Un altro anno di animali per il tronco più affollato della Pennsylvania

Possa la mia storia essere la prova. Di come la morte non debba necessariamente corrispondere, in natura, alla fine dei processi che coinvolgono l’essenza di una singola entità vivente. E la rete di collegamenti ed interconnessioni, che unitariamente la collegano alle collettività distinte di uno specifico contesto d’appartenenza. Come caddi, un giorno ormai distante, lungo il corso di un torrente nell’ombroso stato di Keystone. Pino della Virginia, vecchia quercia, ginepro, noce americano o ippocastano: chi riesce più a ricordarlo, ormai? In un luogo variegato come può esserlo soltanto il continente paleartico, tanto vasto e incontaminato da aver mantenuto in tempi non sospetti la definizione di “Nuovo” mondo. Patria di animali variegati ed animali molto noti, in quanto simboli dal canto loro di una sovrapposizione non del tutto conclusiva tra gli spazi dell’uomo e quelli dedicati a loro. Un tronco messo di traverso, pensa, lungo il corso di quello che scorre da una fonte fino alla destinazione marittima o lacustre; nient’altro che detriti da rimuovere per garantire l’ottima risoluzione di un imprevisto. Eppure per uccelli, orsi, felini e altri mammiferi, ciò può essere l’inizio di un servizio utile per la comunità indivisa. Il ponte, semi-permanente, verso l’altro lato delle circostanze…
Quanto state per vedere (o forse, avete già guardato) proviene da una volutamente non meglio definita “zona montana” nella parte nord-est degli Stati Uniti, benché l’utente di Reddit OldCoaly sembri averla identificata con successo come l’area di conservazione naturale WMU 4D, non troppo lontano dalle cittadine di Williamsport e State College, chiamata in questo modo per l’indubbio onore di ospitare la sede principale della sola ed unica università della Pennsylvania. I cui frequentatori e professori condividono, come coscienza collettiva, questa sensazione di essere vicini al nesso e il cardine del centro incontaminato di un’intera biosfera, come testimoniato dalla frequente occorrenza d’incontri con coloro che l’avevano occupata per primi. Un’occasione geograficamente rara, dunque, quella colta in modo tanto spettacolare da Robert Bush Sr, titolare ed unico amministratore del canale di YouTube Bush’s Pennsylvania Wildlife Camera, basato su una premessa semplice quanto davvero affascinante: offrire al grande pubblico l’occasione di conoscere le spettacolari immagini raccolte, attraverso il trascorrere dei mesi, da una serie di videocamere disposte in luoghi strategici attraverso il grande verde della regione che ospita la sua casa. Nessuno tanto valido e funzionale, ad ogni modo, quanto quello del succitato torrente, proprio nel luogo in cui tutti, nessuno escluso, paiono aver identificato l’arteria stradale verso l’irrinunciabile soddisfazione quotidiana. Ed è un appello che sarebbe degno della Vecchia Fattoria se soltanto tale canzone, piuttosto che al mondo degli animali addomesticati, fosse dedicata ai loro simili al di là dell’alto muro dove inizia l’assoluta libertà operativa e situazionale. Certo è che, d’altronde, fa una certa impressione osservare un consorzio tanto variegato di creature, spesso nemiche tra di loro, che occupano a turno gli stessi pochi metri di foresta…

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L’istinto materno della mosca che ha devastato il cuore dell’Africa nera

