La grande fuga e l’inquietante patrimonio genetico dell’orso andino

Ricorrente riesce ad essere il carattere presunto, ovvero in altri termini l’impronta stereotipica, del personaggio che per necessità o affettazione narrativa viene caratterizzato dall’impiego di occhiali. Implemento utile a correggere una vasta varietà di disfunzioni visuali, e al tempo stesso inerentemente associato a un certo tipo di comportamento, un pregresso bagaglio di conoscenze acquisite. Quasi come se il fatto stesso di aver deciso di massimizzare le proprie percezioni inerenti, in modo tale da poter comprendere e capire meglio il mondo, possa costituire l’intento riconoscibile che viene dalla propensione all’apprendimento, come approccio alternativo all’apprezzamento universale dell’esistenza. Ecco dunque comparire, nel variegato novero delle creature adatte a fare parte di miti e leggende, la figura zoologia di Ben l’orso, recente aggiunta della menagerie biologica comunemente nota come Zoo di Saint Louis. Appartenente ursino alla specie sudamericana Tremarctos ornatus, considerata altamente riconoscibile per tre caratteristiche: il peso abbastanza ridotto, di fino a un massimo di 110 Kg; i grandi artigli utili ad arrampicarsi nelle umide foreste ai piedi dell’ambiente andino; la maschera bianca che circonda gli occhi, continuando sul muso e il petto della maggior parte degli esemplari. Caratteristica quest’ultima giudicata come sufficiente a definirlo, in base al dizionario dei nomi comuni degli animali, come orso “dagli occhiali” in una sorta di contraddizioni in termini, visto come la sua categoria di appartenenza sia notoriamente incline ad orientarsi tramite l’impiego sensoriale del suo naso, percettivo in proporzione paragonabile a quello dei nostri cari amici cani. Ma stranamente appropriata, in base a quanto sopra accennato, al caso specifico del sopracitato protagonista, di una storia sorprendente eppure in qualche modo evitabile, benché fortunatamente priva di conseguenze. Quella culminante lo scorso giovedì con la seconda uscita non sanzionata di quest’ospite dal proprio recinto, causando un comprensibile allarme nell’amministrazione del parco e la rapida chiusura di ogni uscita, coadiuvata dal ricollocamento temporanei dei visitatori all’interno di gabbie ed altre zone riparate, onde minimizzare il rischio pur sempre presente d’incidenti dovuti alla sfortuna del momento. Laddove Ben voleva, come già dimostrato lo scorso 7 febbraio durante un episodio simile che aveva colto totalmente di sorpresa i suoi guardiani, semplicemente guardarsi un po’ in giro ed esplorare i limiti del proprio ambiente d’adozione. Un luogo certamente confortevole, come tende generalmente ad essere la vita in cattività, ma al tempo stesso privo di quell’ampio respiro situazionale che costituisce il primordiale anelito di ogni essere appartenente alla natura. E che in qualche misura doveva pur essere stato trascurato, da coloro che dopo il primo imprevisto si erano limitati a implementare la singola contromisura di moschettoni per i cavi del recinto garantiti fino ai 205 Kg di resistenza, che questa volta l’orso non sarebbe in alcun modo potuto riuscire a sconquassare. Se non che gli orsi non sarebbero semplicemente niente, se non geneticamente determinati e come in ogni fiaba che si rispetti, anche all’abito (o perché no, l’accessorio con lenti) tendeva necessariamente il monaco. Per cui come un novello Harry Houdini o Potter, l’irsuto personaggio si è industriato giorno dopo giorno per trovare il punto adatto ad applicare una leva sufficiente. Fino a mettere in atto il suo subdolo e preciso piano, culminante con l’uscita dai confini degli spazi entro cui doveva essere idealmente contenuto…

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La lunga caccia della falsa vedova, ottuplice nemica di topi e pipistrelli d’Europa

