A largo della California, l’isola con centinaia d’impossibili bisonti

Misura soli 35 per 13 Km, l’isola dedicata a Santa Catalina, appena sufficienti a contenere il suo incredibile segreto. Non potrà esserci la nebbia, poiché rara a queste latitudini (per non dire impossibile) ma anche questo regno di una Camelot moderna, coi suoi fittizi cavalieri, gesta eroiche e irrintracciabili tesori, si rispecchia nella vista speculare di un regno fatato posto al di là del mare. La cui capitale e principale centro abitato porta il nome assai riconoscibile di Avalon, che gli fu dato per la prima volta dallo speculatore edilizio George Shatto nel 1887, fermamente intenzionato a trasformare tali coste in un resort turistico di grido, durante anni d’oro del primo boom economico nella California del Sud. Siamo innanzi, dopo tutto, a niente mento che Los Angeles, con le sue molte industrie, i pozzi di petrolio e i palazzi destinati ad ospitare, di lì a un paio di generazioni, il mondo ancora imprevedibile di coloro che avrebbero reso grande l’invenzione del cinematografo, creando un metodo di svago destinato ad influenzare l’intera cultura dell’intrattenimento, all’interno delle oscure sale di proiezione del mondo. Ma per chi dovesse avvicinarsi a questo luogo, posto sopra un isola chiamata Catalina, ciò che lascerebbe l’impressione più profonda è indubbiamente la sua fauna. Composta di piccole volpi, scoiattoli, l’occasionale aquila di mare ed un possente drago di distanti pianura. Nell’accezione largamente più tangibile della sua versione nordamericana, il pacifico, drammatico, flemmatico, PELOSO Bison bison, più comunemente detto bufalo del Nuovo Mondo.
Come, dove, soprattutto quando e poi… Perché? Un simile gigante del contesto biologico, evoluto per riuscire a prosperare in mezzo al regno sconfinato di vastissime pianure, dove ebbe a ritrovarsi, per sua somma sfortuna, sul sentiero di coloro che necessitavano di carne o pelle o le ossa per costruire validi ornamenti, copricapi di culture sostenibili dapprima, quindi caccia scriteriata posta in essere dall’uomo bianco. Finché verso la fine del 19°, una fatale combinazione di carente cultura ambientalista e malattie trasmesse dalla vacca domestica l’avrebbero condotto fin all’estinzione. Ovunque ma non lì, nell’entroterra di Yellowstone a settentrione, luogo da cui secondo le leggende, sarebbe provenuto per vie traverse questo assurdo branco, capace di raggiungere al suo massimo la cifra impressionante di 600 esemplari, prima di ridursi, grazie a interventi di controllo delle nascite, fino all’odierna e più gestibile cifra di 150 giganti. Un evento la cui prima attestazione pubblica compare nel giornale Catalina Islander del 24 dicembre 1924, quando alla vigilia di Natale, abitanti locali ebbero modo di avvistare da lontano quattordici “bufali” dal peso stimato di 680 Kg ciascuno, all’interno del terreno dell’allevatore locale Arnold Gillat, che secondo un ipotesi dell’articolista coévo, probabilmente li aveva fatti trasportare fin lì a caro prezzo, al fine di impiegarli nella produzione di un qualche film. La cui natura resta, almeno formalmente, del tutto incerta, benché il folklore locale sia stato in grado d’identificare la pellicola in questione in “The Vanishing American” di George B. Seitz (1925) opera muta dedicata al duro conflitto delle popolazioni cosiddette pellerossa con i formidabili coloni del vecchio West, capaci d’impugnare con fermezza le armi inarrestabili della presunta civilizzazione. Spiegazione che presenta, d’altra parte, un chiaro e indubbio problema…

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Ai confini di New York, ossa di cavallo e sogni smarriti nel mare di spazzatura

