Nella mente di Re Riccardo III che esclamò con furia shakespeariana: “Il mio regno per un cavallo!” esisteva certamente un sogno, condiviso da tutti quegli altri nobili, reali e perché no, altri facoltosi proprietari di armi ed armature nel contesto britannico medievale: poter contare sul fatto che i solenni spiriti incaricati di assecondare la sua richiesta, nel caos del combattimento, gli avrebbero portato una bestia che fosse al tempo stesso mansueta, eppur veloce, affidabile ma grintosa. Poiché come non esiste il cavallo perfetto, lo stesso può esser detto in merito al cavaliere. E se siamo noi a sbagliare, non è certo possibile sostituire noi stessi, al sopraggiungere della prossima battaglia di Bosworth Field. Immaginate ora di trovarvi all’interno di una stanza comoda e dotata di aria condizionata, lanciati al galoppo a una significativa manciata di chilometri orari. Mentre il vostro destriero nitrisce, quindi, per uno spostamento inappropriato del ginocchio sinistro, l’istruttore che si trova magicamente sospeso al vostro fianco agisce sullo stivale, riportandovi alla posizione corretta. Impossibile come il sogno di una notte di mezza estate, vero? Beh…
Attraverso la storia antica e recente delle più complesse discipline umane, sia fisiche che mentali, è stato ripetutamente dimostrato come il processo di apprendimento possa essere agevolato dal fare pratica in una situazione controllata: affrontare sempre lo stesso problema o situazione, ancora e ancora, finché la memoria istintiva delle nostre azioni e reazioni muscolari (o neuronali) ci permetta di poter contare su una serie di strumenti validi a salire il successivo scalino dell’auto-perfezionamento. Pensate, ad esempio, al tipico percorso fatto compiere dalle autoscuole ai propri alunni, fino al giorno fatidico dell’esame per la patente. Tra tutte le espressioni possibili di quel concetto di trasporto, tuttavia, tutt’ora ne viene messa in pratica una in particolare che sembra non poter contare su una simile opportunità: ciò perché in equitazione, la più perfetta unione tra due cervelli e corpi estremamente diversi tra loro, conta per l’appunto il desiderio dell’animale, oltre a quello del suo fantino/a. In altri termini, sarà possibile affrontare la stessa curva, lo stesso salto o esercizio di dressage, 100, 200, 400 volte, facendo nel contempo affidamento sul fatto che neppure due di esse finiranno per risultare perfettamente uguali… Magari, una volta il cavallo sarà lievemente inclinato a sinistra. Un’altra, s’impunterà mezzo secondo causa un’improvvisa esitazione. La terza, addirittura, potrebbe spontaneamente effettuare quella complessa manovra che è il cambio di galoppo al volo, cambiando totalmente i delicati equilibri che avevate costruito in settimane o mesi di preparazione. E in che modo, dunque, potreste lavorare sui VOSTRI difetti di postura, indipendentemente dal cavallo scelto caso per caso, quando anche in situazione d’addestramento sarà la parte meno collaborativa, ad incidere maggiormente sui problemi di ciò che resta, comunque, una coppia di corridori?
L’idea migliore e maggiormente risolutiva sembrerebbe essere quella venuta a Bill Greenwood, originariamente proprietario di un maneggio nel tranquillo villaggio inglese di Tarporley situato nel Cheshire, quando verso l’inizio degli anni ’90 un fantino recentemente infortunato venne da lui dopo la lunga degenza a chiedergli “Esiste un modo per abituarmi nuovamente a correre ai massimi livelli, senza mettere in difficoltà, o addirittura pericolo, un cavallo?” Ovviamente, in quel preciso contesto geografico e momento storico non esisteva. Altrettanto prevedibilmente, ben presto la situazione sarebbe andata incontro ad alcuni ottimi presupposti di cambiamento…
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Il fantasma del gambero nell’astronave moribonda
La biotecnologia è quella branca delle scienze applicate, particolarmente cara al mondo della fantasia, mediante la quale cellule viventi possono trovarsi subordinate a un qualche tipo di finalità artificiale, per l’intento futuribile di una diversa (umana o extraterrestre) forma di vita. Non è ad esempio infrequente, nella letteratura di genere, che particolari razze aliene soltanto parzialmente simili a noi decidano di attraversare il cosmo all’interno di vere e proprie astronavi viventi, il cui metabolismo estremamente limitato garantisce una seppur limitata capacità di rigenerazione ed auto sostentamento. Altre volte elementi dall’aspetto organico vengono attentamente coordinati con sezioni di tubi, ingranaggi o capsule spaziali, come fatto dall’artista svizzero H.R. Giger per il famoso alieno xenomorfo, da lui ritratto e concepito con quasi totale libertà creativa, benché in nessun punto della storia venga dato ad intendere che il mostro sia il prodotto di una qualsivoglia inconoscibile tecnologia. Nel frattempo non può essere soltanto un caso, se tra le possibili ispirazioni naturali usate da costui per la creazione più famosa, venga talvolta citato il particolare tipo di plankton iperide/anfipode noto come Phronima, in realtà un membro del sub-phylum dei crostacei, il cui aspetto non soltanto rassomiglia da vicino alla creatura del film (particolarmente nella sua iterazione “regina dell’alveare”, antagonista del secondo episodio) bensì caratterizzato addirittura da abitudini che in qualche modo ne ricordano il terrificante ciclo vitale. Con una sola significativa differenza: quella di essere, se vogliamo, persino più spietato di lui.
