Il vero significato della parola “trenino”

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E QUELLA me la chiami locomotiva? Codesto metallico trastullo, vorresti considerarlo un degno cavallo d’acciaio? Una tale cromata cosa, intenderesti consegnarla ai posteri con la nomea di “Gran Signore della Strada Ferrata”? Per piacere, non scherziamo! Macchinista, conducente, manovratore, operatore, locomotorista… Ché qui, le cose sono due: o tu guidavi i treni per davvero, finché un giorno, fulminato dal senso poetico di un tale gesto, non ti sei deciso a farlo pure in casa, ricorrendo al pratico strumento della riduzione in scala. Oppure, la tua più sincera passione è l’energia del possente Vapore. E non c’è davvero limite, in tal caso, a quello che potresti giungere a far sbuffare!
Quando si parla della scala dei trenini più popolare al mondo, volendo essere specifici al massimo (come pretende l’ambito altamente tecnico e quasi ingegneristico di chi guida treni per sport) non ci si sta riferendo ad altro che a quella identificata con la dicitura HO, ovvero la 1:87. Il che, in termini pratici, pone una locomotiva alla lunghezza approssimativa di una matita, mentre prevede le rotaie distanziate di pratici 16,5 mm. Certo, girando il mondo ne esistono di MOLTO differenti. Gli inglesi ad esempio, con la loro usuale propensione a distinguersi, impiegano comunemente la scala OO, leggermente più grande (1:76) mentre in Germania coesiste, in parallelo alla HO, anche la classe dei trenini G, in grado di raggiungere e superare una scala di 1:29: stiamo parlando, per intenderci, di rotaie distanziate di 45 mm, con vagoni lunghi, all’incirca, quanto un avambraccio. Ma è subito al di sopra di questo “ragionevole estremo” che le cose iniziano a farsi davvero interessanti. Perché superando la scala 1:20, succede qualcosa di molto particolare: la fisica terrestre inizia a permettere un qualcosa di particolarmente l’impiego di un sistema di propulsione comparabile, sotto molti aspetti, a quello delle locomotive full-size. Uno spettacolo… Appassionante. Ciò è guardare all’opera Ernie Beskowiney, presso la Bitter Creek Western Railroad in California, ferrovia privata con scartamento di 7 pollici e mezzo (200 mm ca.) mentre mette in condizioni operative la sua spettacolare Canadian National #6060, una riproduzione in scala della locomotiva soprannominata dagli abitanti del vasto Nord Bullet Nose Betty, in funzione della parte frontale dalla forma a cono. Il magnifico apparato, che una volta deposto a terra risulta in grado di raggiungergli l’altezza della vita, ha richiesto all’incirca 35.000 ore di lavoro per raggiungere un simile grado di perizia nella ricostruzione in scala 1:8 dell’originale e può sviluppare, grazie alla sua caldaia a gas propano, fino a 220 Kg di trazione. Il che significa, a voler essere diretti, che può trainare un treno di fino a 48 persone.
Ed è veramente questo, alla fine, il nesso principale della questione? La mera, semplice potenza? Piuttosto che il desiderio di creare un qualcosa di unico, in grado di lasciare il segno all’interno di un àmbito in cui l’espressione personale è tutto, e offrire una visione al mondo della gioia che possono dare i treni, diventa quasi autonomamente il senso ultimo della giornata… Voglio dire, si può anche decidere arbitrariamente che le cose grandi siano in automatico più belle (molti lo fanno) ma il punto distintivo è la funzione. Ciò che serve ad uno scopo  ben preciso,  quale trasportare cose o persone fino alla stazione successiva, può essere ammirevole, stupendo, significativo. Ma mai davvero, buffo e divertente. Diventa quindi tutto, una questione di priorità…

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Scalare la Grande Muraglia senza lasciare il fiume