Per lunghi anni schiere di sociologi hanno teorizzato l’esistenza, da qualche parte, di un nucleo centrale nel vasto contesto iper-urbano della città di New York. Il mozzo della ruota, o se vogliamo, il torsolo della (grande) Mela, ove trovare finalmente sublimato quel principio estremamente pervasivo che sin dall’alba dei tempi porta l’uomo, in ogni suo momento, a perseguire l’utile finalità dell’aggregazione. In luoghi come Manhattan, Brooklin, Queens… Presso i viali ordinatamente alberati, all’ombra dei grattacieli, tra i recessi zigzaganti del sempre affascinante Central Park. Ove la gente è più felice o in qualche modo, pronta a condividere i propri momenti nel tentativo di amplificare la soddisfazione generale del momento presente e tutto ciò che in qualche modo, può derivarne nell’immediato o più remoto futuro. Mentre nel frattempo, un consorzio maggiormente eclettico di studiosi, filosofi, artisti e cacciatori di tesori, hanno scelto di porsi un differente tipo di domanda. Con la finalità di comprendere, dal canto loro, il Come piuttosto che il Perché, giungendo in forza di ciò presso i recessi non propriamente gradevoli di un Dove dall’aspetto estremamente diverso. Luoghi come Barren Island (l’Isola Desolata) e il braccio di acqua salmastra che la fronteggia inondato d’inconoscibili rifiuti e chiamato convenzionalmente: Dead Horse Bay (la Baia del Cavallo Morto).
Ora immagino, comprensibilmente, che l’impiego di nomi carichi di suggestioni tanto inquietanti possa lasciare sorpreso un abitante come noi, del paese più bello e assolato del mondo, benché all’interno della concezione pragmatica di una soluzione urbanistica statunitense, dedicata a risolvere un problema estremamente reale, una simile cognizione assuma le tinte di una ben più plausibile verità. E dire che fino all’inizio del XVII secolo, l’intero piccolo arcipelago d’isolette note come Outer Barrier (Barriera Esterna) facenti parte dell’originale terreno “acquistato” dai coloni europei dietro risibili concezioni alle popolazioni native dei Lenape, erano rimaste l’area maggiormente incontaminata tra tutti i recessi dove l’Uomo Bianco, per presunto diritto divino, aveva scelto d’edificare le proprie svettanti strutture architettonicamente rilevanti. Finché attorno al 1850, alla brava gente di questi luoghi non venne in mente il modo in cui un luogo simile potesse costituire a tutti gli effetti l’ideale per confinarvi tutte quelle attività industriali che, in un modo o nell’altro risultavano sgradevoli nei confronti della popolazione. Luoghi come concerie di pelli maleodoranti, macellerie d’interiora, impianti per la processazione dei menhaden (Brevoortia patronus) tipici pesci di queste coste considerati così poco pregevoli da essere impiegati, comunemente, in qualità di fertilizzanti e soprattutto, più d’ogni altra cosa, tutte quelle industrie incaricate, in un modo o nell’altro, di trattare le carcasse d’animale recuperate per le strade della più importante città costiera dell’Est dopo la fine dell’epoca bostoniana. Verso la fine di quel secolo, quindi, l’Isola Desolata diventò la base di un’attività industriale a suo modo florida, benché le continue inondazioni del territorio paludoso, frane impreviste e tempeste provenienti dall’Atlantico avessero la problematica abitudine di spazzare via gli edifici barcollanti costruiti a tal fine. Venne quindi costituita una sorta di casta composta da circa 1.500 persone all’apice, largamente immigrati o persone di colore, incaricata di preservare l’antica eredità di tutto quello che una città poteva chiedere, purché rimanesse appropriatamente lontano da occhi, orecchie e naso dei pari contributori di una più appariscente quotidianità. Attorno agli anni ’20 del Novecento quindi, mentre simili attività venivano spostate ancor più lontano dalla città per arginare le lamentele dei quartieri limitrofi e i gli abitanti forzosamente spostati altrove (non che avessero granché da lamentarsi, considerata la natura malsana della loro sistemazione avìta) al potente ufficiale pubblico Robert Moses, all’epoca capo della Commissione Parchi nonché detentore di una piccola collezione di altre cariche fondamentali per l’amministrazione di New York, non venne la prototipica idea geniale: raccogliere tutte le montagne di spazzatura capaci di arginare i suoi progetti di miglioramento per il centro luminoso dei distretti cittadini e scaricarla sul territorio ormai diventato inutile di Barren Island. Non soltanto creando la più vasta discarica che gli Stati Uniti avessero mai costruito a un tiro di schioppo da zone tanto demograficamente rilevanti, ma provvedendo in una fase successiva a ricoprirla di sabbia e ghiaia prelevata dalla vicina Jamaica Island, al fine di unire le due terre emerse nella creazione di quello che sarebbe diventato Floyd Bennett Field, il primo aeroporto municipale della città. Non fu necessario attendere fino all’inizio della decade successiva, tuttavia (quella del 1930) per rendersi conto di come le cose non fossero destinate ad andare esattamente nel modo che era tanto accuratamente pianificato…

