Nell’umida estate australiana del 2021, riemerge l’orda periodica dei roditori

Molti furono, attraverso il trascorrere dei secoli, i peccati originali commessi dalla genìa umana. Ma nessuno significativo ed importante quanto quello di aver creduto, anche soltanto per un attimo, che la nostra esistenza potesse perpetuarsi in modo indipendente dall’ecosistema immanente. Così l’inizio di una storia, come quella della colonizzazione di un Nuovo (-issimo) Mondo, può essere inficiata dal verificarsi di un fondamentale fraintendimento. Che il mare, per quanto è vasto, possa bastare a separarci da un particolare e squittente male. L’immagine speculare dei nostri sogni, aspettative ed aspirazioni, traslato all’interno di un piccolo corpo dotato di muso, baffi e la più lunga delle code. Le notizie hanno iniziato a sovrapporsi verso l’inizio dello scorso settembre 2020; quando all’inasprirsi della calura estiva, dopo una primavera più uggiosa del solito, gli agricoltori delle zone rurali ad est del continente australiano hanno iniziato a intravedere strane moltitudini verso il sopraggiungere del vespro: letterali migliaia, se non milioni di saettanti forme pelose, non più inclini a limitare le proprie esplorazioni nell’oscurità profonda della notte; ma piuttosto prepotenti, quanto basta, per delimitare pubblicamente i nuovi confini del proprio territorio ancestrale. Mus musculus, il topo domestico comune: colui che emerge, ancora questa volta, dalle sue profonde e silenziose tane. Con l’intento chiaramente esplicito di conquistare un continente.
Il termine anglofono utilizzato per identificare un simile disastro ecologico, paragonabile alla stagionale venuta delle orde di cavallette, è mouse plague, per analogia linguistica con gli anni horribiles della peste nera, sebbene quest’ultima malattia fosse stata diffusa, ai tempi del Medioevo, principalmente dalla specie ben diversa del Rattus rattus, alias ratto nero. Ed ancorché si tratti, a differenza della casistica del più temuto insetto saltatore al mondo, di una sorta di tempesta perfetta capace di verificarsi, oltre che in Australia, in una sola altra nazione del nostro pianeta: la Cina (dove comunque, risulta essere assai più raro). Secondo il coincidere di una serie di fattori che avevano permesso, in determinati ambienti, di prevedere il probabile verificarsi dell’evento attualmente in corso: una serie di anni di magra, la cui aridità aveva portato alla progressiva riduzione del numero complessivo dei topi, causa fallimento del loro frenetico processo riproduttivo. Subito seguìti, per uno scherzo infausto del destino, dalla primavera del 2020/21 (già sopravvenuta presso simili territori meridionali) da una serie di significative tempeste cariche di rovesci significativi. Capaci di lavare via il metaforico tappo, costituito dalle circostanze ecologiche, che aveva contribuito ad impedire il ritorno del popolo brulicante dalle invisibili regioni del sottosuolo. Eventualità che parrebbe solita verificarsi, in media, ogni periodo di circa quattro anni, e che nell’accezione di stavolta sembrerebbe essere, secondo le testimonianze aneddotiche raccolte dai notiziari locali, una delle peggiori a memoria d’uomo. Naturalmente: chi aveva mai davvero pensato, che con l’arrivo ed il passaggio di un singolo Capodanno bisestile, le cose avrebbero davvero cominciato a migliorare?
Lo scenario, a quanto pare, è davvero terrificante e riprende a pieno titolo quello verificatosi negli stessi stati del Nuovo Galles del Sud e il Queensland durante l’anno 1994, durante cui i danni arrecati all’agricoltura ammontarono a una quantità stimata attorno ai 96 milioni di dollari. Ma l’economia, in un simile frangente, non è l’unica a soffrire, mentre i racconti della gente e le testimonianze videoregistrate su YouTube parlano d’esperienze più che infernali, con spropositate quantità dei piccoli esseri che ricoprono totalmente il terreno attorno alle case, s’insinuano in ogni pertugio, costruiscono i propri nidi nei luoghi meno opportuni. Emma Henderson, residente di Merriwa, racconta del forno di casa che aveva iniziato a surriscaldarsi, finché non scoprì l’intera colonia di roditori rifugiata dietro l’involucro dell’elettrodomestico, in un comodo nido realizzato con il materiale isolante prelevato direttamente dal dispositivo (“Oh, l’odore, non potete immaginare l’odore!”) Altri membri della formidabile specie, nel frattempo, non si sono dimostrati altrettanto fortunati: come quelli che hanno tentato di penetrare all’interno del surgelatore nel drugstore di  Naav Singh, a Gulargambone, soltanto per venire fatti a pezzi dalle pale dei ventilatori integrati, in un sanguinoso episodio capace di ripetersi anche 400 o 500 volte nel corso di una singola sera. E che dire della poltrona di Lisa Gore, a Toowomba, che ha raccontato al Guardian di aver iniziato a sentire uno strano odore, finché togliendo la fodera esterna non ha scoperto con orrore un’intera allegra famigliola, che si era costruita casa tra l’imbottitura e i cuscini dell’elemento d’arredo. Esperienze personali che, per quanto orribili, non fanno che iniziare a grattare la superficie, di quella che costituisce una vera e propria manifestazione dell’inferno in Terra…