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Settembre 2016: un grido riecheggia tra le ampie valli, le grandi foreste, le vaste pianure: “Finalmente…Finalmente è finita. Dopo vent’anni, dopo tutti quei danni. Eppure, mettetevi nei nostri panni! Energia infinita, per una Cina…Disinibita.” O per usare un termine meno colorito: libera finalmente, dalla necessità d’importare megawatt, potendo far fronte all’intero fabbisogno della sua popolazione di 1,3 miliardi di anime, una considerevole percentuale delle quali dotate di televisore, computer, condizionatore d’aria… Asciugacapelli, forno a microonde, brucia-incenso a corrente… Roba da far girare la testa a qualsiasi commissione d’approvvigionamento logistico, come talvolta ha necessità di prefigurarsi il conglomerato di capi d’azienda, nome in codice SASAC (State-owned Assets Supervision and Administration Commission) supervisionato dal governo centrale di Pechino e il più grande partito del mondo. Che ricevette l’incarico nel 1994, ancor prima di vedersi assegnato il ruolo istituzionario che oggi ricopre, di dare forma ad uno dei più noti e ponderosi sogni del gran timoniere Mao Zedong: costruire una diga, la più grande che il mondo avesse mai visto! Costruire una diga sul Fiume Blu. Quel corso d’acqua che oggi nessuno più chiama così, soprattutto perché le sue acque cariche di scorie hanno assunto tutt’altro colore, portando a preferire il termine più generico di Fiume Lungo, ovvero l’amato-odiato Yangtze. Amato perché costituisce, da tempo immemore, la fondamentale fonte d’irrigazione e di cibo per innumerevoli comunità agricole. Ed odiato in quanto, una volta ogni tot anni, ha da sempre avuto la problematica propensione a straripare, portandosi via tutti gli stambecchi, i cetrioli e le risaie trovate sul proprio corso. Già di per se un grave problema, anche senza considerare l’inestimabile perdita di vite umane.
Mettere assieme i fondi per quella che sarebbe diventata la diga delle Tre Gole, ovviamente, non fu cosa da poco. 2,3 Km di lunghezza, per 181 metri di altezza dalla sabbia granulosa del fondale, raggiunti grazie al sistema particolarmente ingombrante (ma più sicuro) della diga gravitazionale: essenzialmente un colossale trapezio di acciaio e cemento in cui ogni ideale sezione superiore a quella sottostante avrebbe potuto, in linea di principio, sostenere il peso di se stessa e dell’acqua a partire dal suo livello. Inoltre, andava considerato come il fiume costituisse una fondamentale via per gli scambi commerciali della regione, le cui alte montagne rendevano eccessivamente difficile uno spostamento di mezzi pesanti su strada. Esisteva infatti un progetto, risalente al remoto 1944, creato da un team d’ingegneri cinesi formati negli Stati Uniti, per costruire un sistema di chiuse successive oltre le quali le navi sarebbero state spostate grazie a delle potenti gru. Un pressoché fantascientifico, che per fortuna non fu mai realizzato. Si stimò comunque che il costo complessivo dell’opera, al raggiungimento dello stato operativo, avrebbe raggiunto i 180 miliardi di Yuan ovvero circa 27,6 miliardi di dollari, una cifra che sarebbe stata recuperata grazie alla produzione di energia nel giro di 10 anni. Come spesso capita quando si cercano informazioni in merito alla Cina moderna, non è facile comprendere tramite Internet se il budget sia stato in ultima analisi pienamente rispettato (improbabile) o meno, benché sia eccessivamente palese che la diga esiste, insiste e persiste, costituendo nei fatti la singola centrale elettrica più potente nella storia dell’uomo. 22.500 MW in totale, così ripartiti: 32 generatori principali da 700 MW ciascuno più due ausiliari per alimentare la diga stessa, da “soltanto” 70 MW ciascuno. Considerate che la più grande centrale nucleare che abbiamo mai avuto in Italia, quella di Caorso chiusa nel 1990, ne produceva in TOTALE, 860. In altri termini, ciascun singolo generatore della diga delle Tre Gole potrebbe bastare al fabbisogno di una grande città. Mentre tutti assieme, essi avrebbero fatto fronte, nel progetto originario, al 10% dell’intero consumo d’energia cinese. Un numero che si rivelò ben presto esagerato di oltre 9 volte, quando ci si rese conto di quanto fosse aumentato il consumo giornaliero dell’abitante medio a partire dal 1994.
Che cosa, dunque, ha permesso di apporre la parola fine all’eterno progetto, che del resto avrebbe già riguadagnato il suo intero costo nel 2013 stando alle fonti ufficiali? Se avete guardato il video di apertura, già lo saprete: il completamento dell’ascensore per barche originariamente previsto, sebbene con modalità molto diverse dall’epica visione degli ingegneri americanizzati. Stiamo comunque parlando, neanche a dirlo, della più imponente infrastruttura mai edificata a tal fine.

