciascun velivolo ha dei punti forti che riescono a distinguerlo dai suoi rivali. L’apporto finale del resto, ciliegina sullo stato dell’arte di cui parlavamo poco sopra,  sarà sempre frutto del coraggio e delle doti del pilota.
Mani e menti umane come queste alla guida di ottimi caccia Mirage 2000, idealmente, tanto perfettamente e poeticamente rappresentate in una sequenza lunga 3 minuti e mezzo, creata a partire da diversi momenti del film francese del 2005, Les Chevaliers du ciel (Gérard Pirès) ispirato alle avventure fumettistiche di Tanguy e Laverdure, eroi che spopolarono tra Belgio e Francia nel corso degli interi anni ’60. Il fatto che l’intera appaia tanto realistica, persino in quest’epoca di grafica computerizzata estremamente pervasiva, non dovrebbe in effetti sorprendere nessuno, visto come alcune elle scene del film siano state realizzate grazie all’impiego di un serbatoio da ala per aerei a reazione appositamente modificato, impreziosito da un’ampia serie di telecamere sull’intero corpo della sua cilindrica esteriorità. Fino al momento dell’incredibile battaglia su Parigi, girata con il permesso dell’amministrazione cittadina durante le annuali celebrazioni per la festa nazionale della presa della Bastiglia, con una notevole quanto rara corrispondenza tra il momento effettivo della messa su pellicola e il teorico teatro dello scontro immaginifico nei cieli; gli aerei che sfrecciano in formazione serrata, vibrano delicatamente sopra l’orizzonte. Le figure geometriche da loro disegnate sul confine delle nubi: il susseguirsi di una simile sequela di momenti potrebbe costituire, così messa a parte dalla trama e dai dialoghi del film (che possono piacere o meno) la migliore rappresentazione di quello che l’uomo in volo è riuscito a rendere possibile nei nostri giorni, in cui neanche più esiste una connessione fisica tra gli alettoni e la cloche di comando. Tutto è automatico, robotizzato, oltre ciò che possa dirsi raggiungibile nel corso di una vita sola. La fisica applicata, sopra l’ingegneria, sopra il realistico bisogno di proteggere un’identità nazionale. E in cima alla piramide, sopra un’antenna sottile quanto la punta di uno spillo, lui che lancia il suo segnale, colui che affronta “Due ore di noia…” Seguite dai “Quindici secondi di assoluto terrore!” Il moderno pilota da caccia o attacco al suolo.

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PL-01, un carro armato che aspira all’invisibilità

