Non c’è pace nei giardini dove cresce l’albero di spade americano

Sono le 19:20 quando dopo una lunga giornata di lavoro nella placida contea del Suffolk, con al seguito le buste di un acquisto rapido dei generi di prima necessità, fate il vostro ingresso nel vialetto buio e, come sempre, parcheggiate l’automobile davanti a casa. Aperto quindi il portabagagli, prese le due buste dal peso non propriamente indifferente, vi avviate con tranquillità evidente verso l’uscio che si apre verso la cucina. Ed è allora che per un caso estremamente sfortunato, mettete il piede in fallo sullo skateboard dei vicini, lasciato qui dal loro figlio orribilmente disordinato. Un passo rapido a sinistra, per tenervi in piedi, quindi uno in avanti, e vi trovate con la fronte a pochi millimetri dalla ruvida corteccia dell’albero che la natura, nella sua infinità generosità, vi ha regalato. Del cappellino da baseball che portavate in testa, non resta traccia. Qualcosa di simile a una griglia, composta da una serie di pericolosi aculei, vi mantiene in una morsa sistematica e pericolosa. Paralizzati dal pericolo scampato, sentite qualcosa di caldo che vi cola sulla nuca… Ssangue? “Oh, dannato albero di Giuda!”
Ore 12:20, sul finire del taglio dell’erba domenicale, portato a termine col tagliaerba della John Deere. Seduti comodamente, le mani salde sopra il piccolo volante, annusate quell’odore intenso della primavera, simile all’aroma del glicine europeo. Con un rapido quanto elegante gesto, girate attorno ai tronchi dell’assembramento responsabile, sorridendo all’indirizzo di quelle piante preistoriche, simbolo di un’epoca dimenticata. Ed è allora che sentite l’odiato suono, come uno SNAP seguito da un sobbalzo del veicolo tremendamente sfortunato. Seguito dal sibilo dello pneumatico anteriore destro che perde pressione. Prima ancora di fermarvi, sapete perfettamente di cosa si tratta; “Oh, dannato albero di Giuda!”
Ore 7:00 di mattina, siete un’ape in cerca di nettare per l’alveare. Girato attorno all’area delle aiuole, v’inoltrate in territori nuovi, lungo l’asse della strada per le tipiche villette a schiera degli umani. È inverno e dunque, il buio rende impercettibili gli spostamenti ai margini del campo visivo. Un lieve fruscio, un battito d’ali, è tutto quello che avete il tempo di notare, prima che il becco dell’averla torturatrice vi ghermisca e vi trasporti in alto, verso il luogo dell’ultimo annientamento vegetale. Dannato uccello, che cosa ti ha fatto spingere fin quaggiù! L’ultima cosa che vedete, prima della fine, è l’acuminata triade di enormi aculei, lunghi come coltelli, che emergono dal tronco dell’orribile COSA. “Bzzt, dannato albero di Giuda?”
Perciò è strano, per non dire totalmente incomprensibile, che nell’intero areale di una tale pianta nessuno faccia niente per rimuoverla col fuoco, quando necessario, vista la quantità d’infortuni, danni e l’influenza spesso significativa indotta sull’ecosistema circostante. È stato spesso affermato che se può esistere una specie invasiva all’interno del suo stesso ambiente di sopravvivenza, questa è certamente il Gleditsia triacanthos, comunemente detto Spinacristi (perché sarebbe stato usato per la Sua corona) o in lingua inglese, albero della locusta del miele. Il cui nome non costituisce, incidentalmente, l’appellativo di un insetto in carne, chitina ed ossa, bensì un ulteriore riferimento biblico, al versetto del vangelo secondo Marco in cui si parla del santo Giovanni Battista, il quale espiava i peccati terreni vagabondando con un saio in pelle di cammello, mentre sopravviveva nutrendosi soltanto “di locuste e miele”. Il che conduce ad un’ulteriore analogia per lo più metaforica, possiamo ben dirlo, visto che questa specie non sarebbe giunta fino al continente eurasiatico prima del XVII secolo trascorso dopo lo svolgersi degli eventi vissuti nella provincia di Galilea (compresa l’Italia e in modo particolare la Sicilia, dove viene talvolta rinominato “acacia spinosa”). Detto ciò, non pensate che una tale pianta possa risultare utile nel procacciarsi il nettare o la mielina sotto la corteccia, usata dai sopra citati insetti eusociali per produrre quella dolce sostanza. L’unica parte commestibile dell’albero, in effetti, si trova al centro dei suoi baccelli prodotti verso il termine della primavera. Soltanto i più spericolati, d’altra parte, osano allungare le mani dentro quel groviglio acuminato, per cogliere lo snack di un tanto insignificante valore. Per gli altri, l’albero costituisce sopratutto un fastidio. Eppure, non è affatto facile liberarsene: tutti, nel suo paese di provenienza, conoscono la sua straordinaria capacità di proliferare. Disseminato da passeri, scoiattoli e altri piccoli animali, ha l’abitudine di palesarsi con rapidità inaspettata all’interno delle proprietà più disparate. Finché qualcuno, non conoscendolo o impietosito dai suoi molti tentativi, non finisce per esclamare: “Però, dopo tutto… Qui un albero potrebbe anche farci una bellissima figura.” Ed a quel punto, è troppo tardi…