Racconta il filantropo e tecnico economista Ernesto Sirolli, nel suo libro sull’attività umanitaria da lui compiuta in Zambia nel corso degli anni ’70, di un aneddoto particolarmente indicativo. Sulla volta in cui la missione ONG di cui faceva parte, tentando di aiutare la popolazione di un villaggio in mezzo alla savana, aveva messo in opera una piantagione di pomodori. Ortaggi destinati, grazie al clima caldo della regione, a crescere fino alla grandezza di palloni da calcio, offrendo la strada apparentemente ideale per affrontare e risolvere finalmente la fame di quella gente. Gli abitanti del posto, tuttavia, non sembravano affatto interessati e nonostante i tentativi d’insegnargli le moderne meraviglie d’agricoltura, si mostravano indolenti, pigri e rassegnati. Un giorno, quindi, gli italiani si recarono al campo per scoprire che tutti i pomodori erano spariti. Dopo una breve indagine, capirono cosa era successo: un gruppo di ippopotami erano arrivati dal vicino specchio d’acqua fangoso e con voracità infernale, se li erano mangiati. Alla domanda del perché i nativi non li avessero avvisati, questi ultimi risposero dispiaciuti: “Ecco, in verità… Voi non l’avete mai chiesto.”
Italia ed Africa: destini incrociati lungo il corso della storia, qualche volta in positivo, altre senza nessun tipo di effetto duraturo per il corso degli eventi. Ma in particolari casi, collocati al principio di un’epoca di dannazione. E secondo quanto riportato dal giornalista inglese Fred Pearce sarebbe stata proprio l’arrivo di una nostra spedizione nel Corno, risalente al 1897, a generare il peccato originale destinato a rendere l’Africa tanto inospitale a ogni tentativo di coltivazione, intensiva o meno. Poiché i soldati avevano partecipato all’avventura accompagnati, per la sfortuna di un’intero continente, da certi animali e il virus malauguratamente contenuto al loro interno: l’RPV o peste bovina, che si sarebbe diffusa devastando un’area di pascoli vasta all’incirca quanto l’intero territorio d’Europa. Milioni di persone morirono nel giro di qualche decennio per la carestia risultante, intere popolazioni che avevano fatto dell’allevamento bovino parte inscindibile della loro vita. E mentre i pascoli venivano di nuovo reclamati dalla grande fauna equatoriale, tra la vegetazione non più soggetta al controllo umano tornò a prosperare una minuscola, quanto malefica creatura.
Tze-tze, Tsetse, Tik-tik sono tutte parole, vagamente onomatopeiche, riferite al particolare gruppo di ditteri che rientrano nella famiglia Glossinidae, genere Glossina, accomunate dall’abitudine frutto dell’evoluzione a consumare copiose quantità di sangue grazie all’uso della loro lunga ed appuntita proboscide boccale. Dando sfogo ad una fame che deriva, forse sorprendentemente, non dall’odio per tutti gli altri esseri viventi bensì dall’amore nei confronti di uno, in particolare: il singolo erede che faticosamente partoriscono più volte l’anno, dopo un periodo di gestazione incredibilmente simile a quello delle loro vittime preferite: i mammiferi. Vagamente alieno come il ciclo vitale della maggior parte degli altri insetti, quello della mosca riconoscibile per le ali sovrapposte in posizione di riposo, le antenne biforcute e le dimensioni piuttosto imponenti (fino a 1,5 cm) presenta infatti un metodo chiamato scientificamente “viviparità adenotrofica” il cui fine ultimo risulta essere quello di sottrarre, per più a lungo possibile, la sua larva dall’attacco dei predatori o possibili parassiti. Finalità ottenuta nell’unico modo possibile: quello di tenerla dentro il proprio utero volante. È davvero incredibile, a vedersi: nel diagramma anatomico di questo dannato essere, l’addome appare dunque attraversato da una serie di canali biancastri, entro i quali scorre qualcosa di straordinariamente simile al latte umano. Proteine, amino-acidi e lipidi, portati a convergere presso l’apparato boccale di un vermicello le cui proporzioni progressivamente maggiori tendono ad assomigliare, nell’ultimo periodo, a quelle dell’uovo notoriamente sovradimensionato del kiwi, uccello non-volante neozelandese. Finché successivamente all’ora del parto, la creatura viene deposta in terra dall’affaticata partoriente, per iniziare immediatamente a scavarsi una buchetta per lasciare fuori solamente le appendici nere usate al fine di respirare. Inizia proprio in questo modo, tra la sabbia geografica e del tempo, il successivo capitolo di una crudele storia…

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Quattro anni per immortalare la gloriosa maratona dei girini canadesi

