La macchina capace di trasformare in musica 2 Km di filo

Mentre l’odio dell’umanità nel confronto dei propri vicini stava raggiungendo l’apice, con l’Europa semi-distrutta, il Pacifico in fiamme e le moltitudini soffrivano massacri inusitati a causa di questo o quell’ideale, come nell’ultima strofa di un poema mitologico anche i fantasmi vennero messi in condizione di dire la loro. I primi furono gli Alleati, con la costituzione nel 1942 della cosiddetta Ghost Army, un gruppo di forze speciali americane incaricate di far comparire eserciti immaginari sulle mappe logistiche dei propri nemici. Carri armati gonfiabili, manichini e i suoni inconfondibili della guerra, riprodotti attraverso dei grossi altoparlanti amplificati. Mentre dall’altra parte delle barricate del Reich, con l’evidente realizzazione che la guerra non sarebbe stata facile né breve fino al punto a cui era stata fin’ora pubblicizzata, i discorsi del führer stavano diventando sempre più frequenti. Ma ciò che riusciva, più di ogni altra cosa, a coinvolgere il popolo era come un simile personaggio riuscisse a parlare quasi contemporaneamente in luoghi estremamente distanti, lasciando sospettare che avesse in qualche modo guadagnato il dono dell’ubiquità.
Entrambe situazioni che sarebbero state assai difficili da decifrare per i rispettivi ufficiali di intelligence, se ciascuna delle due controparti non avesse potuto disporre di un tipo di stregoneria speculare, parimenti finalizzata all’immagazzinamento e riproduzione elettronica del suono. O per essere più precisi, niente che assomigliasse direttamente al vecchio sistema inventato da Thomas Edison, il fonografo risalente al 1877 coi suoi grossi e delicati cilindri di cera, né tanto meno l’alternativa piatta e larga in vinile. Perché dico, ve l’immaginate un soldato col giradischi o il grammofono, in marcia tra i pericoli del campo di battaglia? No, ciò che gli schieramenti avevano riscoperto, portandolo fino alle sue più estreme conseguenze attraverso strade sostanzialmente diverse, era il segreto per cristallizzare la voce (o i suoni) attraverso il magnetismo. L’evoluzione diretta di quanto messo assieme, per la prima volta, da un’altra figura di scienziato assai meno noto alle a livello internazionale, forse perché di provenienza “soltanto” europea: Valdemar Poulsen di Copenaghen, con il suo rivoluzionario telegraphone del 1898, quello che viene generalmente descritto dalle cronache ingegneristiche come il registratore a filo.
Strade alternative o possibili della storia, come narrato dal tipo più classico di ucronia. Che cosa sarebbe successo se gli Alleati avessero vinto la guerra… Della registrazione audio? Già perché dal punto di vista tecnologico, c’era in effetti molto che la Germania potesse insegnare al resto del mondo, se soltanto non avesse avuto una leadership tanto ferocemente nazionalista, ed il sistema del registratore magnetico impiegato dagli agenti dello Zio Sam era di un tipo che oggi può far sorridere, per il suo funzionamento arcaico e limitato. Antecedente, persino, all’invenzione del sistema superiore del nastro. Come appare più che mai chiaro da questa dimostrazione pratica ad opera dell’appassionato di elettronica vintage Techmoan, già autore d’innumerevoli brevi documentari sulla storia moderna della tecnologia. Il quale sembrerebbe aver ritrovato dopo “oltre due anni di ricerche” un esemplare perfettamente funzionante di Webster-Chicago modello 18 risalente alla metà degli anni ’50. Nient’altro che la versione perfezionata, e ad uso preferibilmente civile, di quanto aveva saputo dimostrarsi strategicamente utile nel corso della seconda guerra mondiale. Ed emerge chiaramente dopo pochi significativi minuti, quel senso di trovarsi di fronte a un letterale capolavoro d’ingegneria e design, capace di lasciare il segno nel corso della sua epoca di commercializzazione almeno quanto sono riusciti a farlo in epoca più recente il CD-Rom ed il formato digitale MP3. Se soltanto non fosse stato importato subito dopo, tra gli altri trofei di guerra, l’approccio d’un sistema innegabilmente migliore…

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Bocca-di-Falce, il ragno pacifico dall’aspetto infernale

