Riesce ad essere senz’altro sorprendente, se guardata con il giusto spirito analitico, la maniera in cui le origini del concetto stesso di civiltà risiedano in un punto periferico del senso comune, venendo sollevate o discusse solamente in ambiti specifici o in maniera superficiale ed approssimativa. Soprattutto quando si parla delle tre più celebri zone in cui l’associazione umana portò alle prime collaborazioni plurime e la costruzione di grandi comunità stanziali: l’Egitto con le sue piramidi e maestosi templi; la Mesopotamia con le città di Assur, Uruk e Babilonia; le giade incise e le ossa oracolari di tartaruga della Cina d’epoca neolitica e successiva. Mentre assai meno note risultano essere le principali eredità lasciate dalle genti del Messico ancestrale e la valle dell’Indo, ulteriori due poli d’aggregazione e avanzamento tecnologico della collettività umane. Ma praticamente sconosciuta, in questo novero, risulta essere d’altronde quella che viene spesso definita la sesta (non per importanza o ordinamento cronologico) delle sei culle del progresso, l’odierno Perù circondato dall’alta muraglia delle montagne andine. Il che la dice molto lunga, in merito a quanto variabili possano essere i traguardi perseguiti da un intero popolo, e la maniera in cui non sempre il tipo di risorse e vie d’accesso alla prosperità possano essere immediatamente riconoscibili, strutturalmente conformi e mirate all’ottenimento di evidenti o ben riconoscibili vantaggi per la qualità di vita. Che un qualcosa si trovasse, d’altra parte, nell’arido semi-deserto situato tra la principale catena montuosa sudamericana e l’Oceano Pacifico, a 23 Km dalla costa e 182 dalla città di Lima nella valle del fiume Supe presso l’odierna Caral, era stato ben noto fin dall’anno 1948, per le ricerche dell’archeologo americano e principale ricercatore della civiltà di Nazca, Paul Kosok. Il quale tuttavia in assenza di spettacolari geoglifi, o il tipo di reperti che comunemente ci si aspettava di trovare presso gli antichi siti andini, si limitò a menzionare questa posizione nei suoi studi senza dare inizio ad alcuna procedura estensiva di scavo. Così come avvenne di nuovo nel 1975, ad opera dell’architetto peruviano Carlos Williams, che utilizzò l’esempio di possibile città ancestrale all’interno di una sua famosa trattazione della storia costruttiva nazionale. Il che, di fatto, pareva commisurato alla prevista importanza e distinzione dell’intera zona geografica, semplicemente priva di risorse che potessero sostenere grandi concentrazioni umane, dando luogo a significativi lasciti capaci di massimizzare la nostra conoscenza pregressa degli antichi. Questo almeno finché nel 1994, l’antropologa ed archeologa dell’Università di San Marcos, Ruth Shady, non avrebbe spostato la propria significativa lente indagatrice verso gli sparuti rimasugli e poche pietre tagliate visibili in corrispondenza della superficie. Che sarebbero risultate ben presto del tutto conformi al concetto largamente utilizzato della cima dell’iceberg, rivelando al di sotto una pluralità di strutture in muratura che progressivamente diventavano sempre più grandi, sempre più imponenti. Proprio come ci si aspetterebbe accadere, per l’appunto, alla soluzione architettonica maggiormente rappresentativa del mondo antico, in quanto l’unica possibile per costruire più in alto verso il cielo, nell’assenza di materiali o pilastri di sostegno costruibili secondo le modalità disponibili in epoche successive… Una piramide quindi, o per meglio dire tre di queste dalle dimensioni più impressionanti, circondate da una pletora di altre più piccole, complessi residenziali multi-piano e vere e proprie piazze con anfiteatri, costruiti con la distintiva soluzione di una piazza scavata al di sotto del livello del terreno, e circondata da alte sponde in muratura. Il tutto disseminato in uno spazio approssimativo di 60 ettari, definendo a pieno le caratteristiche di quella che poteva solamente essere stata una possente capitale, o città sacra, di un’intero gruppo di associazione etnica, organizzativa e commerciale. Di quella che lei fu pronta a definire civiltà di Caral, benché gli anglofoni preferirono mantenere la precedente definizione, non del tutto corretta, di Norte Chico. Nessuno