Immaginate dunque l’esistenza di una piccola creatura, piccolissima (stiamo parlando di pochi centimetri al massimo) costretta a sopravvivere a molte centinaia di metri sotto il mare e con sostanze nutritive a sua disposizione particolarmente ridotte. Nel terrore pressoché costante del passaggio di sproporzionate mostruosità pinnute, in grado di risucchiarla in un singolo boccone. Una vita grama che, a voler essere ragionevoli, potrebbe ampiamente giustificare ogni possibile tipologia d’efferatezza. Persino l’abitudine saldamente iscritta nel suo codice genetico a cercare, mediante l’uso di occhi relativamente sofisticati e rivolti verso l’alto per ricevere adeguate quantità di luce anche dove ne giunge pochissima, a cercare un qualche gelatinoso e a lei proporzionato esponente dei phylum Cnidaria (meduse) o Chordata (tunicati) per iniziare a torturarli in modo sistematico con le due aguzze chele. Affinché l’animale preda, svuotato di ogni organo ma ancora orribilmente vivo, possa diventare casa, guscio e carrozzina dei suoi piccoli e crudeli eredi. Ciò costituisce un’esistenza certamente grottesca. Eppure, innegabilmente funzionale…
Il solo predatore che sconfigge lo scoiattolo al suo stesso gioco
Tra i mammiferi dei luoghi situati a settentrione, particolarmente quelli di grandi dimensioni sia erbivori che carnivori, è assai diffusa la particolare soluzione biologica per il superamento dei mesi invernali, che consiste nell’abbandonarsi a uno stato di sonno che può durare molte settimane o mesi. In questo modo, nel periodo in cui scarseggia il cibo, essi possono tirare avanti grazie ad un metabolismo rallentato, che prescinde dal bisogno di aumentare la propria attività e di conseguenza, il consumo di quelle stesse risorse caloriche che avrebbero bisogno di conquistare. Ma che cosa succede a chi è abbastanza piccolo, e dotato di un’abilità parimenti straordinaria, nel trarre un valido vantaggio dall’altrui torpore? Quando si parla di martora ci si riferisce nella maggior parte dei casi ad una delle due specie, l’europea (Martes martes) e quella statunitense (M. americana) molto simili sotto quasi ogni aspetto tranne, nella maggior parte dei casi, il colore. Non che un simile fattore sembri avere una specifica importanza di sopravvivenza. Laddove simili rappresentanti della famiglia dei mustelidi (piccoli e agili carnivori) pur essendo a loro volta una facile preda degli uccelli rapaci, non sembrano aver sviluppato attraverso il proprio percorso evolutivo la stessa propensione di altri al mimetismo, né tanto meno la colorazione candida della volpe artica, rendendo, sia il marrone chiaro focato della versione da noi geograficamente più lontana, sia il rossiccio/grigiastro della nostra coabitante in quel del Vecchio Continente, assai visibili mentre corrono e si arrampicano sugli alberi con la loro lunghezza di fino a 40 cm esclusa la coda soffice e vaporosa. Mentre camminano con l’eccezionale equilibrio che le caratterizza lungo i rami trasversali al tronco. Mentre inseriscono il musetto appuntito nei preziosi spazi cavi della pianta. E lo tirano nuovamente fuori, stringendo tra le fauci insanguinate il fin troppo pigro abitante dello spazio ingiustamente ritenuto sicuro.