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La distruttiva fame arboricola del porcospino nordamericano

Nella nebbia di un’alba umida e fredda, il giovane melo sorgeva stolido nel mezzo del giardino pubblico recintato sul confine esterno della città di Albuquerque. Appariva chiaro, tuttavia, la natura per lo più finale di una tale condizione tutt’altro che duratura nel tempo. La corteccia dello snello arbusto se osservato a partire dalla chioma superiore appariva infatti frastagliata a mezz’altezza, prima di cessare in maniera pressoché completa verso i due metri dal suolo. Stretti canali trasversali, in un susseguirsi di linee accuratamente intagliate, ricoprivano il legno rimasto nudo di un color marrone chiaro, ricoperto di uno stretto strato di linfa simile al sangue di una vittima innocente, già contribuendo ad attrarre gli insetti ed i microrganismi che avrebbero sancito l’ora del botanico tramonto. Piccole mezzelune legnose, scure tra le foglie autunnali, costellavano l’area circostante il povero tronco già condannato a un lento processo di disfacimento. “Ca…Castoro? A queste latitudini?” Fece il primo dei due custodi colpito dall’inconcepibile scena di vandalismo. Fu in quel momento, tuttavia, che un un lieve movimento tra le siepi tradì la silenziosa controparte. Una schiena vistosamente irsuta spuntò dondolando tra i radi cespugli del sottobosco. Preceduta da un muso tozzo e baffuto, non del tutto dissimile da quello di una comune cavia domestica nella sua gabbietta situata sul tavolo della cucina. Se non che il roditore in questione, considerati i vasti spazi della natura statunitense, doveva pesare un minimo di 15-20 Kg. La strana bestia emise un sommesso richiamo, simile al suono di un kazoo, per poi voltarsi ed avanzare lentamente di lato. Ben sapendo per l’esperienza che nessuno, proprio NESSUNO si sarebbe sognato di avvicinarsi.
Con una strategia difensiva sostanzialmente simile a quella della puzzola (chi tocca muore, non sto scherzando) uno dei più rappresentativi mammiferi degli inverni nordamericani, dagli Stati Uniti al Canada e nell’intero territorio dell’Alaska è famoso per la sua insolita abitudine di saltare completamente il letargo, potendo fare affidamento su una dieta a base vegetale piuttosto variegata se gli è concesso dal clima (frutta, bacche, radici, germogli, erba particolarmente nutriente) per quanto diviene piuttosto concentrata su un’unica pietanza quando uno spesso strato di neve comincia a ricoprire ogni possibile alternativa. A quella pietanza, in genere giudicata poco saporita, che è l’interfaccia legnosa tra la corteccia e l’interno del tronco, chiamata scientificamente lo strato del “cambio”. Ed è così che il fenomeno si ripete, fin da tempo immemore, di alberi dalla perfetta in salute che si ritrovano improvvisamente scartati come una confezione di patatine per l’intero vasto areale di questa bestia dalle abitudini notturne, senza che nessuno possa essenzialmente fare alcunché per prevenirlo. Benché l’impiego di recinzioni e trappole possa dimostrarsi variabilmente valido a seconda dei casi, non è semplicemente possibile difendere tutti gli alberi di una foresta. Ed è così che le frondose vittime verticali, una dopo l’altra, continuano a cadere sotto l’insistente masticazione dell’Erethizon dorsatum, più comunemente e graziosamente detto in lingua italiana, l’ursone…