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L’isola sopravvissuta secoli nutrendosi di palme velenose

L’anno era il quattordicesimo dell’era Keicho (1609 d.C.) non troppo dopo l’inizio del regno dell’Imperatore Katahito e a seguito dell’epocale battaglia sulla piana di Sekigahara, costata la vita alla parte significativa di un’intera generazione di nobili e popolani. Ancora una volta Tamaki guardò fuori dalla finestra della sua nuchijaa in legno con tegole di terracotta, avendo cura di non affacciarsi in maniera troppo evidente per i sorveglianti con le due spade. Mentre accarezzava pensierosamente il bastone con l’anima di ferro, arma ereditaria della sua famiglia, si rivolse quindi alla propria consorte Beniko “Puah, samurai! Non riesco ad immaginarmi nulla di meno giapponese” Smettendo per un attimo di percuotere con enfasi il mochi dalla strana consistenza che stava preparando in un pentolone, lei ebbe appena il tempo di rivolgergli uno sguardo preoccupato, prima che i ricordi sopraffacessero entrambi. Di un epoca capace di sembrare lontana di anni ed anni, prima che le navi dai vessilli verdi del clan Shimazu sbarcassero sulla verdeggiante isola di Amami, permettendo ai loro occupanti di dichiarare le terre emerse del sub-arcipelago delle Ryukyu come un proprio territorio per il concetto quasi-universale del destino manifesto, sopra cui imporre la dura legge e tassazione di un distante daymyo nel suo castello, circondato da tesori dell’arte e incalcolabili ricchezze della nostra Era. “Marito, metti via l’hanbō per favore. Sai cosa è successo al nonno e se soltanto l’uomo là fuori dovesse sospettare un intento di ribellione da parte nostra, ordinerà di nuovo ai suoi sottoposti di erigere i pali. Se dovessi finire crocifisso, non sopravviverei…” Parole tremule, ma un’espressione risoluta. Di guerrieri, navigatori, ecclesiastici disallineati. Per lunghe generazioni, all’insaputa dei sedicenti Shōgun di Heian-kyō (Kyoto) prima e i signori della guerra della guerra civile, la gente di Amami aveva commerciato e conversato con i mercanti provenienti dalla Corea, Cina e altre terre lontane, apprendendo norme della tecnica e della scienza precedentemente inusitate. Assieme alle storie di un uomo vissuto, morto e resuscitato oltre un millennio e mezzo fa in Galilea. Ed era proprio in suo nome che adesso, esisteva una simile possibilità: “Vorresti dirmi che non abbiamo altra scelta? Dare via il nostro raccolto e soffrire, per l’ennesima volta, il tormento del sotetsu jigoku?” Fu allora che un suono distante sembrò risuonare nel loro giardino: era la Shishi-odoshi, canna di bambù dondolante che colpiva la pietra sonora posta alla sua estremità. “Niente affatto, mio caro. Ti sto consigliando di assaporarlo, preparandoti a un’ora della riscossa che potrebbe anche non giungere mai!”
Sotetsu (ソテツ in alfabeto sillabico, non esistono kanji per definirla) è una “palma” del gruppo delle cicadofite, in realtà parte di quell’antichissima gruppo di gimnosperme (piante dal seme nudo) che da oltre 300 milioni di anni sopravvivono e si propagano a dismisura, nella maggior parte dei biomi tropicali e non solo. Mentre jigoku (地獄) significa, letteralmente, inferno. Un’associazione o metafora, questa, quanto mai appropriata soprattutto all’epoca, per definire l’ultima risorsa disperata di un intero popolo isolano costretto più volte a fare la fame, prima per l’occasionale verificarsi di periodi di magra e catastrofi naturali, quindi per le dinamiche sociali imposte da un crudele corso della storia. E più volte viene narrato, nella letteratura locale, di quanto terribile fosse, in origine, consumare i frutti, le foglie e persino il tronco specie locale della Cycas revoluta, basso e tarchiato arbusto dalle foglie lanceolate, naturalmente in grado di produrre la cicasina, una sostanza a base di glucosio capace di causare conati, nausea, diarrea e gravi conseguenze sull’integrità dei reni e del fegato umano. Questo almeno finché la gente dell’isola di Ashima non scoprì, forse accidentalmente, che lo stesso fungo impiegato per trattare la soia allo scopo di farla fermentare nella preparazione del miso, l’Aspergillus oryzae o più semplicemente koji (麹) poteva sortire un effetto quasi mistico sulla polpa ridotta in polvere dell’amata-odiata pietanza vegetale. Separando il principio attivo dalla parte commestibile durante la fermentazione in maniera sufficiente perché fosse possibile, a quel punto, passare alla fase successiva di una complessa e importantissima procedura…