Fu notata dalla nostra stirpe per la prima volta almeno un paio di secoli a questa parte: la strana passione degli umani per i baccelli. Parti pendule di “cose” vegetali, tonde, oblunghe, morbide o coriacee. Particolarmente la… Banana. Oggetti provenienti dalle nostre isole remote, in mezzo ai quali era possibile nascondersi e aspettare quietamente. Di essere portati, come giovani esemplari sottoposti ai capricci del vento, oltre l’Oceano e verso nuovi lidi sorprendentemente accoglienti, dal clima temperato e l’ampia quantità di possibili prede. Mosche, libellule, imenotteri, scarabei e non solo. Poiché a differenza delle isole delle Canarie e di Madeira, creature ben più grandi e succulente all’altro lato di quel viaggio non parevano possedere alcun tipo d’istinto acuito da pregresse generazioni. In merito scaltra metodologia di predazione, e l’infinita fame che caratterizza ed influisce ogni aspetto della nostra quotidianità di piccoli vampiri velenosi. Sta parlando molto chiaramente lo Steatoda nobilis, anche detto il ragno della credenza o “falsa” vedova nera. Per la sua abitudine a tessere piccole ragnatele disordinate nei luoghi secchi e oscuri. Da cui calarsi all’indirizzo di creature di passaggio, totalmente inconsapevoli e disattente. Da intrappolare con i fili ed allo stesso tempo indurgli la paralisi, rendendoli perfette per un pasto equilibrato e non del tutto privo di un sinistro retrogusto vampiresco. Essere notoriamente simile al più temuto ragno d’Europa, la puntinata Latrodectus abituale divoratrice nuziale del suo consorte, di cui riprende il suddetto appellativo in lingua volgare, in forza di una somiglianza che purtroppo va ben oltre la semplice apparenza. Dato il possesso, soprattutto nella femmina più grande ed aggressiva, del potenziale d’inoculazione di un veleno non del tutto privo d’efficacia nel caso degli umani, capace di causare un dolore intenso e in certi casi, infezioni o reazioni allergiche di significativa entità. Il tipo di circostanze tipicamente sufficienti, per animali di siffatta natura, a incrementare il potenziale d’isteria collettiva, con un crescente allarmismo dei media e collettivo timore più o meno giustificato che possa capitare anche a noi. Poiché il ragno è di per se un sinonimo di occulti e atavici timori, almeno in parte giustificati dalle tribolazioni dei nostri antenati fin dal tempo della preistoria. E d’altra parte non ha contribuito a ridimensionare l’ansia, la recente serie di studi scientifici incentrati sull’abitudine precedentemente ignota di questa specie, di catturare e fagocitare esseri dalle dimensioni superiori di anche 10 o 12 volte alle proprie, mediante l’uso della sopra descritta tecnica di agguato opportunista. Un sistema che ha permesso agli studiosi di trovare, in base alle nozioni reperibili su Internet, per la prima volta nel 2018 in Irlanda un esempio di lucertola vivipara (Zootaca v.) tra i fili appiccicosi di uno di questi famelici carnivori, così come nel 2022 si è d’un tratto palesata l’orribile visione di un destino simile toccato a due piccoli chirotteri nel North Shropshire, probabilmente dei Pipistrellus comuni. Ma è stato proprio lo scorso 20 febbraio del 2023 che un articolo sulla rivista scientifica Ecosphere sarebbe stato corredato da una fotografia ancor più preoccupante: di un toporagno appartenente alla specie protetta inglese Sorex minutus, intrappolato nel North Sussex e sollevato fino alla cornice superiore di una finestra. Proprio così: un roditore trasformato nella cena di un ragno. Piuttosto che il contrario…

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Oh, bagnato bruco della mosca! Dalla lunga e lesta coda rattiforme!

Nella poliglotta e universale gerarchia degli insulti, spesso un repertorio valido deriva da particolari tipologie d’animali. Creature in qualche modo percepite come piccole o meschine, infelici o poco utili alle buone condizioni dell’ambiente e della civiltà umana. Esseri come i vermi, oppure i ratti, chiaramente condannati da eventuali malefatte in vite precedenti, al punto da finire reincarnati in siffatte condizioni, in una nicchia biologica del tutto priva di sbocchi o realizzazioni. Come se l’individualità, nell’Universo, forse null’altro che un’artificiale condizione elaborata da esseri pensanti ed unici, nell’infinita vastità delle possibili condizioni dei viventi. E dopo tutto, noi chi siamo al fine d’improntare una possibile architettura di giudizio? L’evidente scala dei valori che si adatti ad ogni cosa e circostanza, qualsivoglia genere di strisciante o zampettante creatura? La precisa e pratica realizzazione di un piano sofisticato, frutto di una lunga quantità di anni e plurime generazioni molto superiori alle nostre. Fino a poter mettere i nostri occhi sopra tutto questo: i molti piccoli vermetti nel barile d’acqua putrida e stagnante. Ciascuno egualmente lieto di essere nel mondo, mentre in silenzio mastica e trangugia larghe quantità di mucillagine aumentando di peso, la lunga propaggine sul retro in posizione obliqua che fuoriesce parzialmente dalla superficie. Fino al giorno in cui il suo possessore non sarà abbastanza forte, e grande, da poter nuotare oltre i margini di questo stagno maleodorante. Per andare a seppellirsi, con grandissimo senso d’aspettativa, tra il terriccio del nostro giardino: bestia o belva, mistica presenza semi-trasparente ed indefessa. Valida versione della vita, di per se perfettamente produttiva e completa in ciò che tenta in genere di fare. Ma come se ciò non potesse mai essere abbastanza, ecco ciò che la natura serba sotto i nostri occhi come ultima sorpresa della rinomata vicenda: la nascita due settimane dopo di una… Mosca. Dai colori assai variabili come anche le forme, poiché liberamente appartenente alle tribù degli Eristalini e Sericomyiini, più comunemente definiti delle hoverfly. Pronte a sollevarsi per cercare pollini o nettari abbastanza nutrienti, da riuscire a supportare la propria sopravvivenza fino al catartico momento riproduttivo. Una pratica ben collaudata e supportata dall’evidenza, soprattutto quando coinvolge fiori di colore giallo. Ecco perciò, oh pragmatico uomo moderno, l’effettiva “utilità” di cose come queste. Semplicemente una valida ragione d’esistenza, di agrimonia, alisso, anemone, dente di leone, ginestra e girasole, verbasco, qualche volta pure il tulipano. Orribile strisciante visu, passaggio utile a ogni cosa bella che sussiste nel mondo…