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Il topo che ottiene il suo potere dall’albero della morte africano

Quando al termine dell’anno 2007 in Kenya venne dichiarato il risultato delle presidenziali, che vide la problematica ed inaspettata riconferma di Mwai Kibaki, nel paese si aprì una crisi destinata a sfociare ben presto nella violenza. Le critiche e i sospetti del Movimento Democratico Arancione, ascoltate da diversi gruppi politici, tribali e terroristici del tormentato paese, furono quindi il segnale che avrebbe dato inizio a violenti disordini civili. Durante i quali, a causa della difficoltà di reperire armi da fuoco in Africa Orientale, le antiche culture locali sfoderarono uno strumento ormai dimenticato da tempo: il cardenolide, un potente veleno contenuto all’interno dell’albero Acokanthera schimperi, comunemente detto in lingua inglese il poison arrow tree. Migliaia di punte sibilanti, accompagnate da altrettante asticelle piumate, iniziarono così a sibilare da un lato all’altro della Rift Valley, assolvendo perfettamente la compito per cui erano state create: indurre un’incremento drammatico dei battiti cardiaci di chiunque venisse anche soltanto superficialmente ferito. Con conseguente, irrimediabile e immediata dipartita dal mondo dei viventi. Nell’intero mondo vegetale non esistono, d’altronde, molte altre sostanze che si siano evolute con la specifica funzione di riuscire a dissuadere un elefante. E di cui soltanto pochissimi milligrammi, una volta entrati in circolo, possono assicurare la morte di un essere umano adulto. I gruppi armati dei Kalenjin, Mungiki, Chinkororo e Mulungunipa, tuttavia, non erano i soli a conoscere un simile segreto potenzialmente letale per i loro nemici. Lungamente noto a una creatura assai più piccola, ma non meno letale, che si aggira di notte nel sottosuolo della foresta, il Lophiomys imhausi.
Potrebbe sembrare, in un primo momento, nient’alto che una puzzola striata (Ictonyx striatus) data la colorazione bianca e nera, la coda folta e le movenze inarcate del corpo grande approssimativamente quanto un coniglio. Creatura di per se abbastanza maleodorante, ed universalmente temuta, da poter osare di sottrarre il cibo sotto il naso dei leoni. Una chiara soluzione aposematica, benché il destino dei grandi felini eccessivamente aggressivi, ineluttabilmente, risulterebbe ancor più drammatico nel caso del cosiddetto topo crestato. Un singolare rappresentante, a seconda della scuola tassonomica, della famiglia dei muridi o cricetidi, che l’evoluzione ha preparato ad un mezzo di difesa tanto orribile quanto singolare: mordicchiare le foglie e i rami del fatale albero Acokanthera, per poi provvedere a cospargersi i fianchi della sua linfa scaturita dall’inferno verde di epoche preistoriche dimenticate. Un approccio all’autodifesa per il quale il roditore dalla lunghezza approssimativa di 50 cm risulta perfettamente attrezzato, vista il modo in cui nasconde, sotto la propria impressionante criniera erettile, alcuni peli specializzati dalla consistenza spugnosa, in grado di restare imbevuti maggiormente a lungo del veleno cardiaco misto alla saliva dell’animale. Nei confronti del quale il topo riesce invece ad essere, di contro, prevedibilmente immune ad ogni tipo di effetto. Ragion per cui risulta comprensibile il fatto che, fino a novembre del 2020, nessuno avesse osato avvicinarsi abbastanza a queste creature nel loro ambiente naturale, da poter approfondire la loro struttura sociale ed abitudini ereditarie. Almeno fino al coraggioso studio scientifico, pubblicato sul Journal of Mammalogy da un gruppo di studiosi guidati dalla biologa dell’Unversità dello Utah, Sara Weinstein…