L’associazione della lingua greca allo studio della scienza ha un’origine cronologicamente remota. Un tempo lingua franca della cultura, come l’inglese odierno, l’antico idioma ellenico presenta importanti vantaggi anche a livello sintattico: una terminologia coniugabile, declinazioni per cancellare l’ambiguità (laddove la sintassi anglosassone è spesso invariabile) e il fatto che, almeno in Europa, essa venga spesso studiata come parte del percorso scolastico dei più prestigiosi curriculum liceali. Quello a cui lo stesso Linneo, tuttavia, non ebbe modo di fare caso quando classificò la famiglia tassonomica dei ragni Tetragnathidae, era l’associazione inerente tra le sue quattro (τέσσερα) mandibole (Γνάθος) e l’espressione, questa volta più che mai latina, di “Si vis pacem, para bellum” ovvero “Se vuoi la pace, preparati alla…” Guerra. Un conflitto armato, generalmente umano, tra due o più entità collettive  distinte, ciascuna organizzata sotto un vessillo simile, ma diverso. Eppure sarebbe quanto mai ingenuo, nonché superficiale, immaginare che la forma più elevata di vita animale sul pianeta Terra sia l’unica in grado di veicolare il proprio bisogno di soverchiare ed annichilire il prossimo attraverso dei terrificanti implementi d’uccisione. Quando basta osservare talune specie più piccole, e prolifiche, per notare l’evidente presenza nella loro dotazione congenita di attrezzature d’uccisione, sviluppate attraverso lo strumento più lento e mostruosamente flessibile dell’evoluzione.
Fortuna vuole che oggi esistano culture, come quella statunitense, maggiormente portate ad evidenziare una simile associazione. Come emerge con enfasi da questo drammatico segmento dello show televisivo Monster Bug Wars, in cui un esponente della suddetta genìa aracnide viene posto “accidentalmente” a confronto con un piccolo appartenente al genere Portia, parte della vasta famiglia dei Salticidae, ragnetti noti per la loro agilità, relativa intelligenza e la propensione quasi fratricida a cacciare e uccidere gli altri esseri dotati di occhi multipli ed otto zampe. Così mentre la voce fuori campo trascorre qualche minuto a descrivere ciascun contendente, riuscendo a creare persino lo spazio per un utilissimo intermezzo pubblicitario, appare fin troppo chiaro quale sia la creatura che costui vuole darci per favorita: il suo rivale, ovvero quello che in tali luoghi prende il nome di Long Jawed Spider (ragno dalla lunga mandibola) e nella fattispecie un appartenente probabile alla specie piuttosto comune dei Tetragnatha extensa. Del resto esso presenta, tra i due, l’aspetto senza dubbio maggiormente intimidatorio. Un corpo dalla caratteristica forma allungata, zampe lunghissime con una testa larga esattamente quanto il corpo centrale del cefalotorace. E dinnanzi ad essa, la più grossa e terrificante pinza arcuata, dotata di artigli terminali, apparentemente progettata per ghermire e fare a pezzi prede più piccole di lui, come il suo temibile avversario di giornata. Terminati gli ampollosi preamboli e raggiunto finalmente l’attimo del confronto, dunque, lo spettatore non potrà che provare un senso di sorpresa e spiazzamento: in meno di un attimo, Portia salta sopra il nostro amico dotato di attrezzatura ninja. Lo paralizza con un rapido morso velenoso e serenamente, inizia a fagocitarlo vivo.
Un’arma spaventosa, sinonimo di abilità in battaglia? Un aspetto mostruoso, evidente corrispondenza della più chiara ferocia? Questo potrebbe essere del tutto vero, se la natura non amasse sorprenderci ed agire spesse volte, con metodologie misteriose. Così per quanto gli impressionanti cheliceri di dei Tetragnathidae siano un caso di evoluzione convergente con gli arti raptatori a falce della mantide religiosa, essi non presentano affatto la funzionalità primaria di afferrare al volo alcunché (dopo tutto, per questo esistono le ragnatele, giusto?) quanto piuttosto un’impiego concepito per assistere l’attività diametralmente opposta agli scontri spietati tra i singoli individui: sto parlando, se non fosse evidente, dei rapporti amorosi tra lui e lei. Un ambito, questo, inerentemente pericoloso tra i ragni parlando sopratutto per il cosiddetto sesso forte, vista l’arcinota propensione alla novella sposa di accedere allo stato di vedovanza pressoché immediata, usando colui che offriva lo sperma nuziale come fosse un delizioso e nutriente spuntino. A partire… Dalla testa. Un’attività, questa, che risulta decisamente più complessa tra i Tetragnathidae, quando i partner si trovano impegnati in un rituale d’accoppiamento che assomiglia più che altro a un’incontro di lotta greco-romana, in cui le reciproche pinze s’intrecciano vicendevolmente fornendo un chiaro ostacolo a qualsivoglia tipo di mossa affrettata. Amore, piuttosto che odio. E un’indole pacifica che porta ad alcuni straordinari eccessi…