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Lo spirito selvaggio dell’asino che vive sul tetto del mondo

In una narrazione in prima persona del suo viaggio verso la capitale Lhasa, che lo portò ad attraversare le sperdute regioni montuose circostanti monastero di Kumdun, Thubten Jigme Norbu scrisse: “Vedemmo gli asini selvatici o kiang aggregati in gruppi tra le 10 e 50 femmine, ciascuno capeggiato da uno stallone. Animali alti, nobili e scattanti, mi colpirono in modo particolare per la bellezza della loro colorazione, caratterizzata da una linea nera situata al centro della schiena. Questi branchi seguirono incuriositi la nostra carovana. Talvolta si avvicinavano e tendevano a circondarla, senza mai avvicinarsi tuttavia in modo eccessivo.” E potrebbe sembrare strana la maniera in cui il fratello maggiore del Dalai Lama, che negli anni ’50 aveva circa una quindicina d’anni, possa essere rimasto così profondamente colpito da una presenza numericamente piuttosto diffusa, parte inscindibile del patrimonio faunistico del suo paese. Ma la realtà è che simili equini, strettamente imparentati l’onagro o hemione, più comunemente detto l’asino asiatico, possiedono degli specifici adattamenti evolutivi tali da permettergli di vivere in ambienti particolarmente inospitali tra i 2.700 e i 5.400 metri, dove la temperatura può tranquillamente scendere al di sotto dei 25 gradi durante i mesi invernali. Il che ha richiesto, per la loro sopravvivenza, lo sviluppo non soltanto di un’ottima capacità d’isolamento termico ma anche tratti genetici idonei alla respirazione di aria con basse quantità di ossigeno, oltre ad una flora intestinale capace di digerire pressoché qualsiasi forma di resiliente e formidabile forma di vita vegetale. Tutto ciò in associazione ad una forma fisica eccellente, la corporatura massiccia ed un altezza più simile a quella di un cavallo dalle dimensioni medio-piccole pari a 140 cm, con zoccoli perfetti per spostarsi su irte pendici montane o arrampicarsi sulle rocce come una sorta d’imponente creatura caprina. Tale da permettere a quello che la scienza definisce Equus kiang, in effetti, una significativa capacità di resistenza nei confronti della caccia condotta attraverso i secoli da plurime generazioni delle genti locali, che non riuscirono mai davvero ad addomesticarlo. Nonostante l’areale significativamente ampio che ne vede tre sottospecie talvolta riconosciute, l’E. k. kiang occidentale, l’E. k. polyodon e l’E. k. holdereri orientale, diffuso fino ai bassipiani della regione dello Xinjiang, dove prospera all’interno di bacini fluviali costituendo aggregazioni di fino ad un migliaio di esemplari. Gruppi di animali tutt’altro che permanenti, bensì fluidi e inclini a frequenti scambi dei loro membri costitutivi, con il probabile obiettivo di scongiurare la consanguineità. Mentre particolari analisi biologiche, di contro, hanno suggerito la possibilità che tale suddivisione sia effettivamente superata, trattandosi di un mero cline o variazione graduale tra le tre forme, possibilmente esse stesse una singola sottospecie dell’asino asiatico propriamente detto (E. hemionus) a sua volta differenziatosi dalla versione africana dello stesso animale attorno ai 4.0, 4,5 milioni di anni fa. Nel momento stesso in cui iniziò a fare la sua probabile comparsa la zebra, con cui condivide in parte la forma del muso convesso e la corporazione fisica, per non parlare dell’indole territoriale mostrata dai maschi solitari, che porta questi equini ad aggredire con una certa enfasi qualunque essere indesiderato che tendono a incontrare sul proprio cammino. Una comprensibile ed inevitabile applicazione pratia, se vogliamo, delle spietate leggi di sopravvivenza…

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