L’appartamento adornato dai nidi di un milione di vespe

Ove un tempo il ronzio delle moltitudini riempiva l’aria della città, persiste adesso il silenzio. Cunicoli ombrosi, tra le camere spoglie, celle in sequenza l’una di fianco all’altra senza neppure una traccia residua di vita. Questo perché gli abitanti, seguendo l’istinto dell’ultima esponente di una lunga dinastia regale, hanno deciso di abbandonare la propria casa, con l’intento di trasferirsi in un terreno di caccia migliore. Eppure la pioggia, il vento, il passaggio degli animali e… Non hanno avuto tempo e modo di agevolare il processo entropico di annichilimento, di ciò che era e per quanto ci è dato di sapere, potrebbe non avere luogo mai più, per lo meno con quella specifica contingenza di fattori e configurazione possibile delle stanze. D’altra parte non siamo più fuori, qui. Bensì a casa di Hornetboy a.k.a. The Wasp Whisperer, al secolo Terry Prouty, insolito collezionista di Tulsa, Oklahoma, interessato in tutto ciò che deriva dall’opera di alcuni degli insetti sociali più (ingiustamente) odiati al mondo, tra cui quelli identificati da queste parti col nome di yellowjacket (quasi letteralmente: Gilet Gialli) ma che noi potremmo ricondurre con estrema facilità al concetto più immediatamente comprensibile di vespe. Oppure volendo ricorrere a termini maggiormente dettati dal senso comune: il problematico mostro volante dei giardini. Che non impollina più di tanto, non produce se non qualche volta il miele, che punge per difendere il suo nido e non ha nemmeno la decenza, al compimento di un tale crimine, di passare a miglior vita come le povere api. Ma che possiede, tra tante sinistre caratteristiche, anche un paio di doti notevoli: quella di uno straordinario architetto della natura e la capacità di produrre la carta, acquisita in un’epoca molto anteriore alla nascita di una tale industria dal nostro punto di vista umano.
E può certamente sembrare stravagante l’attività di quest’uomo di 48 anni, che ha dedicato una parte rilevante della sua vita e delle sue finanze a radunare il più ineccepibile e completo repertorio dei loro lavori, fin da principio esclusivamente per la propria soddisfazione personale, piuttosto che per una ricerca scientifica o altra iniziativa orientata alla scienza. Ma la bontà e la completezza il suo lavoro, per quanto ci è dato di apprezzarlo attraverso l’intrigante narrazione che ne viene offerta su Internet, possono fare molto nello stravolgere gli stereotipi di partenza, mostrandoci l’ingresso di un mondo del tutto nuovo…

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La creatura inesplicabile che taluni definiscono farfoglia