poteva aspettarsi ciò che sarebbe tuttavia emerso di lì a poco, tramite le prime analisi al carbonio 14 effettuate su alcuni reperti di stoffa e i legami di corde consumate dal tempo, utilizzati spesso per tenere assieme gli agglomerati di pietre costituenti le opere murarie del centro abitato: una datazione acclarata risalente al 3.500 a.C, ovvero antecedente addirittura alla costruzione delle ben più celebri piramidi nordafricane, tanto celebri da aver generato una quantità spropositata di teorie ed ipotesi extra-terrestri. Mentre nessuno, a memoria d’uomo, si è mai preoccupato di cercare giustificazioni per gli antichi popoli del Perù…
sudamerica
L’albero maleodorante che cresce nello spazio tra una santabarbara e il Nirvana
Riecheggia nella giungla, sotto l’ombra delle fresche frasche guaianensi, brasiliane, d’Ecuador. Risuona fuori dal tempio induista, dove fu piantato per errore dalle mani di un gruppo di monaci eccessivamente operosi. Rimbomba sulla costa, lungo i fiumi, dietro gli edifici: il suono della sfera poderosa che precipita dall’alto, schiantandosi sul duro suolo che risulta estremamente lieto di contribuire alle preziose circostanze. Quelle di un proiettile soggetto a spinta gravitazionale, ed accelerazione relativa, che massimamente personifica ed interpreta l’utile aritmetica balistica delle verdeggianti ore. Proiezione di un’assedio, dell’alta corona nei confronti delle radicate propaggini inferiori, che può dirsi parte della narrazione stessa del sistema naturale. In altri termini, un’imprescindibile battaglia, alto Vs basso, e viceversa, il cui concludersi non ha in effetti nessun tipo d’importanza nella qualità ed il progredire della scala dei giorni. Pur rappresentando tutto, semplicemente ogni singola cosa, per colei (la pianta) o colui (l’arbusto) che il mondo della scienza è giunto a definire Couroupita guianensis, mentre tutti gli altri preferiscono l’appellativo di albero delle palle di cannone. E quanta precisione, quale enfasi encomiabile, troviamo espresse nella sua tendenza a dare un senso a tale appellativo programmatico ed esistenziale. Nella maniera in cui, al maturarsi del suo frutto distintivo ed imponente, quest’ultimo si stacca in modo autonomo dai rami. Portando a termine il tragitto fino al suolo, in modo chiaramente letterale, esplode.
Che poi non si tratta, siamo chiari, di una vera e propria deflagrazione, quanto piuttosto l’impatto ed il creparsi dell’oggetto in modo già pianificato, giungendo se possibile a dividersi in due perfette metà sotto l’ombra di una quantità innumerevole d’ulteriori munizioni. Il che costituisce l’occasione, oltre che di emettere quel suono roboante, di far iniziare l’altra parte di un copione largamente collaudato: il diffondersi di un valido ed evanescente odore, simile alla gomma bruciata. Ma che il pecaro (cinghiale dell’America centro-meridionale) o il maiale di Moupin (sua controparte nel subcontinente asiatico) trovano straordinariamente appetitoso, al punto da spostarsi da un lato all’altro del proprio habitat per consumare la tenera, maleodorante polpa al suo interno. E con essa, come si conviene, una grande moltitudine di semi.
Si tratta di una prassi ragionevolmente funzionale alla dispersione vegetale, sebbene segua un tipo di copione dalle origini assai più primordiali ed antiche. Vedi la maniera in cui, durante l’epoca preistorica, questi particolari doni della natura fossero riservati ad una bocca e lei soltanto. Quella dalle labbra prensili, ed i denti simili a una morsa, dell’antico Megatherium, la “grande bestia” che oggi siamo soliti associare al bradipo come suo antesignano delle origini, benché fosse di tutt’altra taglia ed imponenza circostanziale. Tale da poter raggiungere, con le sue 4,4 tonnellate per 6 metri d’altezza, direttamente i rami più bassi di queste piante in grado di svettare fino ai 35, allungando le zampe artigliate al fine d’afferrare e spaccare questo equivalente largamente sovradimensionato di un coriaceo e monocromatico melone. La cui valenza gastronomica, nonostante l’alto contenuto nutritivo, oggi siamo soliti chiamare limitata, visto il sapore tutt’altro che gradevole per quanto concerne il raffinato palato degli umani. Al che appare necessario chiedersi, e di contro giungere a giustificare, la ragione per cui tale pianta sia tenuta tanto in alta considerazione, da parte di culture tanto distanti dal punto di vista geografico, a partire da quando il colonialismo inglese fece in modo di trapiantarlo, di sua pura iniziativa, fuori dalle proprie ambascerie e governatorati del territorio indiano. Cognizione che troviamo garantita da due fattori, più di ogni altro: il primo di natura estetica. Ed il secondo, nato da un fraintendimento di portata più che generazionale…