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La piccola belva spinosa nel deserto del Karakum

Gli amanti della natura in televisione guardano ai cartoni animati “carini” con un senso d’insoddisfazione latente: quale dovrebbe essere il significato educativo di un animale che parla ed agisce con evidente compassione? Dove potremmo effettivamente collocare, una simile creatura, all’interno del sistema ecologico di azioni e reazioni che costituisce la catena alimentare? Perché la forma di ragionamento e il sistema di valori che permettono di definire il comportamento di un buffo personaggio, ogni singola volta, conduce a un fondamentale fraintendimento dello schema circostanziale di fondo. Più qualcosa, o un qualcuno, sembra piccolo e aggraziato, maggiormente possiamo aspettarci da lui un approccio alle cose spontaneo e per così dire, scevro di considerazioni ed orpelli morali affini al comportamento umano. Ecco un concetto scomodo dinnanzi a un certo tipo di pensiero comune, per il quale risulta piuttosto semplice trovare delle dimostrazioni pratiche. Vedi le scene come quella montata ad arte in questo breve documentario, offerto a scopo dimostrativo sul sito inglese del canale statunitense Discovery, oggi famoso soprattutto per il grande numero di reality e programmi istruttivi su come sopravvivere in varie tipologie di scenari “estremi”. Protagonista: il porcospino dalle orecchie lunghe del Karakum (Hemiechinus auritus megalotis) sottospecie di una delle varianti più diffuse nel vicino Oriente, lievemente più piccolo della variante europea, con i suoi 23-28 cm e 700-900 grammi di peso. Eppure perfetto per continuare la tradizione americana, esistente da almeno un paio di decadi, di mostrare la natura per quello che è, perseguendo una verità spietata e dunque proprio per questo, a suo modo, spettacolare.
È anche la risposta ad una domanda che non sapevamo di avere: quale connessione dovrebbe mai esserci tra l’azzurro e dinamico Sonic, protagonista dell’omonima serie di videogiochi, e il placido mammifero che al risveglio del letargo non è abbastanza veloce neppure per schivare le automobili durante gli attraversamenti stradali? Una creatura pacifica e bonaria sotto il suo manto di spine acuminate, che tuttavia nasconde un’anima necessariamente combattiva. Non stiamo parlando di erbivori, dopo tutto, e nemmeno di roditori-raccoglitori, bensì veri piccoli mammiferi predatori come i toporagni o Soricidi, capaci di fagocitare l’equivalente del loro peso entro il termine della giornata, in insetti, vermi, lumache, uova d’uccello, rettili e carne di vertebrati, uccisi grazie alla sveltezza e relativa potenza del loro morso. Una visione concettuale che d’altra parte, va ulteriormente potenziata quando si parla di questo cugino adattato a sopravvivere nel deserto, il singolo ambiente più difficile tra quelli che possiamo trovare lungo la circonferenza del pianeta terrestre. Lo spezzone si apre con lo zampettante protagonista che si ferma in agguato, poco prima di fare la propria mossa ai danni di un’impreparata cavalletta, i cui riflessi non possono nulla contro il balzo ferino del riccio affamato, più che mai pronto a procedere alla masticazione. Senza soluzione di continuità a quel punto, l’animale viene mostrato alle prese con un centopiedi dall’aspetto piuttosto agguerrito, che finisce istantaneamente decapitato ed aspirato dal musetto ricoperto dalle vibrisse, gli occhietti vispi e del tutto indifferenti al gesto di convertire un’altra insignificante vita in pura e fondamentale energia.
Ma è nel proseguire del documentario, girato nel vasto deserto che costituisce il 70% del Turkmenistan, che le cose iniziano a farsi particolarmente interessanti. Perché appare evidente per la legge del karma che un così famelico divoratore, fatte le dovute proporzioni, debba vivere a stretto contatto con degli agenti altrettanto abili nell’arte difficile di trovare il cibo tra le sabbie eterne. E non tutte, purtroppo, più piccole di lui…

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Assassini preistorici sotto i ghiacci del Polo Sud