Il che in realtà, soprattutto nel Regno Unito, costituisce uno scenario tutt’altro che deprecabile da parte degli umani. Dovete infatti sapere come nel particolare mondo di quelle isole verdeggianti, ormai da tempo si verifica una strana e problematica convivenza: tra lo scoiattolo rosso nativo di quelle parti (Sciurus vulgaris) e quello grigio americano (Sciurus carolinensis) specie introdotta in modo accidentale nel suo stesso ambiente. Il che costituirebbe, in realtà, tutt’altro che un problema grave (un roditore trova sempre da mangiare) se quest’ultimo non fosse quasi sempre il portatore sano del virus SPPV, causa di tumori ed anche detto peste degli scoiattoli, in grado d’indurre nel cugino dai colori più accessi una morte lenta e particolarmente travagliata. Benché tale malattia non sia per fortuna trasmissibile ad alcun altra specie, inclusi gli umani, ogni qualvolta una comunità di grigi s’incontra con lo sciuride volgare, si può contare sul fatto che i primi annientino ben presto i secondi, restano gli unici abitanti del territorio. A meno che la martora arboricola (in lingua inglese chiamata “dei pini” per distinguerla da quella “delle rocce” la quale sarebbe in effetti, nient’altro che la faina) non faccia ciò che gli riesce meglio: catturare sistematicamente ed uccidere non tutti gli scoiattoli indiscriminatamente, bensì soprattutto, quelli potenzialmente ammalati, proprio perché lo sciuride carolinense, come propria imprescindibile caratteristica, risulta meno agile e sfuggente della sua controparte inglese. Detto questo ed escluso un tale specifico componente della sua dieta, ci sono ben pochi casi in cui un agricoltore o allevatore abbia mancato di maledire quell’aguzza ed intrigante portatrice di fauci affilate come lame…
Bagliori nelle tenebre: l’incubo marino del drago nero
Avete mai sentito della condizione nota come paralisi ipnagogica? Totale stasi tra il sonno e la veglia, in uno stato d’immobilità terrificante. Bianca ceramica, come candide sono le nocche delle dita, così saldamente abbarbicate al bordo della vasca giusto mentre il contraccolpo di un tremore impercettibile, con un tonfo clamoroso, fa cadere la bottiglia di sapone esattamente in mezzo ai piedi, nello spazio di gran lunga troppo definito. Ed avviene allora d’improvviso, innanzi ai nostri occhi eternamente spalancati, che l’oggetto fuori posto inizi a scomparire, come risucchiato verso il nulla dell’antimateria. Mentre le luci del bagno tremano, quindi si spengono del tutto e un vortice si forma tra le increspature della… Superficie? Impossibile: la pressione si fa dura ed opprimente mentre l’acqua ci sovrasta, permettendoci una stima approssimativa di 1.500, 2000 metri di profondità (almeno). Una nota sibilante ci accompagna in quei momenti che non sembrano finire mai, mentre l’unica speranza, almeno all’apparenza, è quella luce dondolante che compare vagamente all’orizzonte. Destra, sinistra, come un metronomo perfettamente calibrato. Destra, sinistra. La mano che si estende, lentamente, per toccare l’angelo del focolare. Quindi l’accendersi improvviso di due linee in contrapposizione, sulla forma assai sinuosa di quella che può soltanto essere una sorta di creatura tubolare. Grazie ai fotoni che rimbalzano contro di noi ed un grugno che diventa orribilmente chiaro! Occhi chiari come il latte, denti acuminati. Il lungo tentacolo con l’esca sotto il mento che si mette, molto lentamente, a lato. Mentre le due fauci contrapposte della più terribile condanna, lentamente, molto lentamente si aprono per darci il benvenuto…
Tanto strettamente ha finito per essere associato il termine “idrofobia” alla malattia diffusa tra determinate specie animali causata dal lyssavirus, la rabbia, da aver fatto largamente dimenticare il suo significato etimologico ai più: dalle parole greche ὑδρο, acqua e ϕοβία, paura e sottolineo terrore, una profonda e indicibile avversione, ovvero l’assoluta incapacità di trovarsi alla presenza di anche soltanto poche gocce di quel fluido trasparente che normalmente ci da la vita. Ora immaginate solamente per un attimo, purché non sia eccessivamente orribile, l’esperienza personale di un qualcuno che si trovi in questo stato non a causa della contrazione di uno stato alterato di salute, bensì per l’effettiva e duratura disfunzione dei propri più intimi processi neuronali. Una condizione, in altri termini, comunemente fatta oggetto di studio da parte della psichiatria. La quale avrebbe, proprio in funzione di ciò, la propensione imprescindibile a tentare di risolvere il problema assai diffuso della crisi di panico. Che quando arriva, arriva, persino in un momento all’apparenza salubre come una sessione d’abluzioni mattutine. Ma chi l’avrebbe mai detto che in effetti il pesce vipera, anche detto Drago Nero del Pacifico, non soltanto esista veramente, ma sia almeno tanto terribile, quanto effettivamente appare…