La tartaruga con la testa di una foglia che si aggira nell’ameno specchio d’acqua sudamericano
“Perciò vedi stimato collega, se riesci a renderla invisibile, non c’è bisogno che sia veloce” Le sale di Ricerca & Sviluppo del Dipartimento risplendevano della luce impersonale ma perfettamente stabile di almeno due dozzine di lampade al led. L’addetto ai mammiferi pensierosamente, ponderò l’inusitato rettile creato dallo stagista dell’ultima ora, la sua testa minacciosa e aerodinamica come quella di un’astronave aliena. “Ascolta, la sai come la pensano coi nasi godzilliani. Ogni raggio laser è stato severamente vietato.” E qui ci fu una pausa ad effetto: “Dopo il verificarsi… Dell’incidente.” Impossibile dimenticarlo: anche se lui personalmente non era stato presente, l’evento gli era stato raccontato almeno una dozzina di volte. Quando la preoccupata controparte ed il precedente occupante della sua sedia, rispettivamente i progettisti della lepre comune e la tartaruga di terra, avevano deciso di mettere alla prova i rispettivi animali in una sorta di “Gara”. Ma le doti concesse all’animale con il guscio, che il troppo entusiastico padrone aveva scelto di chiamare “Guerriero Nero” aveva sorpreso il pubblico radendo al suolo l’intera sala relax ed almeno un metà del terzo piano. “Di questo, puoi stare tranquillo. La mia creazione non ha poteri sovrannaturali di nessun tipo.” Un piccolo sorriso carico di sottintesi. “A parte la capacità di stare ferma immobile, e scomparire.” L’esperto ricombinatore di codici genetici, al servizio del gran Computer dell’Evoluzione, restò bloccato per un attimo, cercando di ponderare un ossimoro di tale incalcolabile portata. Era il segnale: lo stagista premette il grande pulsante rosso sulla scrivania con sotto scritto “simulazione”. La conversazione si era spostata, all’improvviso, presso il fondo di un torbido torrente nel bel mezzo della foresta pluviale. Entrambi i protagonisti della scena avevano adesso un’altezza approssimativa di 6 cm “Ecco, riesci a vederla?” “Um, si, non è troppo difficile, con il mio occhio esperto.” “E adesso?” La grossa tartaruga, simile a un sottomarino militare, si era spostata impercettibilmente sul fondale. Coperta almeno in parte da un significativo ritaglio d’alghe, in mezzo a pezzi di corteccia e tronchi caduti, pareva soltanto un ulteriore detrito rotolato lì dentro per effetto del riciclo inenarrabile della natura. I suoi bargigli e le sfrangiate creste frontali si agitavano leggere nella corrente “Si, capisco cosa intendi. Ma hai visto le ultime creazioni del reparto Mare, Oceano e Laghi? Quei piccoli pescetti hanno riflessi formidabili. Sono svegli! E resistenti! A meno che la tua magnifica bestia abbia un collo che si allunga come quello di un serpente, e fantastiche capacità masticatorie, non ce la farà mai a prosperare oltre il livello necessario per l’approvazione dei parametri, blah, blah, blah” Mentre parlava, lentamente, l’addetto demiurgo anziano vide progressivamente l’esaurimento della sua enfasi retorica. Adesso un piccolo branco di blenniodei, buffi piccoli abitanti dalla livrea variopinta e gli occhi sporgenti, si avvicinavano inconsapevoli alla sua posizione. Il guscio vagamente piramidale ruotò lentamente su stesso di una cifra approssimativa di 36 gradi. La sporgente proboscide della creatura prese a sollevarsi come la minacciosa canna di un cannone d’artiglieria. Le fauci presero ad aprirsi e senza alcuna soluzione di continuità, all’improvviso, il pesce era sparito. “Non vorrai dirmi che…” Oh, si. Eccome. “Praticamente, l’avrebbe…” Certo, adesso la questione si faceva maggiormente chiara. Ogni bisogno di rincorrere una preda diventa essenzialmente superfluo, quando si possiede la risorsa irresistibile di un potentissimo risucchio.