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Un’altra vittima del cactus più veloce del West

Teddy Bear Cholla

Non è che la natura lo faccia di proposito, sia chiaro. E qui nemmeno siamo di fronte a una temuta situazione del tipo “Chi estrarrà la spina dalla gamba, sarà re di Inghilterra.” In primo luogo, perché di punte all’interno del malcapitato arto ce ne saranno almeno una dozzina lunghe (visibili) più altrettante piccole (invisibili) destinate a infliggere dolore nei momenti maggiormente inaspettati al proprietario, per settimane oppure addirittura mesi. E poi del resto, qui non ci troviamo di certo nella fredda terra di re Artù, in prossimità del cupo Settentrione. Ma verso la metà assolata di quell’altro continente, stretto e lungo, che si estende da un polo del Pianeta fin quasi all’altro, attraverso un tripudio di paesaggi che chiamare mutevoli, oppure variegati, sarebbe estremamente riduttivo. Non tutti egualmente ospitali, eppure ciascuno innegabilmente perfetto, dal punto di vista dell’evoluzione degli organismi che si sono adattati a viverci attraverso le generazioni. Così capita al turista, un giovane venuto in Arizona fin dall’umido e remoto Michigan, di appropinquarsi con fare scherzoso e farsesco ad una pianta di Cylindropuntia bigelovii, quella che i nativi chiamano, con sardonico sense-of-humour dovuto al suo aspetto falsamente morbido e grazioso, la Cholla Orsacchiotto di Peluche. Quasi come non fosse la singola esistenza vegetale più odiata dell’intera area geografica che si estende dal Sud-ovest degli Stati Uniti al Messico del Nord, ivi incluso il vasto deserto del Colorado e di Sonora, quello del Nevada e la sottile penisola della Baja California. La ragione del cui sentimento appare più che mai giustificata, dalle successive tragiche tribolazioni: il ragazzo infatti non sapeva, o in quel momento non ricordava, della problematica abitudine di questo vegetale a perdere letteralmente i pezzi, un po’ come fossero foglie d’albero in autunno. Ma a differenza di quelle altre cose, per l’intero corso dell’anno, e con lo scopo ben preciso di attaccarsi a tutto ciò che gli capita a tiro con le loro acuminate spine. Così egli ne calpesta uno con i sandali aperti, soltanto per ritrovarsi quest’oggetto impossibile da toccare saldamente attaccato alla suola dell’impropria calzatura… Che cosa avrebbe potuto fare? Se non dare un gran calcio, nel tentativo di far volare via lontano l’orribile granata vegetale. Lancio che prontamente si verifica secondo il progetto, ma orribilmente, inaspettatamente, proprio all’indirizzo di un suo compagno di viaggi rimasto fino a quel momento fuori dell’inquadratura, colpendolo all’altezza della caviglia sinistra.
Ora, se l’amico fosse stato dotato di blue jeans piuttosto spessi, o pesanti pantaloni da lavoro, forse gli sarebbe andata pure bene. Come del resto, se soltanto si fosse trovato un po’ più in la. Se, se… Ma naturalmente, qui non siamo in clima adatto a un abbigliamento invernale, e lui non poteva fare a meno di assistere ai vezzi proto-naturalistici del compare. O almeno così sembra. Fatto sta che il pezzo di pianta, conclusa la sua parabola, non soltanto perfora la gamba dell’indumento, ma anche quella del proprietario. E lì rimane, allegramente conficcato. Assurdo. Un attimo di panico. L’involontario responsabile, colto da un improvviso moto d’empatia e dispiacere, corre per assistere la vittima saltellante ed in preda alle imprecazioni, ritrovandosi quasi immediatamente un certo numero di spine nelle dita della propria mano. Il ragazzo appare sempre più sofferente e dispiaciuto, ed arriva ad esclamare per assurdo: “Ok, ok, più tardi potrai lanciarmi anche tu un cactus [e saremo pari!]” mentre ancora tenta faticosamente di rimuovere il crudele corpo estraneo. Operazione che finalmente riesce, grazie ad un provvidenziale tubo dell’acqua, che liberato il tutt’uno creato dal proiettile, permette di tirare su la gamba del pantalone, per assistere finalmente al…Disastro completo. La gamba è ridotta alla stregua del peggior puntaspilli immaginabile, con già sangue, gonfiore e irritazione a profusione. Ciò che inevitabilmente viene dopo, quindi, è la complessa fase di estrazione degli aculei vegetali. Una missione in se e per se particolarmente gravosa, a causa di certe speciali caratteristiche della pianta…