Una normale stella marina ha cinque braccia. Questa, molto spesso, può vantarne 50. Le altre appartenenti alla sua genìa, al massimo, strisciano sul fondale. Lei si arrampica nel punto più alto, per sporgersi e tentare di afferrare al volo chi fosse tanto folle da nuotare nei dintorni. Le sue cugine sono letteralmente ricoperte, nella parte inferiore, di peduncoli ambulacrali, usati per un lento ma inesorabile movimento. A chiara differenza di un simile mostro, che possiede migliaia di minuscoli artigli spinosi e trappole triangolari chiamate pedicellariae, capaci di serrarsi come altrettante devastanti tagliole per orsi. Ah, dimenticavo: misura “appena” un metro. Pensate alla vostra reazione, se doveste incontrarla in un vicolo buio…
Nel momento in cui qualcuno vi chiedesse “Qual’è la creatura che domina la Terra” non credo che esitereste troppo a lungo nell’indicare voi stessi, ultimi depositari della discendenza iniziata coi primi ominidi, che ci ha condotto in epoche geologicamente recenti ai più alti livelli tecnologici e sociali della specie Homo s. sapiens. Oppure potreste chiedervi, deviando almeno in parte dal pensiero comune, quale dovrebbe realmente essere la metrica utile a definire la buona riuscita di un percorso evolutivo. La posizione nella catena alimentare? La forza e il coraggio? Piuttosto che, in maniera molto più semplice e soggettiva, il peso complessivo degli esemplari viventi, intesa come biomassa totale di ciò che brulica, si nutre ed opera nel campo imprescindibile della riproduzione… Proviamo, per un attimo, a prendere in considerazione un simile approccio. Secondo il quale ogni dubbio sparisce: il vincitore è il krill dell’Antartico, Euphausia superba. Il cui numero magico si aggira sui 500 milioni di tonnellate, contro i nostri 100 appena. Questo ha una logica, se ci pensate: il predatore non è mai più prevalente della preda. Poiché una singola tigre, un leone, dovranno mangiare nel corso della loro vita un centinaio di gazzelle. Ma se ce ne fossero esattamente cento, dopo una o due generazioni, che fine avrebbe fatto la gazzella? Così sono gli umili, a moltiplicarsi in maniera estrema. E ancor più di loro, le piante, cibo di tutti ancor prima che il primo carnivoro facesse la sua comparsa su questa Terra. Ma un conto è prenderne atto, tutt’altro vederlo coi propri occhi…
Questa è la spedizione del naturalista Jon Copley, realizzata con l’aiuto di Ocean X per il documentario della BBC Our Blue Planet, nel quale una piccola parte ma importante parte della troupe, salendo a bordo del batiscafo facente parte della dotazione della loro nave oceanografica, supera agevolmente il record dell’immersione a profondità maggiore nell’area geografica comunemente definita come Antartide, dove notoriamente, soltanto gli esseri più resistenti riescono a sopravvivere e prosperare. Così nessuno resterà sorpreso quando, nei primi minuti del breve spezzone promozionale, le telecamere non riescono a riprendere null’altro che un’ambiente torbido e ombroso, nel quale gli unici movimenti sono quelli indotti dalle correnti oceaniche. Finché, continuando a scendere fino ai 1.000 metri, non raggiungono la superficie ondulata di un misterioso fondale. Dove la luce del riflettore integrato, rimbalzando sulla sabbia millenaria, rivela finalmente l’incredibile verità: il particolato in sospensione nel brodo, questa polvere che circonda il veicolo, non era altro che materiale biologico. Pezzi, scorie, rimanenze, di una pluralità d’esseri, che persino adesso, li circondano completamente. Minuscoli gamberi brulicanti… Gli occhi fissi, la coda segmentata. Nella quantità d’infiniti miliardi. Ecco, quindi, che cosa succede quando le condizioni climatiche estreme, o la semplice anomalia di un particolare habitat, non permettono lo sviluppo diffuso di specie voraci che possano sterminare i “piccoli”. Eppure, persino qui, anche adesso, lo scenario biologico non è del tutto pacifico. Ma vi sono, piuttosto alcune specie in grado d’imporsi almeno in parte sugli sciami di crostacei, attraverso metodi molto particolari. Prima fra tutte, quella che Copley non esita a definire, con chiara citazione cinematografica, la sua Stella Assassina (Death Star). Dando seguito, ancora una volta, alla netta corrispondenza ideale tra gli abissi e lo spazio siderale, già presente nella nomenclatura dei più diffusi echinodermi (sapete di chi sto parlando) che in ambito scientifico vengono definiti, facendo ricorso alla lingua latina, Asteroidea. Le stelle marine che sono ovunque eppure rispondono tutte, in linea di massima, alla stesso schema ecologico: raschiare il fondale, agendo come spazzini di quanto nessun altro si prefigge di consumare. Ovunque, tranne che nei fondali distanti, circostanti dai ghiacci eterni della penisola Antartica. Perché questa, signori, è la Labidiaster annulatus, una creatura dall’intento killer e lo scheletro calcareo flessibile, capace di muoversi molto agilmente…

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