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L’uccello destinato a estinguersi ogni centomila anni

Chi non conosce, tra tutti coloro che hanno visitato anche soltanto grazie all’immaginazione l’arcipelago tropicale delle Mauritius, la tragica storia del Raphus cucullatus, anche detto comunemente il dodo… Di certo, non è una vicenda che i marinai sarebbero disposti a raccontare. Proprio loro che sbarcando, a più riprese, tra le isole gemmate di un tale geografico tesoro, fecero incetta del pennuto pollo stravagante, consumandone le carni come ingrediente principe di una vasta gamma di piatti mediterranei, inglesi e americani originariamente a base di pollo, così “adattati” alle locali circostanze. Finché dell’ingenua creatura, drammaticamente priva di qualsiasi diffidenza verso l’uomo, oppure i mezzi per sfuggirgli all’ultimo momento, finì per estinguersi del tutto dal pianeta Terra. Eppure un suono, ancora oggi, sembra risuonare di quel canto; un guizzo nella danza; il fruscìo tra i piccoli cespugli ai limiti del bosco. Come disse un saggio, non è morto ciò che può giacere eternamente. E in strani eoni, persino la Morte può morire.
Ora se dovessimo soltanto limitarci alla questione dell’aspetto, non c’è molto che accomuni il rallo dalla gola bianca dell’isola di Aldabra (Dryolimnas aldabranus) al suo predecessore nella strada biforcata dell’evoluzione. Membro dell’ordine dei gruiformi piuttosto che i colombiformi come il dodo, esso ebbe tuttavia un rimorso simile, nell’aver dimenticato l’antica e risolutiva arte del volo. Certo, potrà sembrarvi controintuitivo: eppure mantenere quel tipo di adattamenti necessari nello scheletro, la muscolatura e gli altri aspetti fisici necessari a staccarsi da terra è tra i propositi più dispendiosi in termini d’energia dell’intero mondo animale. Al punto che una volta raggiunto un luogo del tutto privo di predatori, come risulta essere per l’appunto il remoto atollo di Aldabra nel bel mezzo dell’Oceano Indiano, non ha semplicemente senso continuare a percorrere quel sentiero. Ma che dire di un problema particolarmente inaspettato? Quando i mutamenti climatici che condussero a una breve glaciazione, circa 136.000 anni a questa parte, sommersero completamente tali luoghi ameni, spazzando via ogni forma di vita camminatrice incluso quel lontano parente del porciglione europeo. Eppur chiunque dovesse sbarcare lì al giorno d’oggi, essendo sufficientemente fortunato, potrebbe sentire un caratteristico verso simile a un grugnito stridulo e vagamente porcino provenire dalla penombra del sottobosco. Poiché come evidenziato anche da un recente studio pubblicato sulla rivista zoologica della Linnean Society, ad opera dei Prof. Julian P. Hume e Davin Martill, “esso” vive di nuovo. Ecco qui dunque, la maniera in cui funziona la Natura: un continuo processo di sperimentazione lungo i rami divergenti di quell’albero, che si regge sulla base delle circostanze, verso l’obiettivo dell’esistenza. Che poi sarebbe, per la vita su questo pianeta, una lunga ed evidente proliferazione. Così di nuovo, a seguito di quel remoto evento, i ralli normalmente non migratori dei territori isolani ad est dell’Africa (Dryolimnas cuvieri) partirono dalla vicina terra firma del Madagascar, affollato dalle zanne costantemente in agguato del terribile fossa (Cryptoprocta ferox) sorta d’incrocio tra un giaguaro e una faina sovradimensionata, partendo verso destinazioni maggiormente attraenti. Molti di loro, dirigendosi erroneamente verso meridione, finirono annegati tra le onde dell’oceano incostante. Ma un numero considerevole raggiunse quell’atollo finalmente ed almeno temporaneamente riemerso di Aldabra. Riuscendo a rimandare un così triste destino, almeno per qualche tempo…

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