In molti ricordano l’inizio del celebre film sull’uomo semplice dal cuore gentile e il nome insolito Garret Flynt, grande prova di recitazione da parte dell’attore premio Oscar Tom Eagle, con l’inquadratura che si sposta lieve per seguire i movimenti di una foglia autunnale di quercia trasportata dal vento (nell’edizione DVD si apprende come, originariamente, avessero pensato d’impiegare una piuma bianca). L’oggetto un tempo interconnesso con le alterne vicende di un essere vivente, che ora lo è di nuovo, mediante l’intervento dei capricci imprevedibili dell’atmosfera, che lo portano dapprima verso il marciapiede, quindi su, in alto e infine verso la pensilina dell’autobus presso cui ha luogo, con un rilassante sottofondo musicale, il primo dialogo di questa pellicola dalla portata generazionale. Non tutti però hanno notato tuttavia, dopo la seconda oscillazione dell’oggetto, l’attimo in cui questo sembra muoversi contrariamente a ciò che la fisica vorrebbe, andando in senso totalmente opposto a quello verso cui si sta muovendo la bandiera americana appesa all’ingresso del parco. Un artificio usato, secondo alcuni critici, per far da simbolo ai “molti eventi inaspettati di questa vita” come l’eroico comportamento da parte di Garret durante la guerra in Corea, il suo acquisto di numerose azioni della nascente compagnia informatica Microsoft e la sua lunga pedalata dal confine messicano fino a Washington, per protestare contro le politiche d’immigrazione del governo U.S.A. La tesi che vorrei quest’oggi sostenere, tuttavia, è di un tipo diametralmente opposto: la foglia secca non va in direzione contraria per una specifica scelta autorale. Poiché essa costituiva, di suo conto, l’effetto di un inganno assai più vecchio della fondazione stessa di quel paese. Più antico, addirittura, dell’uomo.
Ora io non saprei dirvi come, nei fatti, un singolo esemplare di Kallima inachus, la farfalla detta “foglia morta di quercia indiana” fosse riuscita ad introdursi sul set di un film occidentale, violando qualche dozzina di norme sul controllo degli animali introdotti e la logica amministrativa di un ecosistema privo d’intromissioni esterne. Fermando tuttavia le immagini ed usando la lente d’ingrandimento su uno schermo sufficientemente ad alta definizione, potrà palesarsi innanzi ai vostri occhi l’effettiva realtà: le sottili venature nerastre che percorrono le quattro ali, dalla punta arcuata e le lunghe code parallele, concepite per ricordare il gambo o “picciolo” che dir si voglia; la natura lievemente riflettente dei piccoli buchi all’apparenza lasciati dalle uova d’insetto o altri parassiti, in realtà spazi occupati totalmente dallo ialino, la sostanza trasparente capace di ornare le ali dei lepidotteri; ma soprattutto, le coppia di prominenti quanto vistose antenne, facilmente mimetizzate dalla vivace colorazione del fondale.
E sarebbe facile, in considerazione di questo, approcciarsi alla strana intrusa come una “rappresentazione vivente dell’incertezza etc. etc.” laddove io preferirei qui sostenere la tesi che gli eventi talvolta avvengono, anche nell’universo attentamente controllato del cinema, senza la benché minima ragione ulteriore. Non era forse proprio questo, il messaggio di
Garret Flynt?

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Il nuoto delle farfalle capaci di fingersi un drago

Il principale fraintendimento che condiziona la percezione generalista del drago d’Asia è che esso sia una creatura esclusivamente celeste, serpeggiante tra le alti nubi che nascondono il Sole e la Terra. Ma la realtà è che simili esseri, contrariamente ai loro omonimi occidentali asserragliati in vaste caverne, tra scheletri di vergini sacrificali, equipaggiamento carbonizzato di avventurieri e letterali cumuli d’oro, possiedono più di un’interpretazione valida a definirli. Con un ruolo che corrisponde, essenzialmente, a quello di veri e propri signori degli elementi. Tutti e cinque (secondo l’alchimia cinese) inclusa l’acqua, dove risiedeva il più antico e potente di tutti loro. Huánglóng, il Drago Giallo: signore supremo dei mari, fiumi e laghi, sovrano capace d’indurre la caduta delle piogge e con esse, il passaggio delle stagioni. Il che implica, incidentalmente, un certo potere latente nel cadenzare la metamorfosi e la schiusa dei suoi rappresentanti più prossimi nel mondo degli insetti, queste farfalle del genus Lamproptera, capaci di volare e nuotare allo stesso tempo.
Insetti chiamati anche Yàn fèng dié shǔ (燕鳳蝶屬 – Coda di Drago Verde) come determinato da una piccola macchia cangiante sulla sommità delle due ali principali. Che non è certo l’elemento maggiormente visibile, né memorabile della creatura, misurante appena 55-60 mm di lunghezza. Il cui tratto dominante risiede, in effetti, nella capacità di attirare gli sguardi dalle due lunghe derivazioni che partono dal fondo delle sue ali posteriori, estendendosi per una lunghezza capace di raddoppiare quella complessiva dell’animale. Per non parlare della vistosa livrea a strisce bianche e nere che s’intersecano, tutto attorno a una finestra cartilaginea completamente trasparente posta in posizione centrale (lo ialino). Ma tutto il resto svanisce dal secondo istante d’osservazione, nel momento stesso in cui questi memorabili lepidotteri spiccano il volo. Con un’agilità certamente invidiabile da parte dei loro simili di altre provenienze, riuscendo a ruotare sul posto e potendo così restare sospesi, così, quasi come fossero dei piccoli colibrì. Tanto che, con una leggera brezza sollevargli le code, l’impressione che se ne riceve è che ci si trovi dinnanzi a dei pesci magici in uno strato d’acqua totalmente impossibile da vedere, ove il significato della parola “gravità” tende ad assumere un significato radicalmente diverso da quello di superficie.
Finché stanchi per la loro ricerca frenetica di una consorte (dopo tutto, una volta compiuta la trasformazione dallo stato primigenio di bruco, gli restano soltanto pochi giorni di vita) le aggraziate creature si posano a suggere l’acqua da una pozza tranquilla ai margini del sentiero, le ali ordinatamente raccolte al di sopra del tozzo addome. Per iniziare prosaicamente, pochi secondi dopo, a spruzzare dei getti d’urina perpendicolarmente al suolo.