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L’ideale per chi ha sempre desiderato un jet

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Una spettacolare sensazione, quella meravigliosa vibrazione, di un motore, anzi addirittura due, che invece di ruotare, pulsare, far flettere dozzine di pistoni, brucia ed arde di passione, espande il fluido al proprio interno e ridistribuisce l’ordine ed il senso dello spazio. 10, 15, 20 Km? Una bazzecola, roba da nulla. 270, la distanza tra Roma e Genova? Posso percorrerla in un’ora. E ti assicuro: neanche sono miliardario! Perché il mio mezzo, nonostante la velocità chiaramente dimostrata, non è un aereo privato della classe e dimensione comunemente impiegate dai capi d’azienda, come un Bombardier Learjet o un Aérospatiale SN-601 Corvette, né tanto meno uno di quei giganteschi aerei di linea riconvertiti a suite volanti dagli emiri o dagli attori di fama internazionale. Stiamo parlando, in effetti, di un mezzo che costa quanto un’automobile sportiva. Di classe media: 20.000 euro o giù di lì. A patto, naturalmente, di ordinare i piani per posta e costruirselo da soli. Con appena qualche decina di migliaia di ore di lavoro, però vuoi mettere, la soddisfazione… Di posizionare in prossimità del muso, al termine dell’opera, due motori JetCat P200SX, del tipo concepito per i modellini radiocomandati, poco prima di andare anche noi lassù… Intendiamoci, se il concetto stesso alla base di questo aeromobile, creato originariamente dall’aviatore francese Michel Colomban nel 1970, vi sembra un’assoluta follia, questo è probabilmente anche perché in linea di principio, esso non avrebbe dovuto superare di molto i 150 Km/h. Il CriCri, come lui l’aveva definito riprendendo il nomignolo usato per la figlia (ma anche la parola inglese per il grillo, cricket) sfruttava infatti in origine due motori ad elica convenzionali, già comunque sufficienti ad inserirlo nel Guinness dei Primati come più compatto bimotore al mondo.
Ma i sogni di bambino non riescono ad accontentarsi, e una volta che si dispone dei mezzi finanziari, del tempo libero e della forza di volontà necessari a realizzare il proprio sogno, tutto diventa possibile. Persino volare alla stessa maniera del vetusto supereroe The Rocketeer. Fuoco e fiamme, scie nel cielo, il senso di lasciarsi indietro i limiti del tempo e dello spazio. Restando in grado, dal momento del proprio decollo fin quando non si tocca terra presso l’obiettivo, di allungare le proprie braccia ai lati, giungendo ipoteticamente a toccare la punta delle proprie stesse ali. Dico in teoria, perché di certo è consigliabile, nell’assemblare il proprio velivolo, includere il coperchio trasparente dell’abitacolo, quell’elemento quasi sproporzionato rispetto al resto dell’aeroplanino che riesce a farlo assomigliare all’automobile volante del padre dei Jetsons. Il che potrebbe essere, chissà, persino intenzionale. Stando alle informazioni reperibili online, il primo a pensare di combinare questo aeroplano con la potenza straordinariamente compatta dei motori JetCat potrebbe essere stato Nicolas Charmont con il suo Cri-Cri F-PZPR, ma non fu certamente l’ultimo, visto come il video soprastante sia invece il prodotto del pilota di nome Edith Piaf. Le caratteristiche di questa versione dell’aereo, dopo tutto, sono straordinariamente funzionali all’idea di base: rendere il volo a reazione accessibile a chiunque. Ciò perché il peso a vuoto del Colomban è molto significativo, con i suoi appena 78 Kg, sufficienti a rientrare a pieno titolo nella legislazione degli ultraleggeri in quasi ogni paese al mondo, venendo a tutti gli effetti classificato alla stregua di un aliante dotato di motore/i. Il che non significa, ad ogni modo, che si possa guidare senza nessun tipo di esperienza o corso preparatorio: specie nella configurazione jet, infatti, l’aeroplanino presenta una sensibilità alle sollecitazioni paragonabile a quella di un intercettore militare, e potrebbe bastare dunque il minimo errore ai comandi per trovarsi in stallo o in una vite irrecuperabile, con conseguenze estremamente facili da immaginare. Quando a ciò si aggiunge che la struttura dell’aeromobile, per ovvie necessità progettuali, è costituita essenzialmente da un sottile velo di alluminio incollato a una schiuma in PVC Klegecell, operazione rigorosamente effettuata nel cortile di casa propria, si capisce finalmente l’entità del coraggio necessario ad impiegarlo per i propri tragitti veicolari…