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Un altro anno di animali per il tronco più affollato della Pennsylvania

Possa la mia storia essere la prova. Di come la morte non debba necessariamente corrispondere, in natura, alla fine dei processi che coinvolgono l’essenza di una singola entità vivente. E la rete di collegamenti ed interconnessioni, che unitariamente la collegano alle collettività distinte di uno specifico contesto d’appartenenza. Come caddi, un giorno ormai distante, lungo il corso di un torrente nell’ombroso stato di Keystone. Pino della Virginia, vecchia quercia, ginepro, noce americano o ippocastano: chi riesce più a ricordarlo, ormai? In un luogo variegato come può esserlo soltanto il continente paleartico, tanto vasto e incontaminato da aver mantenuto in tempi non sospetti la definizione di “Nuovo” mondo. Patria di animali variegati ed animali molto noti, in quanto simboli dal canto loro di una sovrapposizione non del tutto conclusiva tra gli spazi dell’uomo e quelli dedicati a loro. Un tronco messo di traverso, pensa, lungo il corso di quello che scorre da una fonte fino alla destinazione marittima o lacustre; nient’altro che detriti da rimuovere per garantire l’ottima risoluzione di un imprevisto. Eppure per uccelli, orsi, felini e altri mammiferi, ciò può essere l’inizio di un servizio utile per la comunità indivisa. Il ponte, semi-permanente, verso l’altro lato delle circostanze…
Quanto state per vedere (o forse, avete già guardato) proviene da una volutamente non meglio definita “zona montana” nella parte nord-est degli Stati Uniti, benché l’utente di Reddit OldCoaly sembri averla identificata con successo come l’area di conservazione naturale WMU 4D, non troppo lontano dalle cittadine di Williamsport e State College, chiamata in questo modo per l’indubbio onore di ospitare la sede principale della sola ed unica università della Pennsylvania. I cui frequentatori e professori condividono, come coscienza collettiva, questa sensazione di essere vicini al nesso e il cardine del centro incontaminato di un’intera biosfera, come testimoniato dalla frequente occorrenza d’incontri con coloro che l’avevano occupata per primi. Un’occasione geograficamente rara, dunque, quella colta in modo tanto spettacolare da Robert Bush Sr, titolare ed unico amministratore del canale di YouTube Bush’s Pennsylvania Wildlife Camera, basato su una premessa semplice quanto davvero affascinante: offrire al grande pubblico l’occasione di conoscere le spettacolari immagini raccolte, attraverso il trascorrere dei mesi, da una serie di videocamere disposte in luoghi strategici attraverso il grande verde della regione che ospita la sua casa. Nessuno tanto valido e funzionale, ad ogni modo, quanto quello del succitato torrente, proprio nel luogo in cui tutti, nessuno escluso, paiono aver identificato l’arteria stradale verso l’irrinunciabile soddisfazione quotidiana. Ed è un appello che sarebbe degno della Vecchia Fattoria se soltanto tale canzone, piuttosto che al mondo degli animali addomesticati, fosse dedicata ai loro simili al di là dell’alto muro dove inizia l’assoluta libertà operativa e situazionale. Certo è che, d’altronde, fa una certa impressione osservare un consorzio tanto variegato di creature, spesso nemiche tra di loro, che occupano a turno gli stessi pochi metri di foresta…

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