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Il video della pianta carnivora che cattura una pecora intera

Sheep Brambles

Un soffio di vento, il grido del merlo, un lieve agitarsi del fusto centrale: “Non è come sembra, lo giuro!” Sembra esclamare, la fronzuta divoratrice. Come già centinaia di volte negli ultimi 10 anni da che Tim e Sandra, agricoltori irlandesi, hanno iniziato a pubblicare le proprie vicende quotidiane sul loro canale di YouTube, WayOutWest. Ma lo sguardo non mente: l’ennesima pecora in età medio-giovane, quindi non ancora in età da tosatura ma già dotata di un fitto manto, si è avventurata ai margini del terreno recintato della fattoria, finendo vittima di un’entità ben più pervasiva, pericolosa ed attuale di qualsiasi fiabesco lupo. Si tratta di una scena che, vista con gli occhi dell’intuito potrebbe facilmente suscitare un duraturo senso di sgomento. Perché non c’è davvero niente che possa dare luogo ad ipotesi gradevoli, qui: il povero animale si trova impalato, perfettamente immobile fino al momento della sua dipartita, come spesso fanno gli ovini che ormai hanno perso ogni residua speranza. Mentre una propaggine verde, o per meglio dire un inquietante cordone di molti tentacoli avviluppati tra loro, si protende fino al suo dorso candido, intrappolandola senza via d’uscita. Presto o tardi, lei morirà di stenti. E benché quanto segue sia impossibile, è facile immaginare il mostruoso arto che si agita nell’aria, alla maniera di un vecchio film dell’orrore, alla ricerca di un essere abbastanza disattento, o impreparato a fuggire, finendo per costituire la preda elettiva di questa giornata. Ma smettiamo di divagare: si tratta di un rovo comune, Rubus ulmifolius, la pianta dal piccolo frutto rosso, poi nero una volta maturo. Che si dice dovesse ricordare il sangue di Cristo, che ne fu incoronato. Sulla cui essenza spinosa piuttosto familiare, tuttavia, la caratteristica voce narrante di Tim espone un’ipotesi, così biologicamente chiara, tanto intuitivamente logica, che viene da chiedersi come mai nessuno avesse mai pensato di offrirla al pubblico generalista del web. Almeno, in questi specifici termini: “Guardate le spine” Ci fa lui, parafrasando: “Le loro punte acuminate, in effetti, sono rivolte verso l’interno della pianta, come si trattasse di uncini. Più che un mezzo di difesa, costituiscono un’arma!” E perché mai un vegetale simile, da sempre apprezzato per le sue more e che prospera nei climi pressoché di ogni parte del mondo, dovrebbe avere bisogno di aggredire animali? Se non… “Guardatela. Prendetene atto. Questa, nessun altra, è la pianta carnivora più grande e affamata del mondo.
Si, come no! Viene da rispondere, in un primo momento. Non perdiamo la prospettiva: stiamo assistendo alle mere tribolazioni di una pecora, il cui lungo pelo è rimasto impigliato “accidentalmente” ai rami di una pianta che “per puro caso” era lì. Eppure, immaginate l’ipotetica situazione in cui un uomo dovesse trovarsi in piedi nel mezzo di uno stretto corridoio scuro, con una spada da samurai rivolta dinnanzi a se. Qualcuno, prima o poi, passerà di lì, restando infilzato. Chiamereste a quel punto, costui, innocente? Isaac Asimov, l’autore di fantascienza russo naturalizzato statunitense, aveva teorizzato nei suoi romanzi la questione delle tre leggi della robotica, incise a fuoco vivo nel cervello positronico degli androidi, la cui prima recitava: “Non recherai danno ad un essere umano. Né permetterai che un essere umano riceva danni, a causa del tuo mancato intervento.” Ad ennesima riconferma che non occorre compiere un gesto, effettuare un’azione, perché si sia colpevoli di un delitto. E non è dunque possibile che allo stesso modo il rovo uccida, semplicemente esistendo? La pecora, probabilmente, ha un’opinione piuttosto enfatica sulla questione. Ma adesso passiamo ad un punto essenziale dell’indagine istigata da Tim, ovvero, la ricerca di un movente. Che potrebbe dirsi, se possibile, ancora più inquietante…

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