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Che fa l’esercito se trova un fiume

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È davvero una dimostrazione puntuale di tecnologia ed organizzazione tedesche, la sequenza operativa che viene mostrata in questo spezzone dello show del 2004 Massive Machines con Chris Barrie, l’attore inglese famoso per la serie fantascientifica Red Dwarf. In cui, durante quella che sembrerebbe a tutti gli effetti essere una vera e propria esercitazione militare, ma potrebbe anche costituire una scena approntata appositamente per la TV, un reparto della Bundeswehr mostra la propria abilità nell’impiego e manovra degli M3 Amphibious Rig, gli unici camion che sono anche hovercraft, isole mobili, ponti… Tutto ciò e molto più, a seconda delle necessità palesate dal corpo di spedizione in cui vengono normalmente incorporati: una colonna di moderni carri da battaglia Leopard 2; oppure nel caso in cui ci si trovi all’altro lato della Manica, di altrettanto temibili Challenger 2; o ancora, per quanto concerne il terzo e quarto degli utilizzatori di simili mezzi anfibi (Taiwan, Brasile) di ben più desueti Leopard 1 ed M60 Patton, benché la situazione potrebbe cambiare assai presto. Almeno, secondo i piani di budget stilati dai governi di un mondo tutt’altro che stabile. In cui persistono, tuttavia, le certezze: che nel momento di un ipotetico ingaggio campale di terra, eventualità già tutt’altro che probabile in uno scenario di guerra moderno, l’addestramento e la tattica possano rispondere soltanto al 65% circa del carico operativo necessario per conseguire un vantaggio strategico a medio-lungo termine. Laddove avanzare indisturbati, persino sotto il battente fuoco delle postazioni nemiche, non significa assolutamente nulla, a meno di poter assicurare il raggiungimento dell’obiettivo in tempo utile, senza subire ritardi dovuti alla conformazione del teatro operativo.
E forse ci avrete già pensato, oppure magari no: far spostare un veicolo cingolato del peso di 62,5 tonnellate (Inghilterra) o 62,3 (Germania) per quanto quest’ultimo sia potente ed inarrestabile, può incontrare più di qualche “piccolo” problema. Primo fra tutti, l’assenza effettiva di un ponte adeguato a sostenere il suo peso, specie in prossimità di un guado troppo largo, e/o vorticoso. Intendiamoci: è l’assoluta verità. I carri armati moderni, generalmente, sono progettati per operare sott’acqua fino alla profondità di 3-4 metri, facendo affidamento su un sistema di prese d’aria rimovibili che gli consente di trasformarsi in goffi  palombari d’acciaio. Ma un conto è dimostrare la fattibilità di un simile approccio nelle condizioni ideali e patinate di un ingaggio “per finta”, tutt’altro è applicarsi ad impiegarlo sul campo di un vero conflitto, in cui l’individuazione da parte del nemico al momento sbagliato potrebbe far da apripista a un’attacco a sorpresa. Fu perciò determinato, nell’ormai remoto 1982, che le forze della NATO necessitavano di un’apparato altamente mobile, sempre pronto all’uso e facilmente schierabile, che permettesse di approntare una struttura di passaggio di corpi d’acqua d’entità significativa, ovvero le difese naturali di un eventuale territorio soggetto ad invasione di terra. Scenario inquietante, a quell’epoca, se mai ce n’era stato uno…L’appalto venne così dato alla Eisenwerke Kaiserslautern, compagnia ingegneristica dell’allora Repubblica Federale Tedesca (Germania Ovest).
Fast-forward di 12 anni; ebbene si, i tempi di simili progetti tendono ad essere piuttosto lunghi. Talmente tanto, che il muro era caduto, il grande freddo finito, e un nuovo ordine globale apparentemente incline alla Pace, pareva essere subentrato alle turbolente correnti politiche del secolo più buio vissuto dall’uomo (ah, beate illusioni!) Era il 1999, e mentre le autoradio di mezzo mondo vibravano al ritmo di I Don’t Want To Miss a Thing degli Aerosmith, il primo reale Trasformer ad uso militare spalancava le sue braccia, ad abbracciare la superficie umida del grande corso del tempo.

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