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Snack pre-natalizi: il dolce gusto della cavalletta ugandese

Questione di vita o di morte: ecco il modo in cui viene descritto il tipo di situazione in cui l’uomo moderno andrebbe a ritrovarsi, suo malgrado, a trarre un qualche tipo di nutrimento proteico dagli esseri più basilari del consorzio vivente. Privi di scheletro, privi di polmoni, senza organi complessi né sangue, sostituito da emolinfa ed emocelle, in quantità decisamente più ridotta: insetti. Poiché sono piccoli ed ingrati, verdi, invadenti saltatori e volatori fastidiosi, sempre in qualche modo detestabili ed “impuri”. Ma la percezione pubblica, assieme a un vago e indefinito senso di colpa per le condizioni planetarie vigenti, hanno ormai permesso il profilarsi all’orizzonte di un domani gramo, in cui non avremo più suini, né polli, né bovini, resi incommestibili dal propagarsi di un qualche letale virus, o in alternativa troppo rari per poterne fare l’uso fino ad oggi dato per scontato. E senza alcuna cotoletta né un hamburger potenziale, allora, finalmente ci rivolgeremo a Meridione. Per porre la domanda che da sempre abbiamo mantenuto ai margini della nostra preoccupazione: formiche, ragni, mosche o bruchi? Qual’è l’artropode dal gusto più squisito e appetitoso? Sfera o globo delle mie brame, ecco la risposta (forse inaspettata) il tettigonide del Bush, anche detto cavalletta dalle lunghe antenne (Ruspolia differens) benché le sue abitudini gregarie, a conti fatti, risultino bastanti a farlo ricadere a pieno titolo nella categoria biologica delle locuste.
Altrimenti non si spiegherebbe l’atmosfera di festa popolare che tende a diffondersi ogni anno a maggio, e poi di nuovo verso la metà di novembre, quando la stagione delle piogge causa un’ampia serie di modifiche nel territorio africano d’Uganda, culminanti con l’aumento esponenziale della popolazione del temuto artropode, distruttore dei terreni coltivati dall’uomo. E quando le locuste o cavallette che dir si voglia, dopo tutto si tratta di una distinzione informale, percepiscono uno stato di sovrappopolazione, la loro reazione è sempre quella di formare grandi sciami, poco prima di spiccare il primo balzo e mettersi a migrare. Una condanna, questa, ma anche un’occasione. O per lo meno in questo modo viene vista nella regione a Sud-Est della città di Masaka, considerata il polo nazionale di una fiorente, quanto redditizia industria. Ignote restano, tutt’ora, le remote origini di questa tradizione culinaria del popolo ugandese, benché la tipica reazione degli occidentali che assaggiano la cosiddetta nsenene saltatrice lascino intendere come debba trattarsi di ben più che una mera soluzione culinaria dell’ultima spiaggia. Pare, piuttosto, che possano persino definirsi deliziose, a patto che il cuoco conosca la ricetta giusta per valorizzarne il gusto implicito di partenza. Che prevede, nella maggior parte dei casi, la frittura in padella con generose quantità d’olio di semi, previa aggiunta di sale, spezie e cipolla tagliata finemente, prima di essere condite e servite in un piatto. Oppure adeguatamente asciugate, prima di essere afferrate con le mani come fossero meravigliose patatine. Come spesso capita, l’unico limite è la fantasia…

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