Vagamente simile, nell’aspetto complessivo, alla ben nota tartaruga alligatore nordamericana (Macrochelys temminckii) ma con uno stile di vita maggiormente simile all’assai più aggressiva e pericolosa testuggine azzannatrice (Chelydra serpentina) la straordinariamente distintiva ed innocua per l’uomo abitatrice dei fiumi del Rio delle Amazzoni e dell’Orinoco viene spesso definita con il suo nome nella lingua Tupi dei nativi, di matamata (o mata-mata) il cui significato parrebbe allinearsi col concetto stranamente tecnologico di una “morsa”. Nomenclatura preferita anche perché la definizione scientifica, fin dall’epoca della sua scoperta nel 1741, è variata un gran totale di almeno 14 volte in un periodo di due secoli, giungendo a fissarsi su Chelus fimbriata dal 1992 e in un periodo di stasi destinato a durare soltanto fino al 2020, quando l’individuazione di una serie di differenze genetiche ed esteriori ha portato alla classificazione della nuova specie Chelus orinocensis, tassonomicamente distinta rispetto alla popolazione principale di queste creature. Entrambi esseri perfettamente adattati, dal punto di vista di ogni loro singolo tratto rilevante, alle caratteristiche specifiche di un determinato ambiente, più unico che raro. Nel quale potremmo giungerle a definire, ponendo delle non eccessivamente arbitrarie linee di demarcazione, l’espressione perfettamente apprezzabile, per quanto quieta e facile da soprassedere, del perfetto ninja predatore…
Il terzo cruciale avvistamento del più raro topo sudamericano e del mondo
Nella quotidiana ricerca personale di specie ritenute ormai estinte, come nel caso degli UFO che talvolta giungerebbero a visitare la Terra, poter classificare la portata degli eventi è un’opportunità importante. Così che ogni singolo incontro con la “creatura”, per lo meno in via ideale, finisce per appartenere ad una di tre classi successivamente più memorabili ed evidenti. A partire dal primo tipo, consistente nell’avvistamento da lontano: soltanto una forma indistinta, come una sagoma tra gli alberi, che potrebbe essere o non esser l’ideale soggetto della propria ossessione, prima di sparire nuovamente nella foresta. Un dubbio che diviene maggiormente labile, nel caso del secondo tipo, a seguito del quale segni assai tangibili del suo passaggio diventano la prova di quell’impressione o speranza: feci, marchi territoriali, ciuffi di pelo, persino tane abbandonate. Ma fu di sicuro un chiaro esempio d’incontro ravvicinato, quello fatto appartenere convenzionalmente al terzo gruppo di episodi inter-specie, quello sperimentato direttamente da Lizzie Noble e Simon McKeown, due ricercatori volontari dell’organizzazione ecologica Fundación ProAves, il 4 maggio del 2011 alle ore 21:30, non troppo lontano dalla Riserva Naturale di El Dorado presso il distretto colombiano di Santa Magdalena. Episodio avvenuto tra l’altro, contrariamente alle legittime aspettative, non presso i recessi più remoti ed oscuri della locale foresta pluviale pedemontana bensì ai margini di questa, proprio di fronte al ristorante degli alloggi costruiti dalla Fondazione. Dove una forma impossibilmente riconoscibile, oscillando lievemente, prese a risalire uno scalino alla volta del foyer, per poi mettersi quietamente in mostra sopra la struttura della balaustra normalmente adibita all’utilizzo umano: essere chiaramente topesco dalla lunghezza di almeno 50 cm, con lunghi baffi e la coda nettamente divisa tra i colori bianco e nero, mentre il resto del manto appariva di un color marrone/rosso-scuro. Ma sarebbe stata l’alta cresta sopra la sua testa, tra due orecchie stranamente frastagliate per caratteristica biologicamente innata, a permettere l’istantaneo riconoscimento. Come un membro a pieno titolo di una specie mancata all’appello per un periodo di oltre un secolo, avendo portato ormai da tempo alla dichiarazione della sua probabile scomparsa dal novero delle specie viventi. “Possibile che sia… Il topo crestato di Santa Marta, anche detto S. rufodorsalis?” esclamò con tono interrogativo quindi McKeown, mentre con estremo sangue freddo e professionalità la sua collega Noble già si era applicata nel porlo al centro dell’inquadratura con la fotocamera che, per fortuna, aveva lì con se. I due avrebbero descritto quindi in svariate interviste, per filo e per segno, i sentimenti che li avevano attraversati a seguito di quel momento: sorpresa, entusiasmo, incredulità ed infine gioia, per essere stati il tramite alla registrazione di un così lieto evento il cui ultimo verificarsi era databile soltanto al 1913, grazie alla cattura di seconda mano registrata dal ricercatore americano Melbourne Armstrong Carriker. Ed il primo, registrato nei diari del collezionista di animali impagliati e conchiglie Herbert Huntingdon Smith, ulteriori 15 anni prima di quella data. Perciò immaginate voi cosa potesse significare poter finalmente dimostrare al mondo come almeno un singolo esemplare di una delle chimere più lungamente ed inutilmente inseguite nell’intero circondario di una regione non più vasta di 100 Km quadrati, dopo un così lungo tempo, viveva ancora! E come si usa dire a proposito dei proverbiali masticatori di formaggio: “Dove c’è n’é uno…”
Benché resti opportuno a questo punto specificare come, in merito a creature tanto eccezionalmente rare ma anche il suo intero genus d’appartenenza in realtà piuttosto conosciuto, ben poco del senso comune trovi un’applicazione logica e continuativa nel tempo. Trattandosi di creature straordinariamente adattate alla vita arboricola nel mezzo della giungla, per cui la costante battaglia con i predatori diviene il ritmo in grado di scandire le proprie difficili e certamente lunghissime giornate…