È semplicemente un’eventualità così fuori dalle aspettative ragionevoli delle presenti circostanze… Che un documentario realizzato da un singolo fotografo subacqueo, assistito da alcuni amici nel montaggio e la post-produzione, possa non soltanto raggiungere ma superare abbondantemente la qualità, visuale, scientifica ed originale, di oltre il 90% delle produzioni girate sotto l’egida di un grande marchio televisivo. Raggiungendo in questo modo, come soltanto pochi autori possono aspirare in questo campo, l’empireo qualitativo delle scene accompagnate dalla voce britannica di Sir Attenborough, cui nulla sembrerebbe avere da invidiare, d’altra parte, l’entusiasmo coinvolgente di Maxwell Hohn, naturalista canadese di Vancouver Island che più volte si è tuffato, durante la realizzazione di questo capolavoro, in quello che lui stesso chiama “Uno dei laghi più remoti della sua regione”. Mai chiamato per nome è ciò probabilmente è un bene, vista la palese importanza vantata da questo luogo nell’evidente proseguimento in perpetuo della specie Anaxyrus boreas o del rospo boreale, anuro nordamericano famoso per le sue dimensioni ragguardevoli (fino a 13 cm) e le gremite migrazioni dei giovani adulti attraverso pericolose strade asfaltate, quando si recano dai laghi della loro giovinezza fino all’entroterra delle grandi foreste di pioppi, faggi e abeti, ove potrà compiersi la loro saliente avventura riproduttiva. Mentre nessuno conosce, o forse a questo punto potrei dire conosceva, l’altrettanto notevole spostamento quotidiano compiuto quotidianamente dalla loro forma sub-adulta di ambiente esclusivamente acquatico, quei girini che trascorrono la notte al centro più profondo dello stagno e la palude, ma devono spostarsi dopo il sorgere dell’alba nelle zone ripariane, dove l’acqua più bassa permette alla luce del sole di penetrare senza impedimenti, generando il florilegio d’innumerevoli forme di vita vegetali ed alghe dal variegato aspetto. O come le chiamano loro, più semplicemente, “cibo” che precorre il tempo della metamorfosi, un po’ come le foglie verdi consumate dalla strisciante larva di farfalla, il bruco destinato a guadagnare, con notevole fatica, il suo splendente nonché duplice paio d’ali. In un processo che giunge a coinvolgere, data la capacità di una singola femmina di deporre fino a 10.000 uova, una quantità letteralmente incalcolabile di piccoli individui, il cui aspetto tondeggiante con la lunga coda triangolare, gli occhietti tondi e l’espressione sorridente, finiscono per cooperare nella presentazione di un aspetto complessivo degno di essere ammirato, come fossero gli inaspettati personaggi di un cartoon. Non che sia facile, d’altronde, presentare per immagini una tale meraviglia etologica della natura, vista la natura inerentemente fangosa di queste acque nonché la notevole rapidità dei girini, che vivendo a un ritmo accelerato tenderebbero a spostarsi come fulminei fantasmi fuori e dentro l’inquadratura, se non fosse per il sapiente uso della stabilizzazione video ed il framerate da parte di questo geniale autore. Con un risultato che, ritengo, non può fare a meno di lasciare a bocca aperta: le molte migliaia di piccole creature che si spostano, con evidente chiarezza di obiettivi, tutti nella stessa direzione (sembrano quasi le scene idealizzate della fecondazione umana) incrociando le rispettive traiettorie in un caotico sovrapporsi di corpi e code, in perenne fuga da scorpioni d’acqua, sanguisughe e larve di libellula affamate. Soddisfacendo la voracità nei pochi momenti in cui si posano, senza mai smettere di agitarsi per restare pronti alla fuga, sopra qualsiasi cosa possa offrire anche soltanto il remoto potenziale di nutrirsi, inclusa la mano protesa dell’ammaliato autore del qui presente video.
Che tornando quattro volte per riprendere altrettante serpeggianti generazioni, si è tuffato avendo cura di spostarsi esclusivamente lungo i corridoi naturali tra le ninfee, creati dai castori che si nutrono delle loro radici esposte, al fine di non disturbare eccessivamente la marcia collettiva dei girini. Svelando quindi, in questo modo, gli ultimi segreti del rospo boreale…