PL-01

Un veicolo estremamente innovativo, nero e opaco, che fuoriesce dal deposito verso la prima e forse più importante delle sue battaglie. Secondo molti, lo ricorderemo così: mentre veniva pilotato fino agli autotrasportatori designati, oppure perché no, direttamente presso la sua piattaforma di esposizione dell’ultimo MSPO (International Defence Industry Exhibition) grande fiera polacca di settore, usata ormai da anni per presentare le ultime novità europee in materia di mezzi da combattimento militari. Quanto è cambiato il mondo, dal termine della passata guerra fredda! Così come avviene nel regno dei consumatori, l’industria della difesa è ormai connotata dai flussi e le discipline del libero mercato, all’interno del quale non è più importante poter disporre di un’arma esclusiva, quanto vendere la stessa cosa a quanti più possibili alleati potenziali, affinché una futura azione di concerto possa funzionare nella maniera più fluida ed efficiente. E sia ben chiaro: stiamo parlando soprattutto di esercitazioni. Nessuno conosce in realtà il futuro, ma la storia ci ha insegnato che la corsa agli armamenti è un gesto alquanto futile, visto il trasformarsi imprevedibile dei presupposti di battaglia. Tranne che nel caso in cui, per l’iniziativa particolarmente ben riuscita di un’intera generazione di progettisti, si riesca a prevedere il tipo di minacce emergenti sulle strade degli scontri armati, schierate successivamente dall’ennesimo e indesiderabile avversario. Facendo un passo avanti, due indietro e anche incredibilmente, tre di lato.
Occorre guardare le cose da lontano. Dato che il carro armato, nello schema odierno delle cose, viene considerato l’evoluzione del concetto di cavalleria, potrebbe risultare particolarmente utile un parallelo storico, relativo alle caratteristiche della tipica armatura medievale a piastre. In principio, la caratteristica più ricercata era lo spessore, aumentato gradualmente grazie alle migliorie tecniche nel campo della metallurgia. Il partecipante ad una carica guerresca del periodo tardo, nello spronare il suo destriero innanzi, poteva contare su di una barriera essenzialmente impenetrabile ai colpi di un fante nemico, fossero questi vibrati con la spada, l’ascia oppure addirittura quell’arma concepita appositamente per fermarlo, la lancia lunga tanto spesso puntellata a terra. Ma basta fare un fast forward di qualche secolo, successivo all’invenzione delle armi da fuoco efficaci in quanto tali (tra cui non può davvero annoverarsi l’archibugio) per trovare una situazione totalmente ribaltata. Ecco sparire tutto quel metallo a vantaggio di semplici uniformi variopinte, vedi ad esempio quelle associate alle guerre napoleoniche, concepite esclusivamente a scopo di aggregazione collettiva ed a vantaggio dell’immagine di ciascuna armata nazionale. Era terminata l’epoca in cui si poteva pensare di sopravvivere a un colpo diretto del nemico, e paradossalmente, si tornava allo stato originario di una sola tenuta soldato, invariabile dal punto di vista funzionale. Ed è proprio questa la situazione che stiamo vivendo, ormai da diverse decadi, nel campo dei mezzi militari per il fuoco diretto, quelli che comunemente definiamo carri armati.
Se si guarda indietro fino all’inizio della seconda guerra mondiale, il conflitto attraverso il quale si è consolidato il valore tattico di questo temutissimo implemento veicolare, appare chiaro un processo di sublimazione di quelli che erano stati in origine un’ampia gamma di elementi paralleli: il Matilda inglese, il Panzer 2 tedesco, il T-26 russo erano macchine che si aggiravano sulla decina di tonnellate, pensate per assolvere a più ruoli. Dominate dalla presenza egualmente primaria di due armi, un cannone di grosso calibro e l’irrinunciabile mitragliatrice, dovevano irrompere sul campo di battaglia soprattutto per lo scopo di superare le fortificazioni pre-esistenti, inibendo successivamente il contrattacco del nemico. Fu soltanto successivamente, attraverso scoperte tattiche anche in parte accidentali, che si scoprì come fosse possibile privare l’esercito nemico di questo stesso formidabile vantaggio operativo. Occorreva disporre di un veicolo per acquisire la superiorità tipologica, e tale veicolo fu il carro pesante. Viene spesso citato, nei testi del ramo, l’effetto che ebbe sulla storia militare la messa in opera nel 1940 dei primi carri KV (Kliment Voroshilov) dell’Unione Sovietica, oltre quaranta tonnellate d’armatura impenetrabile ed un cannone di fino a 110 mm di calibro. Strumenti del tutto impervi alle armi montate dai loro predecessori, nonhé in grado di distruggerli senza fatica e che potevano quindi essere contrastati solo tramite un approccio ancora non scoperto. Ciò che seguì, nei cupi anni successivi, fu una vera diaspora di stili progettuali. Mentre la Germania produceva i suoi iconici Tiger e Tiger 2, le altre nazioni reagirono con bassi e rapidi caccia-carri, privi di torretta, con profilo basso e quindi più difficili da contrastare. Nel frattempo, i mezzi corazzati che venivano considerati più desiderabili erano quelli ai lati estremi dello spettro: piccoli e veloci, in grado di sfuggire all’occhio del nemico, oppure giganteschi superpesanti, come lo sperimentale ed ormai quasi leggendario Panzer VIII Maus, un veicolo che avrebbe pesato 122 tonnellate (circa il doppio di un moderno M1A4 Abrams).
Il vecchio concetto del carro universale era finito, mentre anche i precedenti medi, con i loro armamenti pesanti ma la corazzatura comparabile non prestazionale, finivano per assolvere ai dei ruoli attentamente definiti.

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Anche gli AH-64 Apache richiedono pazienza

Apache 30mm

Quasi inconcepibile, che sia così difficile da fare. L’avevate mai visto in questo modo? Ecco un armiere d’aviazione, forse americano, presso un non meglio definito campo base, chissà dove & chissà quando, che dimostra l’alta dose di manualità che serve per immettere i minacciosi pallottoloni nel meccanismo del cannone a canna singola da 30 mm M230, dell’elicottero da guerra più famoso al mondo, in circostanze che parrebbero, allo sguardo, solo leggermente al di fuori della prassi quotidiana.
È una sequenza indicativa, sofferta e significativa. Che dimostra come anche un sistema d’arma pseudo-futuribile come questa mitizzata torretta sub-veicolare, in grado di colpire bersagli piccoli da una piattaforma mobile in aria, rapida e letale, ricevendo dati quali la scansione ad infrarossi notturna (FLIR) e il puntamento laser del sistema TADS […] sia fondamentalmente progettata dagli umani, ed in quanto tale, soggetta a problematiche istantaneamente riconoscibili, allo sguardo di chi vive con la tecnica applicata. Come noi tranquilli, rilassati civili (quasi sempre) finché non s’inceppa, in un dì parecchio concitato, il rullo demoniaco della stampante laser dell’ufficio. E non entrano più i fogli, sparisce quel risucchio magico e tutti s’incastrano candidi e indefessi, l’uno dopo l’altro, mentre si esaurisce il tempo limite ed aumenta il nervosismo! Ah, ve l’immaginate, la stessa situazione, in volo sopra i ripidi crepacci di un dismesso campo di battaglia? Mentre vi suona nell’orecchio il trillo dell’avionica di bordo, sonoro ed insistente, a segnalarvi che un sistema d’arma fissa vi ha puntato, e Colui non voglia, potrebbe pure funzionare? Non è che la guerra sia una gara a chi subisce meno guasti tecnici imprevisti. Ma, talvolta così pare…
Quindi tanto meglio, far le cose bene: “Chi non ha buona testa, ha buone gambe!” Ovvero se dimentica, poi torna indietro. Ma dovesse dimenticare la cosa maggiormente inappropriata, ovvero le chiavi di casa, saranno affari suoi. Quando decolli da un FOB (Forward Operating Base) in un vortice di sabbia e piccoli detriti, sotto un’elica rabbiosa e verso gli obiettivi di missione, l’M230 è il tuo fucile. La tua chiave di volta per tornare a terra tutto intero. Ce ne sono molti come lui, ma quello è il tuo. Il tuo fucile è il tuo migliore amico, la tua vita. Devi dominare il tuo fucile come domini la tua vita (etc.etc..) Eccetto che… Naturalmente, non puoi dominarlo!
Perché sei chi lo conduce con la cloche, oppure lo punta in giro dalla sua console, mica il tecnico che si occupa di caricare l’arma. Chi ci capisce di una tale roba? Nei settori della guerra di supporto, ovvero tutto quello che non è la pura e dura fanteria, c’è sempre una vasta squadra dietro ciascuna missione, della quale, soltanto una parte giunge fino al fronte. Gli altri assistono e conducono l’idea (di distruggere il bersaglio). Il che davvero appare chiaro, nell’interessante video della carica del presente cannoncino. Che comunque, secondo alcuni commenti online, qualcosa che non andava ce l’aveva eccome…

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