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Alto faro spagnolo visitato dall’artista che colora ogni cosa sul suo cammino

Svegliarsi all’improvviso per vedere un qualche cosa di diverso. Come una scintilla, il fuoco, l’ultima propaggine dell’arco iridato. L’arcobaleno che converge nella torre, a implicito memento di un ritorno. Succede al termine di un lungo periodo dedicato alla meditazione, di riemergere dalle profonde stanze per riuscire ad apprezzare, finalmente, una diversa prospettiva sulle molte difficoltà disposte lungo gli alterni sentieri dell’esistenza. Così quello che si presentava in precedenza come candido e incolore, stagliandosi contro le nubi di un cielo qualche volta in tempesta, può trasformarsi nell’insolita tela pronta per ricevere un apporto di trasformazione, profonda e inevitabile, a pilastro che sostiene l’alta volta del soffitto dell’Arte. Arte, immagine, pubblicità, occasione (di farne). Ovvero quel frangente che può meritarsi di trascendere la semplice definizione categorica, ponendosi ad esempio di un potente presupposto di accrescimento. Sull’inizio di un decennio forse tormentato (o almeno, così sembra) e lungo il paesaggio erboso ma non sempre verdeggiante della costa cantabrica, verso i confini di quella parte d’Europa che prende il nome di Spagna, affacciata sull’Oceano Atlantico settentrionale. Un luogo battuto dalle antiche tempeste che in un’epoca lontana, a tante navi costarono l’estremo prezzo del naufragio, almeno finché qui trovaron posto un certo numero di fari per illuminare il cammino, tra cui quello più recente si trova presso il capo Ajo e venne concepito originariamente nel 1907, sebbene ci vollero 23 anni perché le autorità regionali, trovando i fondi e il desiderio, riuscissero finalmente a completarlo. Ed altri 90 affinché il graffitaro e scultore di fama internazionale originario della vicina città di Santander,  Óscar “Okuda” San Miguel Erice, si trovasse bloccato in patria per un periodo sufficientemente lungo da poter dedicare i soli tre giorni necessari a trasformarne completamente il volto.
Per un’iniziativa di derivazione incerta ed effettuata dietro un compenso non particolarmente chiaro (probabilmente per evitare eventuali critiche) facendo seguito alla quale, l’artista quarantenne si è arrampicato sui familiari ponteggi, per portare a termine l’opera temporanea intitolata Infinite Cantabria. Che per quanto concerne l’immagine superficiale affine ad uno slogan, si presenta come la sua familiare realizzazione fatta di triangoli e figure d’animali poste in comunicazione tra di loro, con l’aggiunta di alcune ancore che si richiamano all’ambiente marinaresco, sebbene l’effettiva collocazione ed il messaggio potrebbero collocare questo ultimo intervento tra i più importanti nella già lunga carriera del creativo. Visto come l’occasione costituisca, nei fatti, l’opportunità di rendere omaggio alla terra natìa ed alla particolare fauna delle foreste miste cantabriche, con figure che alludono all’orso, il lupo ed il capriolo di questo habitat, con l’ulteriore aggiunta ben contestualizzata del profilo di un gabbiano in pensierosa attesa. Il tutto comunque concentrato dalla parte rivolta verso l’entroterra lasciando l’edificio relativamente monocromatico per quanto sia osservabile dal mare antistante, al fine di rispettare le leggi e regolamenti per gli ausili alla navigazione in ambito costiero. Verso l’ottenimento di un prodotto finale che si è già dimostrato utile ad attirare 1.800 visite nel singolo giorno della sua apertura, un risultato non da poco considerato la posizione remota e l’attuale situazione spagnola della pandemia, sebbene come spesso capiti per le opere di questo artista, non siano mancate le consuete critiche di un particolare mondo politico, per l’implementazione ritenuta inappropriata degli schemi espressivi, da loro ritenuti ancora oggi d’avaguardia, della Pop Art…

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